Regione del Veneto - U.O. Sistema Statistico Regionale
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Rapporto Statistico 2013
Capitolo 11

Lavoro e istruzione: vecchie e nuove sfide

Inizio Pagina

11.1 - Il lavoro: la metamorfosi italiana dal dopo-guerra a oggi

L'occupazione in Italia e in Veneto

Ripercorrendo i cambiamenti storici

Dalla nascita del Regno d'Italia ad oggi, il nostro Paese ha attraversato molteplici trasformazioni socio-economiche con conseguenze profonde nel mercato del lavoro. Dopo la seconda guerra mondiale, la situazione occupazionale in Italia era veramente tragica: sebbene ci fosse un divario notevole tra lo sviluppo delle regioni del Nord, orientate verso un sistema industriale, e quelle meridionali, prevalentemente agricole e quindi più povere, la mancanza di posti di lavoro era generalizzata in tutto il paese. Agli inizi degli anni Cinquanta, poi, nonostante l'avvio della riforma agraria e gli aiuti straordinari destinati al Mezzogiorno, gli industriali del Nord trovarono un esercito di lavoratori meridionali disoccupati e disponibili a trasferirsi per trovare lavoro; il che consentì al Nord di mantenere i salari bassi, favorendo il cosiddetto "miracolo economico", mentre per il Sud significò ancora una volta spopolamento e ristagno. Nelle regioni settentrionali si originò, così, il fenomeno dell'urbanesimo, che portò tuttavia anche dei problemi sociali dovuti alla carenza dei servizi essenziali (case, scuole, ospedali ecc.).
L'offerta di lavoro si mantenne elevata per circa un decennio e, a metà degli anni Sessanta, cominciò a diminuire. Nelle regioni meridionali si era sempre più consapevoli che l'unica possibilità di trovare lavoro era l'emigrazione, ma meno era la voglia di allontanarsi dalla propria terra.
Negli anni a seguire, la domanda di lavoro cominciò a superare l'offerta causando un'elevata conflittualità sociale che a metà degli anni Settanta porto alla riforma della scala mobile. Negli anni Ottanta la realtà economica italiana subì un'ulteriore forte trasformazione: il terziario sorpassò l'industria quanto a numero di lavoratori. Tuttavia, la disoccupazione continuò ad aumentare, anche se, per facilitarne l'ingresso nel mondo del lavoro delle categorie più deboli, si erano adottati provvedimenti speciali come i contratti di formazione lavoro per i giovani e il part-time per le donne. Sono gli anni anche dell'immissione nel mercato occupazione dei figli del baby boom della metà degli anni sessanta e della maggiore partecipazione delle donne.
Alla fine degli anni Ottanta il quadro era abbastanza variegato: mentre al Nord si era vicini almeno alla piena occupazione maschile, il Sud continuava a vivere situazioni di forte disagio.
Si arriva così agli anni Novanta e il problema occupazionale è preoccupante; nel '92 si assiste alla crisi valutaria e finanziaria: sotto la pressione della speculazione internazionale, la lira viene svalutata notevolmente e costretta ad uscire temporaneamente dal Sistema Monetario Europeo. La recessione economica, unita alla riconversione tecnologica e la conseguente rivisitazione dei modelli organizzativi industriali, provoca una contrazione di manodopera da tutti i settori, soprattutto dall'industria e dalle grandi fabbriche del Nord. Nonostante ciò, il processo di integrazione europea prosegue, tanto che a Maastricht nello stesso anno viene sottoscritto l'accordo per la creazione di una moneta e di una politica monetaria unica comune a tutti i paesi partecipanti.
In questo scenario il mercato italiano agli inizi degli anni '90 era caratterizzato da forti rigidità che accentuavano i differenziali nella disoccupazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Da un lato, infatti, l'incontro tra domanda e offerta di lavoro era affidato ad agenzie di collocamento incapaci di mettere in comunicazione le necessità delle diverse aree del paese; dall'altro erano ancora scarse le possibilità di ricorrere a forme flessibili di occupazione, dovute alle restrizioni nella stipula di contratti a termine, all'elevata onerosità per le aziende nell'utilizzo del lavoro part-time e alla stringente regolamentazione del licenziamento. Per superare queste difficoltà, si avvia in Italia un processo di riforme strutturali nel mercato del lavoro volte ad accrescerne la flessibilità, sia attraverso la riforma del sistema di contrattazione salariale che attraverso l'introduzione di forme contrattuali meno rigide. Riguardo ciò, i cambiamenti più importanti provengono dal "Pacchetto Treu" del 1997, dalla normativa dei contratti a tempo determinato del 2001 e dalla "Legge Biagi" del 2003.
Il pacchetto Treu, introducendo profonde modifiche in tema di contratti a tempo determinato, tenta per la prima volta di abbassare i vincoli al potere di assunzione e licenziamento delle imprese e ampliare le possibilità di accesso al mercato lavorativo soprattutto a donne e giovani. Di seguito il decreto legislativo n.368/2001 liberalizza il ricorso ai contratti a tempo determinato, ampliando di molto la gamma dei casi cui fosse possibile farvi riferimento, ma è con la Legge Biagi e i successivi decreti attuativi che si pone in modo più esplicito l'obiettivo di creare le condizioni per risolvere la problematica occupazionale anche in relazione alla sua dimensione territoriale. A questo proposito, furono molti gli strumenti introdotti per incentivare i passaggi da un'impresa ad un'altra (mobilità lavorativa) e da una regione ad un'altra (mobilità geografica): l'introduzione di nuove forme contrattuali flessibili (lavoro a chiamata e lavoro a progetto) e l'estensione del campo di applicazione di istituti già esistenti (part-time e contratto di apprendistato), la riduzione dei vincoli di assunzione e di licenziamento, l'avvio di politiche volte a favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, riducendo la durata dei rapporti di lavoro e stimolando le persone alla ricerca di un'occupazione.

I risultati delle riforme

Analizzando i trend del tasso di disoccupazione e di occupazione è possibile valutare l'efficacia degli interventi di riforma. Dal 2003 risultano ridotte le disparità territoriali, il divario nella disoccupazione tra Nord e Mezzogiorno decresce sensibilmente passando da un gap di oltre dodici punti percentuali del 2003 a 7 punti del 2009; purtroppo la crisi che stiamo vivendo proprio dalla fine del 2008 - inizio 2009 ha vanificato tali risultati riaccentuando le differenze. Ottime le performance della nostra regione che dalla fine degli anni Novanta alla crisi economica attuale ha registrato tassi sempre più bassi, passando dal 6,4% del 1997 al 3,5% del 2008.
Il tasso di occupazione, poi, a seguito delle modifiche normative cresce tendenzialmente fino a prima dello scoppio della crisi sia a livello nazionale sia nella nostra regione. In dettaglio, nella nostra regione si passa dallo scarso 59% del 1995 all'oltre 66% del 2008. Significativo l'aumento dell'indice occupazionale tra il 2002 e il 2003 a effetto anche della sanatoria sull'immigrazione: in Veneto, infatti, il tasso cresce di quasi un punto percentuale. (Figura 11.1.1)
A seguito delle riforme si registrano anche minori tassi di disoccupazione tra i giovani e più alte quote di partecipazione nel mercato lavorativo delle donne sia a livello nazionale sia in Veneto. Infatti, per quanto riguarda il tasso di disoccupazione giovanile, in Italia si passa dal 29,6% registrato nel 1997 al 23,6% del 2003 al 20,3% del 2007, mentre in Veneto, negli stessi anni, rispettivamente, il 14,1%, il 9,3% e l'8,4%. Il tasso di occupazione femminile aumenta progressivamente tra il 1997 al 2008 passando in Italia dal 39,2% al 47,2% e nella nostra regione dal 46,8% al 55,5%.

