Regione del Veneto - U.O. Sistema Statistico Regionale
Condividi in Facebook Condividi in Twitter Condividi in Google+ 
Rapporto Statistico 2013
Capitolo 10

Le energie dei giovani

Essere giovani significa, per definizione, essere in divenire, alla ricerca di un baricentro su cui costruire se stessi, evitando cadute minacciose o almeno cercando di imparare da esse. Scrive Romano Guardini: "Il giovane che sia passato attraverso la crisi degli anni dello sviluppo, ha preso contatto con il proprio io e cerca di acquisirne padronanza. Entra in sé e da lì affronta il mondo, cominciando a compiere la propria opera. Egli è diventato consapevole delle proprie forze vitali e sente che in esse risiedono le possibilità di evolvere e di fare esperienze; ma esse comportano anche dei compiti: quelli di affermarle e disciplinarle, di risparmiarle e di formarle, per realizzare ciò che è veramente importante" (Nota 1).
Il giovane, impegnato in questa opera di autocoscienza e affermazione, è anche cittadino di un mondo che lo interpella, che può attirarlo e disorientarlo, ma che ha bisogno anche del suo contributo per evolversi e migliorare.
La situazione socio-economica e istituzionale di oggi chiede uno sguardo in avanti fiducioso. Sensazione condivisa è quella di trovarsi in una situazione di stallo, in cui si rende necessario ricercare quelle energie per rilanciarsi. Nelle scienze naturali si parla di energia potenziale accostata al concetto di energia cinetica. Il serbatoio giovanile può rappresentare quell'energia sotterranea, non sempre manifesta, che può trasformarsi in energia cinetica per un dinamismo positivo.
Concentrare lo sguardo sui giovani significa anche riflettere sulla capacità generativa della nostra società, sulla volontà di dare la giusta attenzione e la centralità che va loro riconosciuta, progettando spazi di futuro possibile. Una società è generativa se, investendo sui giovani, sa cogliere ciò che ha un potenziale e intuisce così le possibili condizioni di sviluppo. Da uno studio del Censis del 2011 (Nota 2) emerge che il 48% degli italiani pensa che il futuro del nostro Paese dipenderà proprio da come prepareremo i giovani da qui a dieci anni.
 
Inizio Pagina

10.1 - Il sentire dei giovani

Il 2013 è stato proclamato dalla Commissione europea "Anno europeo dei cittadini", dedicato alla gente d'Europa, ai suoi diritti e in concomitanza con il ventesimo anniversario della cittadinanza dell'Unione, introdotta dal trattato di Maastricht nel 1993. L'iniziativa ha l'intento di aumentare il senso di appartenenza all'UE e assume valore ancora più significativo in questa delicata fase di maggiore disaffezione. Diventa l'occasione per conoscere i propri diritti di cittadini europei e quindi anche per sfruttare al meglio le opportunità che l'Unione può offrire, specie per i giovani.
Secondo l'indagine Eurobarometro 2012 della Commissione europea (Nota 3), il 51% degli intervistati italiani si sente ormai cittadino d'Europa, soprattutto gli adulti di 40-54 anni (58%). Tra i giovani, il senso di appartenenza europeo è più forte tra chi ha 15-24 anni (54%), mentre scende al 51% tra i 25-39enni. L'altra metà fatica ancora a riconoscersi come europeo, il 68% ammette comunque di non conoscere a fondo i propri diritti di cittadino e vorrebbe maggiori informazioni sulla possibilità di lavorare in un altro Paese dell'Unione europea, nonché di viverci stabilmente.
Cittadinanza attiva e partecipazione sono concetti su cui più volte l'Unione europea si è espressa invitando gli stati membri a svolgere delle politiche attive, con un particolare riguardo verso i giovani, che favoriscano la piena espressione di una cittadinanza europea, fondata sui valori della democrazia e della solidarietà. Promuovere la partecipazione, l'inclusione sociale, la cittadinanza attiva dei giovani significa valorizzarne il ruolo all'interno della società e creare stimoli per ampliare lo spazio d'azione che essi possono avere al suo interno.
Partecipazione oggi significa anche evitare forme di delega, dove ci si attende la risoluzione dell'attuale situazione economica da fuori. Partecipazione è infine promozione del capitale umano, che parte proprio da una valorizzazione delle energie dei giovani.
Giovani e politica
In un confronto europeo, un giovane italiano su due dimostra di partecipare alla vita sociale del proprio territorio attraverso attività culturali, politiche o di sviluppo umano, in media con la situazione dei giovani europei: il valore è il più elevato tra i Paesi mediterranei, ma rimane inferiore a quello delle realtà dell'Europa centro-settentrionale. (Figura 10.1.1)
Partecipazione attiva in una società significa anche impegno civico, che se vissuto da giovani può essere considerato un precursore del coinvolgimento politico e dell'interesse civico in età adulta. In un contesto di scollatura fra cittadini e politica, quale quello attuale, anche i giovani possono rimanervi coinvolti, rischiando così la disaffezione alla vita politica.
Giovani e politica è un binomio ambiguo: tanti ne parlano, meno si impegnano sul campo. Partecipare a partiti politici, organizzazione sindacali, o più semplicemente scegliere di andare a votare rappresentano segnali di "partecipazione visibile". Secondo l'indagine della Commissione Europea, negli ultimi anni i giovani italiani che si sono espressi alle elezioni attraverso il voto sono il 71%, meno della media europea (79%). Il tasso di partecipazione, per quanto elevato, si differenzia rispetto al tipo di elezione: alto per quelle nazionali e comunali, meno per le provinciali e le europee. (Figura 10.1.2)
In uno studio dell'Anci (Nota 4) si è chiesto ai giovani la loro intenzione di recarsi alle urne alle prossime elezioni, confrontando la percentuale di sicuri di andare a votare a fronte di chi dichiara di essersi sempre recato alle urne: l'intenzione appare ridursi per tutti i tipi di elezione, tranne che per quelle europee.
La distanza tra giovani e politica appare tuttavia più marcata guardando alla dimensione nazionale, che più delle altre accusa il crescente clima di sfiducia nel Paese e che, forse anche per la maggiore esposizione sui mezzi di comunicazione di massa, è oggetto di numerose critiche: per le elezioni del Parlamento italiano, confrontando il comportamento passato e l'intenzione di voto futura, si rileva una ipotetica perdita del tasso di partecipazione di 3,6 punti percentuali. (Figura 10.1.3)
La tendenza si osserva non solo nelle intenzioni di voto, ma anche nella partecipazione reale alle consultazioni elettorali. Rispetto alle elezioni del 2008, nel 2013 sono diminuiti i giovani di 18-24 anni che si sono recati alle urne, anche se va segnalato che la quota dei giovani veneti rimane superiore alla media nazionale. (Figura 10.1.4)
La partecipazione può esprimersi anche attraverso altri livelli: non necessariamente l'interesse per la cosa pubblica si traduce in attività di sostegno alla politica in senso stretto, ma si esercita anche con l'informarsi e lo scambiare opinioni. È quella che può essere definita "partecipazione invisibile". In un decennio aumentano i giovani che dichiarano di parlare di politica almeno una volta la settimana (da 36,9% nel 2001 a 47,5% nel 2011 in Veneto), ma sorge il dubbio se ciò sia un riflesso del dibattito esistente, specie tra i media, in tema di partiti e questioni politiche, o se invece sia frutto di un reale approfondimento personale di temi e questioni pubbliche. Nel contempo crescono, infatti, i giovani che non si informano mai di fatti di politica (da 16,1% a 17,9% in Veneto), similmente diminuiscono coloro che assistono a dibattiti.
Con il diffondersi delle nuove tecnologie si affaccia un nuovo modo di interessarsi di politica e di istituzioni attraverso la rete internet: si parla di cyber citizens, giovani che utilizzano la rete informatica non solo per informarsi, ma anche per scambiare informazioni su temi sociali e politici, anche attraverso l'uso dei social network. Sono quasi il 30% i giovani veneti che utilizzano questa modalità di informazione, tendenza che secondo i recenti dati nazionali sembra in aumento. (Tabella 10.1.1)
Il volontariato, segnale di appartenenza
Nonostante la sfiducia nelle istituzioni, i giovani continuano a dimostrare interesse per la cosa pubblica: a livello nazionale, tra chi partecipa ad attività di volontariato, il 58% dei giovani lo fa con lo scopo di portare cambiamenti positivi nella propria comunità locale, a fronte di una media europea del 51%. L'abilità di spostare l'interesse da se stesso verso gli altri, impegnandosi per il benessere della comunità di cui si è parte, è un indicatore importante di maturità di un giovane che si affaccia con coscienza civica all'età adulta. (Figura 10.1.5)