Il Veneto: una regione forte nonostante la crisi

Dall'autunno del 2008, tutti i risultati ottenuti vengono vanificati dalla crisi economica ancora in atto, allontanandosi così dagli obiettivi fissati per il 2010 nella strategia di Lisbona, in particolare raggiungere un tasso di occupazione 15-64 anni del 70% e ridurre la disoccupazione in maniera sostanziale.
In Italia, inoltre, si registra un intreccio particolarmente complesso tra le trasformazioni demografiche e il mercato del lavoro. La combinazione di longevità in aumento e la minore fertilità porta a un peggioramento del rapporto di dipendenza: diminuisce la popolazione in età lavorativa e, conseguentemente, l'offerta di lavoro potenziale e la crescita economica. L'emergenza dell'invecchiamento e della crisi degli ultimi anni evidenziano così la necessità di un'azione politica tesa a promuovere anche una gestione più prudente dei risparmi pensionistici. Un passo avanti in tale senso viene fatto con la recente riforma previdenziale del decreto Monti del 2011 che mira ad aumentare l'età di pensionamento media nei prossimi decenni attraverso un irrigidimento delle condizioni di accesso per età/anzianità contributiva e tramite l'introduzione di vincoli sull'importo necessario affinché il diritto al pensionamento possa essere esercitato.
Tra le priorità del governo tecnico di Monti in campo di occupazione la flessibilità del mercato lavorativo, sia in entrata e che in uscita, una riforma strutturale del sistema degli ammortizzatori sociali e la piena inclusione di donne e giovani, questi ultimi colpiti particolarmente dalla crisi. Priorità che trovano maggiore struttura nell'ambiziosa "riforma Fornero" (Nota 1) del 2012 volta a rinnovare e riorganizzare il mercato del lavoro italiano, che ha dimostrato di non essere più adeguato ai tempi.
In questo contesto si inserisce anche la nuova strategia definita dalla Commissione europea, "Europa 2020", con lo scopo di guidare il continente fuori dalla crisi economica e soprattutto di dargli un nuovo indirizzo e nuovi obiettivi per affrontare con successo le sfide del prossimo decennio. Proseguendo il lavoro fatto con la precedente strategia e riprendendo parte degli obiettivi, "Europa 2020" si basa su tre priorità fondamentali che si esplicitano in cinque nuovi obiettivi, uno dei quali in particolare riguarda l'occupazione: arrivare ad occupare il 75% della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni entro il 2020.
Nel 2012 in Veneto, sebbene la crisi si faccia sentire sempre di più, l'occupazione si mantiene sui livelli dell'anno precedente registrando un tasso di occupazione della popolazione 20-64 anni pari al 69,3%, il quarto valore più alto fra le regioni italiane, e raggiungendo il target fissato dalla strategia di Lisbona (ossia un livello occupazionale del 69% entro il 2010). Lontana, invece, l'Italia che rileva un tasso del 61%, sette punti percentuali e mezzo in meno del dato dell'UE27. Considerati questi dati, a fronte del nuovo obiettivo europeo per il 2020, il governo italiano fissa per l'Italia un target più realistico compreso tra il 67% e il 69%, valore già raggiunto dal Veneto che può quindi aspirare al target europeo.
Rispetto all'anno precedente rimane invariato anche il tasso di occupazione in età 15-64 anni: 65% in Veneto, sempre il quarto valore più alto fra le regioni, contro il dato nazionale pari al 56,8% e il dato medio europeo del 64,2%. In dettaglio, rispetto al 2011, nella nostra regione è in crescita il tasso di occupazione della popolazione con cittadinanza italiana (65,8% contro il 65,3%), mentre diminuisce quello degli stranieri che passa dal 62,4% al 59,4%. In generale, comunque, dallo scoppio della crisi il livello occupazionale in Veneto perde circa un punto e mezzo (due punti in l'Italia), soprattutto a causa del calo della componente maschile che nel 2012 si attesta intorno al 75% rispetto al 77% di quattro anni prima, rimanendo però il secondo valore più alto in Italia. Le donne venete, invece, dopo anni di progressiva crescita, iniziano a incontrare difficoltà, ma già negli ultimi anni la situazione migliora e nel 2012 il tasso di occupazione risulta pari al 55%, solo mezzo punto in meno del 2008 e tre punti in più del 2001, sebbene ancora basso e al di sotto della soglia del 60% fissata dalla strategia di Lisbona per il 2010.
Complessivamente, nonostante la recessione economica, tra il 2000 e il 2012 tre quarti delle regioni italiane hanno visto aumentare i propri livelli di occupazione. Il Lazio è la regione che in dodici anni ha fatto più progressi incrementando di sei punti percentuali e mezzo il dato iniziale; segue la Liguria con un miglioramento di quattro punti percentuali. Il Veneto, che partiva da una situazione già più favorevole, presenta anche il quinto aumento più consistente nella graduatoria regionale (+ 2,9 punti). Viceversa, nel Sud, da sempre protagonista di forti disagi, si registrano le condizioni peggiori. (Figura 11.1.2)

Cos'è cambiato per giovani, donne e anziani?