La giovinezza è il momento in cui le capacità sono messe alla prova, in cui si sperimenta. Lo dimostrano molti giovani impegnati nel mondo delle associazioni e del volontariato.
Il Veneto vanta nelle sue tradizioni culturali una ricchezza di valori che comprende anche il senso di appartenenza, il radicamento sul territorio, l'attenzione a chi è in svantaggio e il prendersi a cuore lo sviluppo culturale e sociale della propria comunità. In questo, il mondo giovanile ha sempre avuto un ruolo particolare. La sfida è quella di mettere in relazione, arricchire e potenziare la collaborazione fra le istituzioni, il terzo settore e i giovani, stimolando uno scambio proficuo fra chi è portatore di esperienza e di capacità strutturate e chi, come il mondo giovanile, trasmette uno spirito innovativo e nuove forme di relazionalità. Anche la collaborazione tra generazioni è un elemento importante per potenziare azioni sociali solidali.
Le giovani generazioni rappresentano una delle ricchezze della nostra società e il volontariato può essere una scuola di partecipazione attiva. Se il volontariato da un lato favorisce lo sviluppo di una società civile, dall'altro si configura come esperienza formativa del giovane, educandolo all'impegno e alla responsabilità, che lo aiuta a scoprire come il dono di sé possa essere una ricchezza anche personale. Afferma la Carta dei valori del volontariato "la gratuità è l'elemento distintivo dell'agire volontario e lo rende originale rispetto ad altre componenti del terzo settore e ad altre forme di impegno civile".
In Veneto quasi 1 giovane su 5 dichiara di svolgere attività gratuita per associazioni o gruppi di volontariato, in crescita negli ultimi anni (14% nel 2007) e ben al di sopra della media nazionale. I giovani sembrano mostrare maggiormente il loro spirito di partecipazione sociale attraverso l'attività gratuita in forme di volontariato, piuttosto che mediante la partecipazione alla vita politica. (Figura 10.1.6)
La soddisfazione in un mondo che cambia
La soddisfazione della vita fa riferimento a molti ambiti diversi, che riguardano non solo i bisogni di base che consentono di condurre una vita dignitosa, ma anche bisogni superiori di tipo immateriale. Salute innanzitutto, ma anche lavoro, condizioni economiche e relazioni familiari e amicali sono considerate dai giovani dimensioni che contribuiscono in modo significativo a una vita di qualità, riconoscendovi un'importanza di oltre 9 punti su 10.
Rispetto ad altre dimensioni della qualità della vita, il giudizio sulla situazione economica e sulla professione risente in misura maggiore degli effetti della congiuntura economica attuale. In dieci anni peggiorano notevolmente: se nel 2001-02 i giovani veneti soddisfatti per il proprio lavoro erano l'84,2% dei casi, oggi tale quota scende al 69,5%; dinamica simile anche per la soddisfazione sulla situazione economica, che in dieci anni passa dal 66,8% al 49,2%. A risentirne di più sono proprio i giovani, che faticano a gestire economicamente in maniera autonoma la propria vita e che pagano in prima persona le conseguenze di un mercato del lavoro instabile e precario. Oltre alla difficoltà di trovare un lavoro adeguato alle proprie competenze, adesso devono fare i conti con la paura o la mancanza di sicurezza nel riuscire a mantenere il posto di lavoro.
Rimane sostanzialmente stabile e con valori elevati la soddisfazione per le relazioni sociali e per la salute. Anche per i giovani gli affetti, fonte di supporto morale oltre che materiale, fanno parte di quei valori che rimangono stabili in termini di importanza e che tengono di fronte a momenti di difficile congiuntura economica.
Nonostante le numerose difficoltà, i giovani veneti dichiarano nel 2011 una soddisfazione per la propria vita di 7,3 punti su un massimo di 10, valore in linea con la media nazionale e in leggero calo rispetto all'anno precedente (7,4 nel 2010). (Figura 10.1.7)
Pensare al futuro
La situazione socio-economica attuale e la soddisfazione della propria vita incidono anche su ciò che i giovani si aspettano per il proprio futuro. Nel contempo, ciò che essi si attendono o ipotizzano ha la capacità di incidere sulle scelte attuali, sugli investimenti personali in energie e progettualità. Pensare al futuro aiuta implicitamente a selezionare quei comportamenti che possano dare risposte adeguate alle aspettative che ciascun giovane coltiva. Per il 57,7% dei giovani il Paese nei prossimi dieci anni cambierà molto o abbastanza, confermando così una percezione di una realtà in evoluzione, anche se non sempre ciò si accompagna a sentimenti positivi e fiduciosi. I giovani mostrano preoccupazione per il futuro, specie per il lavoro, mettendo in conto anche lunghi periodi di disoccupazione, per le difficoltà economiche e abitative. (Tabella 10.1.2)
L'Italia, pur mantenendo ancora una discreta qualità di vita, si scopre oggi in un equilibrio più fragile, i giovani sanno che la società in futuro non potrà correre con la stessa intensità con cui si è evoluta nei decenni dei loro padri.
L'attuale incertezza sociale tende a rispecchiarsi nelle giovani generazioni che, di fronte agli adulti, si presentano più evoluti in certi settori, come la tecnologia e la comunicazione, ma sembrano più impauriti e più fragili di fronte a una realtà sociale in evoluzione. Infatti, il 47,4% dei giovani si ritiene preoccupato per il suo futuro, contro un 45% se si guarda alla popolazione nel complesso. Le preoccupazioni riguardano non solo il benessere collettivo, ma anche quello individuale, dal momento che proprio l'immobilismo di alcuni settori chiave dell'economia e della società rischia di compromettere la realizzazione della propria autonomia futura. Ma c'è anche chi (19%) pensa al futuro come una sfida che dà carica e chi ne è stimolato e si pone con un atteggiamento di curiosità (23%).
Nonostante l'incertezza, molti giovani confidano ancora in un futuro dove la propria situazione socio-economica potrà essere migliore, rispetto ad ora e a quella della famiglia di origine. Tale fiducia può rappresentare la leva su cui investire per contribuire alla società civile e per costruire la propria indipendenza. Dipenderà dalle energie personali delle giovani generazioni, ma anche dalle opportunità che la società potrà offrire loro. (Tabella 10.1.3)

Figura 10.1.1

Giovani di 15-30 anni che nell'ultimo anno hanno partecipato ad attività culturali, politiche o di promozione umana (valori percentuali). Paesi UE27 - Anno 2011

Figura 10.1.2

Giovani under30 che negli ultimi 3 anni hanno votato alle elezioni locali, regionali o nazionali (valori percentuali su chi ha diritto al voto). Paesi UE27 - Anno 2011

Figura 10.1.3

Intenzioni di voto dei giovani di 18-35 anni (valori percentuali). Italia - Anno 2011

Figura 10.1.4

Giovani di 18-24 anni che hanno votato alle elezioni nazionali (voto alla Camera, valori percentuali). Italia, Veneto e province - Anni 2008 e 2013

Tabella 10.1.1

Indicatori di interesse per la politica dei giovani di 18-34 anni. Italia e Veneto - Anni 2001 e 2011

Figura 10.1.5

Giovani di 15-30 anni che hanno svolto attività di volontariato con lo scopo di portare cambiamenti nella comunità locale (valori percentuali). Paesi UE27 - Anno 2011

Figura 10.1.6

Giovani di 18-34 anni che hanno svolto attività gratuita per associazioni o gruppi di volontariato per regione (valori percentuali) - Anni 2007 e 2011

Figura 10.1.7

Giudizio dei giovani di 18-34 anni su importanza e soddisfazione di alcuni aspetti della vita. Veneto - Medie 2001/02, 2006/07 e 2010/2011

Tabella 10.1.2

Forme di disagio che tra cinque-dieci anni peseranno di più in Italia (valori percentuali). Italia - Anno 2011

Tabella 10.1.3

Opinione dei giovani sulla propria condizione socio-economica rispetto alla famiglia di origine e nei prossimi 5-10 anni (valori percentuali). Italia - Anno 2011
 