Particolarmente colpiti dalla crisi, i giovani (Nota 2), mentre sempre più alti sono i livelli di occupazione delle persone in età 55-64 anni.
In Veneto, negli anni '90 il tasso di disoccupazione giovanile si è mantenuto al di sopra del 13% per poi diminuire fino a raggiungere valori minimi nel 2002 e nel 2007 (rispettivamente 8,3% e 8,4%). Con la crisi, invece, nel giro di pochi anni, la disoccupazione è cresciuta di 13 punti percentuali (14 rispetto a inizio secolo), raggiungendo un tasso del 23,7% nel 2012. Va sottolineato, però, che la situazione dei giovani veneti è tra le più favorevoli in Italia: infatti, si classifica, comunque, come la seconda regione italiana per i livelli di disoccupazione più bassi; primo il Trentino Alto Adige con il 15,2%. In generale, in Italia la disoccupazione giovanile in undici anni cresce ovunque fino a raggiungere nel 2012 una quota pari al 35,3% fra le forze lavoro, con regioni che sfiorano anche il 50% o lo superano. È il caso di Calabria e Sicilia dove la metà delle forze lavoro è a casa in cerca di un'occupazione. Viceversa, sebbene si fotografino in media situazioni sempre più difficili tra i giovani europei, il tasso di disoccupazione dell'UE27 rimane ancora più basso dei dati registrati a inizio secolo.
A fronte di ciò, in tutte le regioni italiane cresce il tasso di occupazione delle persone in età 55-64 anni. Come prima accennato, l'invecchiamento della popolazione è una delle principali sfide dell'Italia e dell'Unione europea che bisognerà affrontare nei prossimi anni. Da tempo i governi europei sono impegnati a perseguire l'innalzamento della soglia di età di uscita dal lavoro e a realizzare un aumento significativo del tasso di occupazione degli anziani. A tale scopo, la strategia di Lisbona fissava entro il 2010 l'obiettivo del 50% per il tasso di occupazione della popolazione in età 55-64 anni. Vicina al target l'UE27che passa dal 36,3% del 2001 al 48,9% del 2012; bene anche in Italia che, partendo da livelli più contenuti, è riuscita a crescere di 13 punti percentuali, dal 27,6% al 40,4%, e ancora meglio in Veneto dove il tasso aumenta di oltre 18 punti, dal 24,4% al 42,8%. Il Veneto, tra l'altro, registra in questi anni il secondo maggiore aumento tra le regioni italiane, prima la Liguria con una crescita di venti punti. (Figura 11.1.3)
In sintesi, nell'ultimo decennio tutte le regioni italiane registrano più alti livelli di disoccupazione giovanile e crescita dell'occupazione tra le persone in età più avanzata e in quasi tutte maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro, a conferma del cambiamento del modello economico, sociale e culturale in atto.

Settori e professioni In&Out

La crisi si inserisce in una fase di trasformazione del sistema economico già in atto da alcuni decenni: il passaggio da un sistema prettamente industriale a uno fondato sui servizi è visibile fin dagli anni '80, con una veloce accelerata soprattutto a partire dal 2000.
Non tutti i settori produttivi quindi hanno risentito della crisi economica allo stesso modo: alcuni ambiti ne stanno uscendo indenni, alcuni hanno addirittura incrementato la forza lavoro a discapito di altri che hanno visto un peggioramento significativo. La crisi dunque ha colpito in particolare i settori che già prima si trovavano in difficoltà e in particolar modo l'industria: in Veneto dal 2008 al 2012 gli occupati nel settore dell'industria in senso stretto sono diminuiti dell'11,5% e -7,2% sono i lavoratori nel campo delle costruzioni; nel lungo periodo, dal 2005 al 2012 si registra in entrambi i casi una diminuzione del 5-6%.
Meno anche i lavoratori nel settore dei trasporti e delle attività immobiliari/servizi alle imprese e altre attività imprenditoriali, mentre un discorso a parte deve essere fatto per gli occupati del settore pubblico, diminuiti nell'ultimo periodo dell'8% a seguito di un processo di rinnovamento e di contenimento dei costi della Pubblica Amministrazione.
Buone le performance, invece, delle attività ricettive e ristorazione e del commercio che incrementano in modo significativo il numero di occupati anche nel periodo di recessione economica: aspetto positivo soprattutto per una regione come il Veneto, dove il turismo è da sempre fiore all'occhiello.
Ma il settore che ha registrato il maggiore aumento dei lavoratori è quello dei servizi collettivi e personali (+31% negli ultimi quattro anni e ben +56% dal 2005): sotto questa voce ricadono servizi come le organizzazioni associative, i servizi per la persona e le attività delle famiglie come datori di lavoro per il personale domestico; campo quest'ultimo, come vedremo nel prossimo paragrafo, in progressivo aumento. (Figura 11.1.4)
Nel corso degli ultimi anni l'occupazione ha registrato un mutamento anche dal punto di vista della composizione per figure professionali. Se negli anni novanta in Italia si era osservato un progressivo orientamento della domanda di lavoro verso le componenti più qualificate, che si associava alla crescente terziarizzazione, a partire dal nuovo secolo si è registrato un graduale spostamento verso figure con livelli di competenza minori. E con la crisi dell'ultimo periodo questa tendenza è anche più visibile.
In linea con il dato nazionale, negli ultimi anni in Veneto si registra, infatti, un calo deciso dei dirigenti e degli imprenditori, soprattutto donne, che hanno risentito notevolmente della crisi e della chiusura delle imprese. Meno anche gli impiegati, mentre tengono fortunatamente le professioni intellettuali e quelle tecniche, in particolare per la crescita della componente femminile, diminuendo almeno un po' la preoccupazione di un mercato lavorativo con seri rischi di mismatch tra un'offerta di lavoro che tende ad essere sempre più scolarizzata e una domanda che, invece, tende ad essere sempre più orientata su professioni che non richiedono elevati livelli di istruzione.
In crescita anche il numero degli occupati impiegati nelle professioni qualificate del terziario grazie ad una maggior tenuta del settore, mentre la perdita di lavoratori medium skilled, come gli artigiani e gli operai specializzati e i conduttori di impianti, è da ricondurre principalmente alla crisi dell'industria che ha acuito la riduzione strutturale della domanda di lavoro nel settore.
D'altra parte, la crescente domanda di lavoro per le professioni meno qualificate modifica le caratteristiche dell'offerta, in particolare per effetto della presenza elevata di lavoratori stranieri in questo campo.
Più in dettaglio, si registra una diminuzione degli imprenditori veneti soprattutto delle piccole aziende che tra il 2005 e il 2011 si riducono più della metà. L'incremento delle professioni intellettuali è, invece, guidato soprattutto dall'aumento del numero di occupati tra gli specialisti nelle scienze della vita; seguono ingegneri, architetti e specialisti in scienze matematiche, fisiche e naturali. Per quanto riguarda le professioni tecniche, vengono richiesti soprattutto lavoratori in scienze della salute e della vita e tra il personale qualificato impiegato nelle attività commerciali e dei servizi, persone specializzate nei servizi sanitari.
Infine, tra le professioni non qualificate, aumentano principalmente quelle nei servizi di istruzione, sanitari e alle persone. A questo gruppo appartiene il personale nelle attività domestiche, nel quale rientrano le cosiddette "colf" e badanti. L'aumento del numero di questi occupati rientra in un trend strutturale in atto ormai da alcuni anni e che risponde ai mutamenti della società italiana: da una parte l'invecchiamento della popolazione, che comporta una crescita delle esigenze legate alla cura degli anziani, dall'altra la femminilizzazione del mercato del lavoro, che implica una minore disponibilità rispetto al passato di svolgere lavori legati alla cura della casa e della famiglia, per i quali si ricorre sempre più a un lavoro formale. Si tratta spesso di lavori occupati da straniere che tra l'altro hanno visto la loro regolarizzazione nella sanatoria del 2009. (Figura 11.1.5)
E per il futuro?
Secondo gli ultimi dati della Banca dati Excelsior relativi al primo trimestre 2013 e alle previsioni del 2012, i lavori più richiesti in Veneto rimangono le professioni tipiche del turismo, ristorazione e commercio.
La disoccupazione: solo la punta dell'iceberg
Certamente la disoccupazione è un problema dei nostri giorni, ma non vanno dimenticati anni di miseria come quelli fra le due guerre, le difficoltà dei figli del baby boom a trovare un impiego negli anni '80, le trasformazioni intervenute nel mercato lavorativo con la crisi valutaria del '92, il cambiamento culturale e la maggiore volontà delle donne di entrare nel mercato lavorativo.
L'attuale livello di disoccupazione italiano è il più alto di questo secolo, ma rimane comunque più basso di quelli registrati dalla fine degli anni '80 a tutti gli anni '90, quando, oltre a quanto soprascritto, la realtà economica italiana subiva un ulteriore grande cambiamento, ossia il sorpasso del terziario sull'industria quanto a numero di occupati. Grazie alla legge Biagi del 2003, l'Italia ha avuto, poi, un sussulto, realizzando una delle migliori performance in Europa per quanto riguarda l'abbassamento generale del livello di disoccupazione.
Ma la crisi partita nel 2008 ha cambiato di nuovo le carte in tavola e nel 2012 la disoccupazione in Europa ha raggiunto i livelli più alti dall'inizio di questo secolo registrando un tasso per l'UE27 del 10,5% contro l'8,8% del 2000. Per molti paesi si fa più concreto il rischio di esclusione sociale a lungo termine: i redditi delle famiglie sono diminuiti e cresce il rischio di povertà, soprattutto negli Stati dell'Europa meridionale e orientale andando a crearsi un nuovo divario tra i paesi che hanno saputo resistere alla crisi e quelli intrappolati in una spirale caratterizzata dalla diminuzione della produzione, dall'aumento della disoccupazione e dalla riduzione del reddito, con i primi che tendono ad avere mercati del lavoro che funzionano meglio e sistemi di welfare più solidi. I più svantaggiati sono Spagna e Grecia, dove una persona su quattro appartenente alle forze lavoro è a casa in cerca di occupazione, registrando tra l'altro anche i gap più consistenti rispetto al 2000 (+13 punti percentuali). Segue il Portogallo con un tasso di disoccupazione del 16%, oltre undici punti percentuali in più di dodici anni fa. Le condizioni migliori, invece, si rilevano a Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania dove la disoccupazione non supera il 5,5%.
In Italia, la recessione sta avendo costi occupazionali pesanti: dall'inizio della crisi, aumentano i disoccupati ed esplode l'utilizzo della cassa integrazione guadagni che nasconde in parte (o posticipa) un ulteriore calo dell'occupazione.
Dopo il 2011 in cui si erano registrati segnali di ripresa, nel corso del 2012 sono sempre più evidenti le difficoltà nel mercato del lavoro: in Italia il tasso di disoccupazione aumenta ancora, fino registrare un valore pari al 10,7% contro l'8,4% dell'anno precedente. L'incremento interessa sia i maschi che le femmine e tutto il territorio, in particolare il Mezzogiorno dove arriva ad oltre il 17%, e aumenta anche per la componente straniera che in un anno censisce un incremento del tasso di due punti percentuali.
Tempi difficili anche in Veneto che presenta un tasso pari al 6,6%, il più alto del decennio, ma si posiziona come seconda regione con il livello di disoccupazione più basso in Italia (primo solo il Trentino Alto Adige).
E le previsioni per il futuro, secondo i dati di Prometeia, non sono rosee: si dovrà stringere i denti ancora per qualche anno prima di vedere più luce. (Figura 11.1.6)
In dettaglio, nella nostra regione tra le persone in cerca di lavoro quelle che lo fanno da oltre un anno sono molte: nel 2011 il 44,4% (in Italia il 52%) contro il 25,4% del 1995 e il 15,8% del 2000. E' ovvio che il Veneto partendo da valori bassi dell'indicatore oggi si trova a registrare una variazione più alta rispetto a regioni che presentavano già valori molto alti inizialmente; è il caso, ad esempio, della Sardegna dove oggi si rileva una quota di persone in cerca di occupazione da oltre 12 mesi del 53%, ma una differenza percentuale rispetto a quindici anni fa inesistente. (Figura 11.1.7)