Inizio Pagina

10.2 - Opportunità di crescita sociale

Una società riesce a essere generativa se è in grado di passare il testimone alle giovani generazioni, permettendo loro di divenire adulte, di garantire loro occasioni anche maggiori di quelle sperimentate.
Oggi rischiamo di assistere a una contraddizione: i giovani di oggi hanno tenore di vita, opportunità sociali, culturali e relazionali superiori a quelle che avevano i loro padri, hanno investito in percorsi di formazione che li rendono depositari di elevati livelli di capitale umano, eppure sembra che siano destinati a un futuro incerto e difficoltoso.
Si possono avanzare motivazioni di diversa natura: guardando alle macro trasformazioni di natura economica, il nostro Paese affronta una faticosa congiuntura economica e criticità nel mondo del lavoro; da un punto di vista invece più sociologico sembra cruciale la visione che l'adulto ha della giovinezza e il suo modo di rapportarsi ad essa.
Gli adulti non sempre si pongono nell'atteggiamento di orientare, formare e guidare, a volte preferiscono rimanere legati alle posizioni acquisite, senza lasciare spazio alle nuove generazioni. Così la società rischia di divenire incapace di generare e di rimanere intrappolata in una contraddizione: ama la giovinezza come mito, ma non sempre ama i giovani.
L'influenza della famiglia di origine
Le opportunità si valutano anche in termini di possibilità di crescere nella scala sociale nel corso della vita e rispetto alle condizioni della propria famiglia di origine, dove, in generale, con il termine "status sociale" si intende la posizione che un individuo occupa nella società in relazione agli altri individui: esso è determinato da diversi fattori, come il possesso di beni materiali, la posizione occupazionale, l'accesso alle risorse economiche, la cultura e il prestigio sociale.
La misura della mobilità sociale approssima bene anche il grado di equità e apertura della società, che si realizza se le occasioni di crescita sono ugualmente distribuite e tali da garantire a tutti le stesse possibilità educative, professionali e, in genere, di successo personale, indipendentemente dalle eventuali disuguaglianze di partenza.
In un confronto internazionale l'Italia dimostra di avere una mobilità sociale ancora limitata, specie se confrontata con la situazione dei Paesi del Nord Europa. Presentano alta fluidità sociale anche Canada e Australia, al contrario negli Stati Uniti risulta ancora forte il condizionamento della famiglia di origine e delle condizioni economiche.
A livello nazionale, un indicatore di mobilità sociale fa riferimento alla quota di individui che raggiungono posizioni occupazionali diverse da quelle di origine (le proprie o quelle dei propri genitori) rispetto alla popolazione totale. Nel 2009 risulta, sia in Italia che in Veneto, che il 37% delle persone svolge un'occupazione simile, per competenze, qualifica e livello di specializzazione, a quella che ricopriva il proprio padre in una fase matura della propria carriera (tasso di immobilità). Fra quanti sono coinvolti nei processi di mobilità sociale (63%), il 30% dei veneti gode di mobilità in ascesa (in Italia il 32%), ma persiste una quota non trascurabile di chi addirittura non riesce a mantenere il medesimo livello sociale della famiglia di origine (mobilità discendente: 19% in Veneto e 16% in Italia). La situazioni risulta sostanzialmente stabile rispetto a dieci anni fa, senza registrare progressi significativi in termini di apertura e di spinta ascensionale. (Figura 10.2.1)
Nel considerare le opportunità sociali offerte ai giovani si preferisce fare riferimento alla mobilità intergenerazionale, ossia confrontare la situazione lavorativa di primo ingresso del giovane con quella raggiunta dal padre. Solo il 15% dei ragazzi veneti riesce a collocarsi fin dall'inizio in una classe sociale superiore a quella di origine (18% in Italia), piuttosto c'è una mobilità verso il basso: circa un terzo degli occupati di età 18-34 anni al momento del proprio ingresso nel mondo del lavoro, nonostante l'innalzamento del livello di istruzione rispetto alle generazioni precedenti, accede a un lavoro meno qualificato rispetto a quello del padre.
In parte è ovvio, visto che si sta confrontando la prima occupazione del figlio con quella raggiunta dai genitori in un'età matura, ossia più o meno all'apice della carriera lavorativa, e lo svantaggio vissuto in fase di primo inserimento lavorativo non comporta una totale mancanza per i giovani di chances di mobilità sociale; questo avviene però successivamente, soprattutto attraverso i percorsi di carriera, in termini di mobilità intragenerazionale.
Ciò tuttavia, si evidenziano mutamenti nelle opportunità sociali, a svantaggio dei più giovani. Confrontando i ragazzi di oggi con le generazioni precedenti (35 anni e più), emerge come diviene progressivamente più difficile collocarsi sin dall'inizio della carriera lavorativa in una classe sociale superiore a quella del padre. Anzi il rischio di peggiorare, che si era ridotto per lungo tempo, segna un incremento per i nati dopo la metà degli anni '70, raggiungendo il 32,3% quando era del 23,6% per le coorti precedenti.
Le crescenti difficoltà per i giovani al primo impiego sono trasversali: i giovani di oggi provenienti dal ceto medio-alto retrocedono più spesso dei loro padri/nonni e i figli di operai salgono in misura minore di quanti li hanno preceduti negli ultimi 30 anni. Ma le intensità sono sicuramente diverse e rimane forte il condizionamento della famiglia di origine sulla mobilità sociale, determinando disuguaglianze nelle opportunità degli individui. I giovani sembrano ereditare i privilegi e gli svantaggi dei loro padri, le classi più elevate riescono ad assicurare ai propri figli l'accesso a posizioni migliori e un maggiore livello di protezione dal rischio di mobilità verso il basso. (Tabella 10.2.1)
Percorsi di scuola e lavoro: nascita o talento?
L'istruzione potenzialmente svolge un ruolo fondamentale nel favorire la mobilità sociale. Tuttavia, se le scelte di affrontare un certo percorso di studio anziché un altro, nonché i risultati conseguiti, dipendono fortemente dall'origine sociale, allora l'istruzione non riesce a svolgere la sua funzione di promozione sociale e le disuguaglianze tra classi tendono a riprodursi e a permanere nel tempo.
Il nostro sistema educativo, al fine di seguire i principi costituzionali, si è sempre più spostato verso un modello che permettesse a tutti gli studenti di raggiungere i propri obiettivi educativi e di formazione, in base unicamente alle proprie capacità e non alle caratteristiche della famiglia di origine. I progressi conseguiti sono notevoli, ma rimane ancora molto da fare in termini di reali opportunità.
In un recente studio, l'OCSE (Nota 5) ha analizzato l'influenza della famiglia d'origine rispetto alle scelte educative, ai risultati scolastici e lavorativi. Ne emerge un'Italia che non riesce a slegare i risultati ottenuti dai figli da quelli conseguiti dai genitori: a livello scolastico i figli di genitori laureati hanno il 50% di probabilità in più degli altri di laurearsi, mentre i figli di genitori poco istruiti hanno circa il 45% di probabilità in più di non ottenere un diploma di scuola superiore. Queste differenze permangono poi nel mercato del lavoro: i figli di padri laureati hanno in media un reddito superiore del 50% rispetto ai figli di padri con un'educazione inferiore. A questo va aggiunto che il 40% del vantaggio economico di una persona ben retribuita rispetto a un'altra meno retribuita si trasmette da padre in figlio.
Il background familiare influenza la scelta della scuola superiore e, di conseguenza, gli studenti si trovano a crescere in ambienti molto diversi fra loro: è diverso il gruppo di coetanei con cui andranno ad affrontare il percorso scolastico, così come l'approccio alle discipline. Ciò sarà poi determinante per le future scelte universitarie e lavorative. 
Dai dati dell'indagine del 2007 sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati del 2004 condotta da Istat, è possibile costruire un indicatore sintetico basato sul titolo di studio del padre e della madre e sul lavoro da essi svolto (Nota 6). Ne deriva che, in Veneto, il 35% dei diplomati proviene da famiglie con "background di basso livello", il 32% da famiglie con "background di medio livello" e il rimanente 33% da famiglie con "background di alto livello", valori in linea con la media nazionale.
Il background familiare influenza la scelta fra lavoro e università. Indipendentemente dal tipo di scuola frequentata e dai risultati conseguiti, i ragazzi con famiglie di basso profilo intraprendono per lo più un percorso lavorativo, i ragazzi con famiglie di alto profilo, invece, un percorso universitario. In dettaglio, scelgono di andare a lavorare la maggioranza dei ragazzi con un diploma professionale, in misura minore però quelli che vengono da famiglie agiate, mentre i giovani liceali proseguono l'università (o studiano e lavorano) per il 90% dei casi nella fascia di alto background e per il 77% in quella più bassa. Ma gli scarti si fanno più evidenti analizzando gli istituti tecnici: in media, fra i giovani con un alto background, il 55% prosegue gli studi, percentuale che scende progressivamente fino ad arrivare al 27% fra i ragazzi con profili familiari più bassi (28,2 punti percentuali di differenza). (Figura 10.2.2)
Similmente, tra i laureati al primo ciclo triennale, il proseguimento degli studi è più frequente per i figli di genitori che provengono da uno status sociale più elevato, mentre la prospettiva del lavoro prevale tra i figli di operai. (Tabella 10.2.2)