Chi sono i nostri disoccupati?

Ma chi sono i disoccupati e chi fra loro ha pagato il prezzo più alto? Ma soprattutto com'è cambiata la struttura della disoccupazione in questi anni, anche in relazione alla crisi economica?
Un primo approfondimento nasce dallo studio dei diversi tipi di disoccupazione; sulla base della storia lavorativa pregressa è possibile, infatti, individuare tre gruppi di disoccupati: gli ex occupati, ossia le persone che hanno perso il lavoro e che sono alla ricerca di una nuova occupazione, gli ex inattivi che dopo un periodo di inattività desiderano rientrare nel mercato del lavoro (soprattutto donne) e le persone che non hanno mai lavorato in passato e che sono in cerca della loro prima occupazione (soprattutto giovani).
Nel 2012, in Veneto su 100 disoccupati 54 sono ex occupati, 27 sono ex inattivi e 19 sono alla ricerca di una prima occupazione. Nel 2004, primo anno in cui sono disponibili le nuove serie storiche diffuse da Istat, i rapporti fra queste componenti erano diversi: gli ex occupati rappresentavano il 46% dei disoccupati, mentre pesavano di più gli ex inattivi e le persone alla ricerca di una prima occupazione.
Cos'è successo, quindi, fra il 2004 e il 2012? Nel 2007 la disoccupazione raggiunge i minimi livelli: in Veneto i disoccupati erano circa 73mila unità, mentre in Italia erano poco più di 1,5 milioni. Questo periodo di relativa stabilità economica e lavorativa ha avuto un effetto protettivo soprattutto per gli insider, ossia per le persone che già si trovavano all'interno del mercato del lavoro (ex occupati): in Veneto, il peso di questa categoria è, infatti, sceso dal 46% del 2004 al 39% del 2007, a discapito però degli outsider, ossia delle persone che si trovavano al di fuori del mercato del lavoro e cercavano di entrarvi o di rientrarvi. In seguito, con la crisi le fila degli ex occupati crescono, per la perdita dei posti di lavoro. In generale, quindi, in un periodo di relativo benessere economico gli ostacoli maggiori si incontrano all'entrata nel mercato del lavoro, mentre in periodi di crisi la difficoltà risiede soprattutto nel cercare di rimanervi.
Rispetto alla sola realtà veneta, a livello nazionale è sempre più marcata la componente delle persone alla ricerca della prima occupazione, mentre riveste un peso meno significativo la componente degli ex inattivi. La crisi è tuttavia intervenuta in modo analogo alla nostra regione, facendo aumentare soprattutto il peso delle persone che perdono il lavoro. (Figura 11.1.8)
Dal punto di vista quantitativo, nel 2007 in Veneto si contavano 28mila ex occupati; nei successivi tre anni sono aumentati con un tasso di incremento annuo elevato e, dopo una battuta d'arresto, nel 2012 sono tornati a crescere arrivando a sfiorare le 81mila unità. Le persone alla ricerca di prima occupazione, invece, hanno seguito un andamento leggermente diverso: fino al 2009, infatti, sono rimasti piuttosto stabili, mentre iniziano a risentire della crisi solo a partire dal 2010, due anni in ritardo rispetto agli ex occupati. Per quanto riguarda, invece, la situazione a livello nazionale, le tre componenti della disoccupazione hanno seguito percorsi diversi: il 2007 ha rappresentato un comune punto di minimo, ma dopo lo scoppio della crisi economica, ex inattivi e persone alla ricerca di primo lavoro sono aumentati in modo contenuto, mentre gli ex occupati sono cresciuti del 17% nel 2008, del 30% nel 2009 e del 37% nel 2012. (Figura 11.1.9)
In dettaglio, in Veneto, negli anni precedenti alla crisi il numero di disoccupati è diminuito in modo trasversale, ma un titolo di studio elevato garantiva migliori possibilità di entrare nel mercato del lavoro: dal 2005 al 2007, infatti, il numero di disoccupati laureati o diplomati alla ricerca della prima occupazione diminuisce del 23%, mentre il numero di persone con un titolo di studio medio basso alla ricerca del primo lavoro aumenta del 9%. In seguito, la crisi modifica questi equilibri e dal 2007 al 2012 aumentano soprattutto i disoccupati con titolo di studio medio alto; in particolare, le persone senza precedenti esperienze e in possesso di un diploma di scuola superiore o di una laurea passano da 9mila a quasi 20mila, mentre quelli con al più la licenza media aumentano appena di 2.000 unità.
Interessanti anche le differenze di genere. A fronte di disuguaglianze sempre più contenute negli anni dei tassi di disoccupazione e di attività tra maschi e femmine, quest'ultime registrano nell'ultimo periodo un aumento più moderato rispetto ad altri gruppi di disoccupati: in particolare, gli ex occupati maschi sono più che triplicati, mentre gli uomini in cerca di prima occupazione sono più che raddoppiati. Ovviamente questi dati vanno letti alla luce dei più alti tassi di occupazione maschili. (Tabella 11.1.1)