Figura 10.2.1

Tassi di mobilità assoluta (*). Veneto e Italia - Anni 1998 e 2009

Tabella 10.2.1

Tassi di mobilità (*) intergenerazionale. Veneto e Italia - Anni 1998 e 2009

Figura 10.2.2

Distribuzione percentuale dei diplomati nel 2004 per condizione occupazionale a tre anni dal conseguimento del diploma; differenze per background familiare e tipo di diploma. Veneto

Tabella 10.2.2

Laureati di primo livello (laurea triennale) a un anno dalla laurea per condizione e per classe sociale dei genitori (valori percentuali). Veneto - Anno 2009
 
Inizio Pagina

10.3 - Diventare adulti per essere generativi

La transizione alla vita adulta sembra essersi allungata in questi ultimi decenni e ciò pone i giovani in una situazione particolare all'interno della società, si trovano nella condizione di non essere considerati pienamente cittadini adulti e responsabili, poiché non sempre in grado di essere autonomi dalla famiglia di origine, anche da un punto di vista solo economico. Le difficoltà economiche che sta attraversando il nostro Paese complicano ulteriormente la conquista della piena autonomia, la complessità di raggiungere una stabilità lavorativa genera incertezza e precarietà per quanto riguarda i progetti di vita.
Tale situazione d'incertezza e precarietà potrebbe essere fonte di disorientamento e di ostacolo all'assunzione di una posizione precisa all'interno della società civile. Vi è il rischio per i giovani di un ripiegamento in se stessi e di chiusura nella loro condizione incerta, senza un futuro affidabile su cui proiettarsi.
Desideri e resistenze di autonomia
Essere generativi è una tappa fondamentale dell'età adulta, una tappa da raggiungere per ogni giovane nella sua transizione alla vita matura. Essere generativi apre alla presa in carico del proprio futuro e di quello degli altri, apre allo sviluppo di una dimensione relazionale di cura verso l'altro e di responsabilità sociale e di cittadinanza attiva.
Per essere generativi occorre saper porre una sana distanza dalla propria famiglia di origine, quella distanza che consente la propria particolare realizzazione in autonomia e quindi il proprio personale contributo alla società.
Sono 881.389 alla fine del 2011 i giovani di 18-34 anni residenti in Veneto, in calo del 23,4% rispetto al 1998 e rappresentano oggi il 18,2% della popolazione. Il 36,3% appartiene alla fascia 18-24, il restante a quella 25-34. Si tratta di giovani più istruiti che in passato: il 57,2% ha il diploma di scuola superiore, mentre il 16,2% vanta una laurea, rispetto al 5,6% di dieci anni prima. Ma a fronte di un investimento in capitale umano si constata una diminuzione del tasso di occupazione, che nel 2012 scende al 65,8%. Un quarto risulta sposato e il 17% ha figli, quote in diminuzione rispetto a un decennio fa.
Si modificano anche i profili delle famiglie di origine. Per il 9% sono figli di genitori separati o divorziati, meno che a livello nazionale, hanno genitori più istruiti (il 43,3% ha padre con almeno licenza superiore) e uno status sociale più elevato, con una mobilità dal ceto medio verso quello alto, mentre rimangono stabili i figli di famiglie di classe sociale più bassa (53,4%). (Tabella 10.3.1)
Più di metà dei giovani veneti dichiara di vivere ancora in casa con i genitori, il 58,3% in Italia, e il 48,4% non ha finora mai smesso di vivere nella famiglia di origine, nonostante si ritenga che l'età giusta per lasciare il nido materno sia la soglia dei 25 anni, senza differenze tra maschi e femmine. L'elevata età in cui i giovani lasciano la casa dei genitori è un fenomeno che ha investito il nostro Paese oramai da decenni, con una tendenza simile a molte società mediterranee. Negli stati membri dell'Europa nord-occidentale il distacco dalla famiglia di origine avviene prima che nell'area orientale e meridionale, di solito entro i 25 anni, addirittura poco dopo il raggiungimento della maggiore età nei Paesi scandinavi. In Italia vi è, invece, la tendenza a restare con i genitori fin oltre i 30 anni, un fenomeno sempre più diffuso che sta investendo anche le regioni del Sud, dove fino a qualche anno fa i giovani erano più propensi a formarsi presto una propria famiglia e a diventare genitori. 
Alla base vi è un aspetto culturale, ma non solo. In Italia in particolare, ma più in generale nei Paesi mediterranei, il legame tra genitori e figli ha sicuramente una natura diversa, è più forte e si mantiene a lungo intenso; i genitori tendono a investire molto sui figli, sia affettivamente che materialmente, particolarmente protettivi sembrano disposti a sacrificarsi di più per il loro bene e a ospitarli a lungo in casa, fin tanto che non si realizzano le migliori opportunità per il futuro. La crisi, inoltre, sembra disincentivare ulteriormente l'uscita di casa dei giovani che, per mancanza di lavoro, posticipano la decisione di crearsi una propria famiglia e in alcuni casi approfittano per completare gli studi. (Tabella 10.3.2)
I motivi più citati dai giovani riguardo alla permanenza in casa, infatti, hanno a che fare con questioni di natura economica: il 35% avrebbe difficoltà a sostenere un affitto, mentre il 12% fatica ancora ad avere un lavoro stabile; uno su tre dichiara di essere studente, quindi di non poter essere autonomo. C'è comunque anche chi ritiene di stare bene così, potendo comunque contare su una certa autonomia (26%). Rispetto a dieci anni prima sono in aumento i motivi legati a questione economiche, come l'affitto e il lavoro.
Il problema della casa non è sicuramente secondario e disincentiva la possibilità di intraprendere un percorso autonomo di vita. Come evidenziato anche dalle ricerche del Cnel (Nota 7), i giovani lamentano i costi insostenibili sia per i canoni di affitto che per l'acquisto della casa e denunciano la mancanza da parte delle istituzioni nell'adottare politiche abitative mirate agli under35. La difficoltà di accesso a case economicamente sostenibili limita, inoltre, la mobilità territoriale per chi vuole perseguire opportunità di studio o di lavoro, che si traduce in una rigidità del mercato del lavoro.
Tutto ciò va letto congiuntamente alla specificità dei regimi di welfare, in Italia non sempre generosi nei confronto dei giovani e della famiglia in generale. La mancanza di adeguati aiuti pubblici e di sufficienti ammortizzatori sociali non agevola sicuramente l'uscita di casa dei giovani italiani e la capacità di mantenersi senza l'aiuto dei genitori.