Oltre i disoccupati: gli scoraggiati

Secondo le definizioni internazionali, un disoccupato è definito tale se si verificano simultaneamente tre condizioni: deve essere senza lavoro, deve aver effettuato almeno un'azione di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono il periodo di riferimento (ricerca attiva di lavoro) e deve essere immediatamente disponibile (entro due settimane) ad accettare un lavoro qualora gli venisse offerto. Nel caso una di queste tre condizioni venga meno, una persona non è più considerata disoccupata: in particolare, se un individuo non cerca attivamente lavoro, oppure non è disponibile ad accettarlo nel caso gli venisse offerto, si sconfina nell'area dell'inattività.
È chiaro che questa definizione di disoccupato è piuttosto restrittiva, in quanto va ad escludere proprio gli "scoraggiati", ossia quelle persone che pur essendo disponibili a lavorare, nell'ultimo mese hanno smesso di cercare un lavoro. Paradossalmente, quindi, il tasso di disoccupazione calcolato in modo tradizionale può diminuire anche se le condizioni del mercato del lavoro peggiorano, in quanto gli scoraggiati vanno ad ingrossare le fila degli inattivi (che non rientrano nel calcolo del tasso di disoccupazione) e non dei disoccupati. L'uscita verso l'inattività è un passaggio forse peggiore di quella verso la disoccupazione: difatti, chi esce dal mercato ha minori possibilità di rientrarvi, rispetto a chi continua a cercare un posto.
Prima dello scoppio della crisi economica, in Veneto gli scoraggiati risultavano sotto le 30mila unità, ma negli anni a seguire sono costantemente aumentati fino a raggiungere nel 2012 le 49mila. Ciò nonostante, la nostra regione si conferma tra quelle nelle migliori condizioni: nel 2012 per ogni 100 occupati si contano, infatti, poco più di 2 scoraggiati e 7 disoccupati effettivi (per entrambi gli indicatori, la seconda quota più bassa fra le regioni), mentre in Italia questi valori salgono, rispettivamente, a 6,8 e 12. A soffrire maggiormente sono sempre le regioni del Sud: molti i disoccupati rispetto agli occupati e molti anche gli scoraggiati, segnale chiaro di un forte disagio lavorativo che aggrava ulteriormente la condizione di questa parte d'Italia dove tanti sono anche i lavoratori irregolari. (Figura 11.1.10)
Il fenomeno dello scoraggiamento è, dunque, associato alla crisi e porta ad un allontanamento dal mercato del lavoro, ma rimane comunque ancorato ad alcune dinamiche estranee alla sfavorevole congiuntura economica difficili da modificare. È, infatti, un problema che riguarda soprattutto le fasce deboli della popolazione, ossia le donne, i giovani e le persone con un basso titolo di studio.
Nel 2005 si contavano in Veneto circa 33mila scoraggiati e fra questi il 77% erano donne, il 56% possedeva al più la licenza media e il 48% aveva meno di 34 anni. Fra il 2005 e 2007, il mercato del lavoro non ha subìto grosse trasformazioni, continuando a rimarcare queste difficoltà.
A seguire, il 2009 è stato un anno piuttosto difficile: gli scoraggiati veneti sono aumentati del 38%, colpendo sia i soggetti deboli, ma anche quelli più forti. Da una parte, infatti, sono peggiorate le condizioni di alcune fasce già svantaggiate - gli scoraggiati con titoli di studio medio bassi sono aumentati del 57% rispetto al 19% di chi possiede un diploma o una laurea -, ma sono peggiorate anche le condizioni delle categorie più salvaguardate dal mercato del lavoro, ossia gli uomini e le classi d'età centrali.

Nuovi strumenti per misurare la disoccupazione

Considerando queste persone scoraggiate, cioè coloro che sono disponibili a lavorare ma non cercano attivamente lavoro e che potrebbero essere definite "forze di lavoro potenziali", risulta interessante applicare una correzione ai comuni indicatori del mercato del lavoro, costruendo il "tasso di disoccupazione esteso" (Nota 3) anche detto "tasso di mancata partecipazione al lavoro". Così facendo si ottiene una rappresentazione meno parziale della gravità del problema. In Italia nel 2012 questo indicatore è pari al 15,8% rispetto ad un tasso di disoccupazione classico del 10,7%, mentre in Veneto si registra un valore dell'8,5% rispetto al classico 6,6%. Come già sottolineato, il divario maggiore si registra fra i giovani in età 15-24 (in Veneto nel 2012 la disoccupazione estesa è 4 punti superiore a quella classica, in Italia è di 10 punti), fra le donne (+3,1 in Veneto, +6,6 in Italia) e fra le persone con bassi titoli di studio (+2,7 in Veneto, +7,3 in Italia).
Il Veneto rimane, comunque, una delle regioni con il divario fra disoccupazione classica ed estesa più contenuto, preceduta solamente da Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna.

Sottooccupati: un part time involontario

Un ulteriore indicatore per approfondire il mercato del lavoro è rappresentato dai sottoccupati, ossia i lavoratori in part time che vorrebbero lavorare un numero maggiore di ore e che sarebbero disponibili a farlo entro due settimane da quella di riferimento. Si tratta, a tutti gli effetti, di un disagio occupazionale: questi lavoratori sono costretti a lavorare con un orario ridotto non per scelta o per necessità familiari, ma per esigenze aziendali o della congiuntura economica sfavorevole.
Nel 2012 si contano in Veneto oltre i 35mila lavoratori sottoccupati, il 41% in più dell'anno precedente, ovvero l'1,7% degli occupati e il 9,8% dei soli occupati in part-time. Ancora una volta la situazione a livello nazionale è più critica: in Italia si registrano 2,6 sottoccupati ogni 100 occupati e 15,6 ogni 100 occupati part time. Fortunatamente, il Veneto risulta la terza regione con la più bassa incidenza di questi lavoratori svantaggiati - preceduta dal Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia -, mentre in alcune regioni del Sud la situazione è decisamente allarmante: in Basilicata e in Sardegna un lavoratore part time su quattro è classificabile come sottoccupato.
Per studiare l'andamento di questo indicatore è necessario valutare le trasformazioni intercorse tra prima e dopo lo scoppio della crisi economica. Prima del 2008, i sottoccupati veneti registravano trend decrescenti: tra il 2005 e il 2007, infatti, erano diminuiti del 26%, passando dalle oltre 31mila unità alle 23mila. Successivamente, il trend è stato discontinuo, ma tendenzialmente in peggioramento e, nonostante una forte diminuzione registrata nel 2011, il 2012 si è rivelato ancora una volta un anno particolarmente negativo. Per l'Italia l'andamento è stato più lineare, con aumenti costanti dal 2007 al 2011 e un peggioramento più grave nell'ultimo anno.
Come per gli scoraggiati, anche la sottoccupazione colpisce, soprattutto, le fasce più deboli della popolazione e dei lavoratori, anche se emergono aspetti interessanti. Innanzitutto, va sottolineato che in Veneto l'incidenza delle donne sottoccupate sul totale delle lavoratrici è pari al 3% rispetto allo 0,7% degli uomini; tuttavia se rapportiamo i sottoccupati ai soli occupati in part time, la relazione si inverte: su 100 uomini che lavorano a orario ridotto 12 sono classificabili come sottoccupati, mentre su 100 donne in part time 9 si possono classificare come tali. In altre parole, mentre per le donne il part time è soprattutto una scelta familiare o personale, per gli uomini è più spesso considerato come una costrizione associata ad un disagio lavorativo.
Proseguendo nell'analisi, si osserva che una quota maggiore di lavoratori a tempo determinato è assunta con un contratto part time rispetto ai colleghi a tempo indeterminato e al tempo stesso sono classificabili più frequentemente come sottoccupati; per questi lavoratori il disagio è quindi doppio: condizione contrattuali precarie associate a forme di sottoccupazione.
Infine, per quanto riguarda il titolo di studio e la classe d'età, la sottoccupazione coinvolge soprattutto i giovani con meno di 34 anni e i lavoratori con un basso livello di istruzione. (Figura 11.1.11)
Gli ammortizzatori sociali: novità per un maggiore sostegno
Uno strumento sempre più importante per combattere la disoccupazione in questi anni è sicuramente la cassa integrazione, anche se bisogna considerare il fatto che le imprese prima o poi potranno scontrarsi con la prospettiva di nuovi tagli ai posti di lavoro.
In questo scenario, si inserisce la riforma degli ammortizzatori sociali, introdotta dalla legge 92 del 2012, attesa da oltre un quindicennio. Nascono così due nuovi strumenti: l'Assicurazione Sociale Per l'Impiego (ASPI) e i fondi di solidarietà bilaterali. In particolare, l'Aspi andrà a sostituire gradualmente l'indennità di mobilità e l'indennità di disoccupazione (ordinaria, edile e con requisiti ridotti) e sarà assegnata indipendentemente dal settore di appartenenza del lavoratore, dalla qualifica professionale e dalla dimensione dell'impresa. La novità di questo strumento sta proprio nella copertura assicurativa, che verrà estesa a categorie finora escluse, come ad esempio gli apprendisti e i soci di cooperative. I fondi di solidarietà bilaterali si basano, invece, sull'accordo fra parti sociali, organizzazioni sindacali e datori di lavoro, e avranno il compito di supportare i lavoratori non coperti dalla cassa integrazione o di integrare il contributo previsto dall'Aspi. Questi due nuovi strumenti entreranno a pieno regime in momenti diversi: l'Aspi è già entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 2013, ma sarà a pieno regime solo nel 2016, mentre per i fondi di solidarietà bilaterali è necessario attendere gli accordi collettivi e i conseguenti decreti istitutivi.
La cassa integrazione guadagni a gestione ordinaria non è stata riformata dalla legge Fornero, mentre quella a gestione straordinaria subirà un doppio intervento. Da una parte, infatti, sarà estesa ad alcuni settori che in precedenza erano inclusi solamente grazie a norme transitorie, come le imprese commerciali e di viaggio con più di 50 dipendenti e le imprese del trasporto aereo e del sistema aeroportuale. Dall'altra parte non potrà più essere concessa a partire dal 2016 nei casi di fallimento d'impresa e nei casi in cui non è prevista una ripresa dell'attività lavorativa al termine dell'intervento di sostegno al reddito.
Nel 2012 sono state concesse in Italia oltre un miliardo di ore di cassa integrazione guadagni (cig), di cui circa 103 milioni di ore sono state destinate alle imprese e ai lavoratori veneti. Il ricorso a questo strumento di sostegno al reddito segue chiaramente l'andamento della crisi economica: fino al 2007, infatti, in Veneto le ore di cig concesse annualmente non superavano i 16,5 milioni, ma a partire dal 2009 sono esplose, toccando il valore massimo nel 2010 (124,5 milioni). In particolare, cassa integrazione e disoccupazione hanno corso su binari paralleli: iniziano a crescere nel 2009 e segnalano due picchi nel 2010 e nel 2012.
Anche la tipologia di cassa integrazione guadagni è esplicativa del disagio economico e dei cambiamenti in atto nella società; fino al 2005 venivano concesse soprattutto ore di cig a gestione ordinaria: questa tipologia di aiuti viene concessa alle aziende che si trovano temporaneamente in difficoltà, come ad esempio una condizione di mercato sfavorevole ma transitoria. Durante la crisi si è fatto, però, sempre più ricorso alla cig a gestione straordinaria e quella in deroga: la cig a gestione straordinaria viene concessa in caso di crisi aziendale, mentre quella in deroga è stata introdotta per agevolare i lavoratori esclusi dalle altre tipologie di aiuti (come ad esempio le imprese industriali e artigiane di qualsiasi settore, le imprese del terziario, le cooperative, gli studi professionali). Il maggior ricorso a queste due forme di cassa integrazione indica come la crisi abbia colpito settori e professionalità considerati più solidi: prima della difficile congiuntura economica, non erano previsti ammortizzatori sociali per queste figure, che si sono però resi necessari dopo lo scoppio della crisi. (Figura 11.1.12)