Chi rimane ancora in casa fatica nell'indipendenza economica e per questo non sempre può contribuire alle spese familiari: il 64,7% dei giovani veneti non lascia somme di denaro in casa, la maggior parte di questi non può disporre di entrate autonome, tanto che per sostenere almeno le spese personali, più della metà (55,3%) dichiara di ricevere soldi dai genitori, mediamente 182 euro al mese.
D'altra parte, fermo restando che il tasso di disoccupazione dei giovani 20-34enni è in questi anni in aumento, passando dal 5,9% del 2005 all'11,2% del 2012, cresce maggiormente proprio tra chi vive ancora con i genitori (dal 6,5% al 14,5%) rispetto a chi vive fuori casa. (Figura 10.3.1)
Il supporto della famiglia di origine è sempre stato e continua a essere l'ammortizzatore sociale fondamentale per le giovani generazioni, consentendo loro di affrontare la transizione allo stato adulto e di effettuare quindi un'analisi costi/benefici dell'uscita dalla famiglia che abbia meno rischi possibili. Il 61,6% ha parenti su cui può contare in caso di aiuto, anche di natura economica.
Non è sempre facile e naturale affrontare tale tipo di cambiamento. L'intenzione di uscire entro i futuri 3 anni c'è nel 54,5% dei giovani veneti, più della media nazionale, anche se non sempre trova poi concretizzazione immediata.
Ci sono resistenze personali, ci sono ostacoli economici ma, specie negli ultimi anni, anche in concomitanza con la crisi, i giovani hanno difficoltà perché impegnati a far propri e a interiorizzare i nuovi paradigmi della formazione e del lavoro. Nonostante la cultura giovanile sia aperta a esigenze di mobilità e precarietà che il lavoro oggi richiede, non è facile abituarsi a essere flessibili e accomodanti e tali processi di adattamento possono avvenire con qualche resistenza.
Quando si decide di separarsi dalla famiglia di origine, questo avviene nella maggior parte dei casi per matrimonio o convivenza (53,8%), anche se in forte calo rispetto a dieci anni prima (78,7%): ciò è tipico dei Paesi di cultura mediterranea, mentre nell'Europa centro-settentrionale i giovani vanno più precocemente a vivere da soli, anche con amici o con un partner. Altri motivi sono lo studio o il lavoro (26,5%) e più in generale un'esigenza di autonomia (12,1%).
Vanno a vivere per lo più in affitto e chi è più impegnato a sostenere le spese per l'abitazione sono soprattutto i single che scelgono di vivere da soli rispetto alle coppie giovani, come espresso dall'indice sintetico di sostenibilità economica, che tiene conto dell'entità dei costi sulla casa e di quanto incidono sul reddito. L'indice varia da 0 a 100, dove 0 rappresenta la condizione peggiore e 100 la situazione più favorevole, cioè la massima sostenibilità (Nota 8). Se per la generalità delle famiglie venete l'indice, pari a 73 punti su 100, mostra un livello di sostenibilità economica dell'abitazione accettabile, per i giovani che vivono soli ne mette in evidenza invece la sofferenza, attestandosi su un valore di 43,5, in calo di quasi 10 punti rispetto a qualche anno prima. 
Tra chi fa il passo del matrimonio per uscire di casa, il 63,4% può godere di una casa propria, in prevalenza perché costruita o acquistata, talvolta perché ricevuta in eredità, a titolo gratuito o già di uno dei partner. Pur abbandonando il nido, non si allontano troppo dalla famiglia di origine, dal momento che il 69% sceglie una residenza entro 16 km dalla famiglia, mantenendo così relazioni più frequenti con i parenti e potendo contare sul loro supporto affettivo e materiale.
Andare o restare?
In questa fase di cambiamento economico per il nostro Paese, oggi più di un tempo si affaccia la prospettiva di andare a lavorare e di vivere altrove. Non più tanto come soluzione temporanea, ma come progetto definitivo o per lo meno di medio o lungo periodo.
La tendenza crescente, almeno come ipotesi, di vivere e lavorare altrove potrebbe essere frutto di un meccanismo difensivo, talvolta di ripiegamento: se il rischio è quello di avere meno dei propri genitori, allora si è più portati a pensare la propria vita altrove.
A livello nazionale, secondo una recente indagine condotta dal Censis, la maggioranza della popolazione ritiene che in futuro varrà comunque la pena restare in Italia: il 66,5% dichiara che, se ne avesse la possibilità, non se ne andrebbe dall'Italia, specie perché ha qui le proprie radici. Se però tra questi si osserva l'opinione dei giovani la situazione si ribalta: tra i 18-29enni, il 57,1% ipotizza in futuro di andarsene dall'Italia, specie perché nota un peggioramento della qualità della vita.
La prospettiva di cambiare Paese non è solo un'eventualità dei giovani, ma sembra essere presente anche nelle rispettive famiglie: il 38% delle famiglie italiane con figli pensa che i propri figli studieranno all'estero, il 43% nel Nord-Est, e tale quota sale al 62% delle famiglie di laureati. Sembra estendersi la percezione collettiva dell'incapacità dei percorsi formativi di favorire mobilità sociale e garanzia di sfuggire alla precarizzazione.
Considerando i dati delle anagrafi comunali, nell'ultimo decennio aumentano i giovani che lasciano l'Italia per l'estero, trasferendo la propria residenza, quindi ipotizzando una permanenza di lungo periodo. Se nel primo quinquennio degli anni Duemila i trasferimenti riguardavano meno di mille ragazzi di 18-35 anni all'anno, negli ultimi cinque anni coinvolgono più di 1.600 giovani, soprattutto di età 25-34 anni (circa l'83%). Vanno prevalentemente in Regno Unito (18% nel 2011) e Germania (12%), ma nel tempo cambiano anche le destinazioni: se fino a qualche anno fa erano maggiormente diretti in Gran Bretagna, ora diventano attrattivi altre mete, anche extra-europee, come il Brasile (10%) e gli Stati Uniti (6%). (Figura 10.3.2)
Limitando l'attenzione ai laureati, tra coloro che hanno conseguito il titolo nel 2007, un laureato veneto su 8 nel 2011 lavora in una regione diversa da quella di origine, ma pur sempre italiana, valore in linea con le regione del Nord e inferiore al Mezzogiorno. La scelta di un'altra nazione coinvolge meno studenti: al Nord il 2,6% dei laureati di corsi a ciclo unico o specialistici ha optato per l'estero, valore in linea anche con la tendenza della nostra regione (Nota 9). (Figura 10.3.3)