Figura 11.1.1

Tasso di occupazione 15-64 anni (*) e riforme del mercato del lavoro italiano. Veneto e Italia - Anni 1995:2012

Figura 11.1.2

Differenza percentuale 2012/00 del tasso di occupazione 15-64 anni, tasso occupazione 15-64 anni del 2012 e del 2000 per regione (*)

Figura 11.1.3

Differenza percentuale 2012/01 del tasso di occupazione 15-64 anni femminile, del tasso di disoccupazione 15-24 anni e del tasso di occupazione 55-64 anni per regione e UE27(*)

Figura 11.1.4

Occupati per settore di attività. Veneto - Variazioni percentuali 2012/2005 e 2012/2008

Figura 11.1.5

Variazione percentuale 2011/2005 degli occupati veneti per professione

Figura 11.1.6

Tasso di disoccupazione (*). Veneto e Italia - Anni 1995:2016

Figura 11.1.7

Tasso di disoccupazione 2012 e differenza percentuale del tasso di disoccupazione 2012/1995 e dell'incidenza della disoccupazione di lunga durata 2011/1995 per regione (*)

Figura 11.1.8

Distribuzione percentuale di disoccupati per tipologia (*). Veneto e Italia - Anni 2004, 2007 e 2012

Figura 11.1.9

Disoccupati per tipologia (*), numeri indice (base 2004=100). Veneto - Anni 2004:2012

Tabella 11.1.1

Disoccupati per tipologia, titolo di studio e sesso (*). Veneto - Var.% 2007/05 e 2012/07

Figura 11.1.10

Disoccupati e scoraggiati (*) ogni 100 occupati per regione. Anno 2012

Figura 11.1.11

Percentuale di sottoccupati (*) sul totale degli occupati part time per alcune caratteristiche sociali e lavorative. Veneto e Italia - Anni 2005:2012

Figura 11.1.12

Lavoratori equivalenti in cassa integrazione guadagni per gestione e tasso di disoccupazione. Veneto - Anni 2000:2012
 
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11.2 - Lo sviluppo passa per l'istruzione

Strettamente connessa all'occupazione è la valorizzazione del capitale umano. Investire in istruzione non solo è sinonimo di maggiori benefici per i giovani e le loro famiglie e di minore probabilità di rimanere escluso dal mercato lavorativo, ma è anche alla base del rilancio dell'economia del Paese ed è il motore dello sviluppo: non a caso i Paesi che investono maggiormente in quest'ambito raccolgono i risultati migliori.
Veneti sempre più istruiti
Benché il processo di trasformazione del sistema scolastico sia in pieno svolgimento, si possono notare alcuni cambiamenti sociali prima ancora che istituzionali. Negli anni sono aumentati notevolmente i livelli di scolarizzazione delle fasce più giovani di popolazione e la propensione delle famiglie a investire sul futuro dei ragazzi dedicando attenzione all'accrescimento dei loro saperi e delle loro competenze.
La popolazione veneta, in poco più di dieci anni, accresce significativamente il proprio livello di istruzione: il 47,6% dei veneti possiede almeno un diploma di scuola superiore contro il 35,4% registrato nel 2001. In particolare, la quota di laureati aumenta di tre punti percentuali e mezzo, mentre quella dei diplomati passa dal 28,3% al 37,1%. (Figura 11.2.1)
Nel più ampio contesto della Strategia Europa 2020, la valorizzazione del capitale umano ha un' ulteriore funzione: favorire la compatibilità tra crescita e inclusione sociale. Infatti, la scelta dei due target in materia di istruzione, combattere l'abbandono scolastico prematuro, che deve ridursi al 10% entro il 2020, e innalzare la quota di giovani 30-34enni laureati ad almeno il 40% in questi dieci anni, rispecchia questa funzione.
In realtà, nel 2012 la metà dei paesi dell'Unione europea ha già raggiunto l'obiettivo fissato per la quota dei laureati e alcuni paesi hanno tassi superiori al 45%, prima fra tutti l'Irlanda che registra più della metà della popolazione 30-34enne con la laurea. Metà anche i paesi che hanno livelli di abbandono scolastico prematuro inferiori al 10%, in particolare il più basso si rileva in Slovenia dove solo il 4,4% dei ragazzi in età 18-24 anni ha abbandonato troppo presto gli studi, ovvero ha un titolo di studio inferiore al diploma superiore e non frequenta altri corsi scolastici o svolge attività formative superiori ai 2 anni. In generale, spiccano i Paesi Nordici e la Lituania con entrambi gli obiettivi già raggiunti pienamente.
In Italia, invece, sebbene presenti performance in netto miglioramento in questi anni, si registra una quota di laureati 30-34enni pari al 21,7%, la più bassa dei ventisette paesi, a fronte del dato dell'UE27 pari al 35,8%, e un tasso di abbandono del 17,6% contro il dato europeo di 12,8%. Migliore la situazione del Veneto per la quota di ragazzi che lasciano troppo presto la scuola, 14,2%, mentre la percentuale di laureati è pari al 21,4%; dati positivi che mettono in luce la nostra regione: da una parte il progressivo aumento negli anni dei laureati, che fa ben sperare per il raggiungimento dell'obiettivo fissato a livello nazionale, dall'altra il raggiungimento nel 2012 dell'obiettivo di ridurre i livelli di abbandono prematuro. Poiché le regioni italiane partono da livelli più bassi, il nostro governo ha comunque fissato dei target più realistici per l'Italia da raggiungere entro il 2020, ovvero il 26-27% per l'istruzione terziaria e il 15-16% per gli abbandoni scolastici. (Figura 11.2.2)
Considerando la dinamica negli anni della quota dei 30-34enni laureati, i progressi più accentuati si registrano in Lussemburgo e Lituania che presentano un aumento tra il 2002 e il 2012, rispettivamente, di ventisei e venticinque punti percentuali, più che raddoppiando così il loro valore iniziale, a fronte della crescita complessiva dell'Unione europea di dodici punti. Viceversa, la minor crescita si rileva in Bulgaria, appena 3,7 punti percentuali, censendo un tasso nel 2012 di 26,9%.
In Italia gli sviluppi sono evidenti, ma non sono molto alti: si passa, infatti, dal 13,1% al 21,7%, mentre per il Veneto dal 16,1% del 2005 al 21,4% dei giorni nostri; prima nella classifica italiana la Liguria con una crescita in sette anni di undici punti percentuali e una quota del 27,5%. Bene anche per l'Emilia Romagna che censisce una percentuale di giovani in età 30-34 anni laureata pari al 28,6% e un aumento di quasi nove punti. (Figura 11.2.3)
In generale, gli incrementi più consistenti della quota dei laureati italiani si sono verificati nei primi anni di vita della riforma dei cicli universitari che ha introdotto il nuovo sistema del 3+2. In quegli anni si è effettivamente prodotto quell'aumento degli immatricolati e del conseguimento delle lauree che era l'obiettivo di fondo del riordino. Di seguito, dall'anno accademico 2004/2005 gli effetti positivi della riforma si sono via via esauriti e una nuova fase di flessione si è avviata fino ad arrivare ai giorni nostri in cui si contano circa il 13% in meno di immatricolazioni in Italia e l'8% in meno per i veneti rispetto a dieci anni fa. Neppure la nuova riforma firmata Gelmini del 2011, che punta su un'università di qualità, fondata sulla meritocrazia, responsabilità, valutazione e premialità, ha attirato i nostri ragazzi che vivono questo momento difficile di crisi: bisogna forse considerare la diminuzione della volontà di proseguire gli studi in quest'ultimo periodo legata alla difficile situazione che sta vivendo il nostro Paese, forse i ragazzi non vogliono pesare ulteriormente sulle proprie famiglie anche perché ora più che mai avere una laurea non coincide con avere un bel lavoro e in tempi brevi.
In dettaglio, gli indicatori che misurano la domanda potenziale e la domanda effettiva di partecipazione al sistema universitario rivelano che la quota italiana di maturi sulla popolazione di 19 anni - vale a dire l'indicatore di conseguimento del diploma d'istruzione superiore che approssima la domanda potenziale all'università - dopo essere aumentata costantemente dal 2001 al 2006, anno in cui ha raggiunto il 77,5% (73,3% in Veneto), negli ultimi anni è andata diminuendo, fino a registrare il 73,8% nel 2009/2010 (70,3% in Veneto), mentre il rapporto percentuale tra immatricolati e diplomati - indicatore di proseguimento degli studi dalla scuola superiore all'università che specifica quanta parte della domanda potenziale si trasforma in domanda effettiva - passa dal 72,3% in Italia e 69% in Veneto registrato a inizio secolo, rispettivamente, al 61,3% e 61,8% del 2010/2011.
C'è quindi molto ancora da lavorare per perseguire gli obiettivi europei. (Figura 11.2.4)
Migliorare i risultati scolastici anche per una crescita inclusiva
Migliorare i risultati scolastici dei giovani è coerente sia con l'obiettivo europeo della crescita intelligente, perché mira all'avanzamento dei livelli di competenze, sia con quello della crescita inclusiva, poiché aumenta l'integrazione nel mercato del lavoro e contribuisce in modo significativo a ridurre il rischio di disoccupazione e povertà.
Considerando l'evoluzione dell'abbandono scolastico in questi anni, i progressi più accentuati si registrano a Malta e in Portogallo che presentano una diminuzione tra il 2002 e il 2012, rispettivamente, di 30,6 e 24,2 punti percentuali, ma continuano a censire i tassi più elevati fra tutti i paesi dell'Unione insieme alla Spagna. Possono allora essere considerati più significativi i progressi raggiunti dal Lussemburgo che con una decrescita di nove punti percentuali presenta già il raggiungimento dell'obiettivo. In generale, tutti i paesi stanno lavorando molto all'obiettivo, ovviamente paesi che partivano da valori già buoni del tasso presentano sviluppi più bassi.
Non male anche la performance italiana che, sebbene rimanga tra i paesi con i livelli più alti di abbandono prematuro, soprattutto per l'incidenza rilevata nel Mezzogiorno, in dieci anni passa dal 24,2% al 17,6%, con una diminuzione più elevata di quella registrata a livello europeo. Bene il Veneto che, partendo da un valore inferiore da quello italiano, passa dal 18,1% del 2004 al 14,2%. (Figura 11.2.5)

Lascio la scuola...e adesso cosa faccio?

Ma cosa fanno questi ragazzi che lasciano così presto la scuola?
Nel 2010 la situazione dell'Italia è particolare: pur avendo un tasso di abbandono scolastico pari al 18,8%, distante dalla media europea (14%), al contempo registra un tasso di occupazione degli early school leaver di appena il 44%, ovvero meno della metà di quanti abbandonano gli studi lavora; il 18,6% cerca lavoro e ben il 37,6% si trova in condizione di inattività. Su questo dato esercita un peso rilevante il comportamento della componente femminile, soprattutto del Mezzogiorno, sebbene va considerato che a lasciare troppo presto la scuola sono più i maschi: infatti, tra le giovani con al più la licenza media, meno di una su tre è occupata e oltre la metà è inattiva. Migliore la situazione in Veneto dove almeno il 54% dei ragazzi ha trovato un impiego e il 22% è alla ricerca.
È interessante, poi, notare come le trasformazioni avvenute nel mercato lavorativo si vedono anche per questa fascia di giovani: infatti, nel 2005 in Veneto chi usciva dal sistema scolastico così presto riusciva comunque a trovare lavoro nel 71% dei casi contro il 53% del 2011. Di conseguenza erano l'11% i ragazzi che cercavano un impiego e il 18% gli inattivi contro, invece, rispettivamente, il 15,4% e il 31,5% del 2011. (Tabella 11.2.1)

L'influenza dello status sociale

Il fenomeno appare ancora più preoccupante se si considera che la dispersione scolastica è condizionata dallo svantaggio sociale e da uno scarso livello d'istruzione dell'ambiente familiare di provenienza. Infatti, le incidenze maggiori di abbandoni precoci si riscontrano laddove il livello d'istruzione o quello professionale dei genitori è più basso. In Veneto nel 2011, fra quanti abbandonano, il 76% vivono in famiglia e tra questi il 67% proviene da famiglie con livelli di istruzione più bassi, il 55% da genitori con professioni non qualificate o operai e il 14,4% da genitori senza lavoro. E non molto è cambiato rispetto a sei anni prima anche se va considerata una tendenza in miglioramento: infatti, rispetto al 2005, diminuisce la quota dei giovani che abbandonano prematuramente gli studi con famiglie culturalmente meno elevate e meno sono i ragazzi con genitori disoccupati. Purtroppo lo status sociale pesa e ci vorrà ancora del tempo per trasformare questa realtà. (Tabella 11.2.2)

Figura 11.2.1

Distribuzione percentuale della popolazione per livello di istruzione. Veneto - Anni 2001 e 2012 (*)

Figura 11.2.2

Tasso di abbandono prematuro scolastico (*) e quota di popolazione in età 30-34 anni laureata. Paesi dell'UE27 e Veneto - Anno 2012 (**)

Figura 11.2.3

Quota di popolazione in età 30-34 anni laureata. Paesi dell'UE27 e Veneto - Anni 2002 e 2012 (*)

Figura 11.2.4

Domanda potenziale e domanda effettiva di proseguimento degli studi dalla scuola superiore all'università. Veneto - Anni 1998/99:2010/11

Figura 11.2.5

Tasso di abbandono prematuro scolastico (*). Paesi dell'UE27 e Veneto - Anni 2002 e 2012 (**)

Tabella 11.2.1

Giovani in età 18-24 anni che hanno abbandonato prematuramente gli studi (*) per condizione lavorativa. Veneto - Anni 2005 e 2011

Tabella 11.2.2

Giovani in età 18-24 anni che vivono in famiglia e che hanno abbandonato prematuramente gli studi (*) per caratteristiche familiari. Veneto - Anni 2005 e 2011