Tabella 10.3.1

Caratteristiche dei giovani di 18-34 anni e della famiglia di appartenenza. Veneto e Italia - Anni 1998 e 2009

Tabella 10.3.2

Indicatori di percorsi di autonomia dei giovani di 18-34 anni. Veneto e Italia - Anni 1998 e 2009

Figura 10.3.1

Condizione occupazionale dei giovani in età 20-34 anni per contesto familiare e tasso di disoccupazione. Veneto - Anni 2005 e 2012

Figura 10.3.2

Trasferimenti di residenza all'estero di giovani di 18-34 anni per Paese di destinazione (distribuzione percentuale). Veneto - Anni 2007 e 2011

Figura 10.3.3

Laureati del 2007 che nel 2011 lavorano in una regione diversa da quella in cui risiedevano prima dell'università (per 100 occupati che risiedevano nella regione prima dell'iscrizione all'università)
 
Inizio Pagina

10.4 - Strategie per realizzarsi

In questa difficile fase di transizione dalle economie nazionali all'economia globalizzata, di profondi mutamenti nei metodi di produzione e organizzazione del lavoro e di trasformazioni demografiche, sono le giovani generazioni a sopportare la maggior parte degli oneri dovuti ai cambiamenti. Le difficoltà che i giovani incontrano oggi nel trovare un lavoro e, in particolare, un impiego stabile, influiscono in tutte le altre sfere della vita del ragazzo: ritardo nel raggiungimento dell'autonomia economica e, di conseguenza, nell'uscita dalla famiglia di origine, ritardo nella formazione di un proprio nucleo familiare, ritardo, e spesso rinuncia a procreare, segnale di forte disagio sociale che avrà ancor più in futuro forti ripercussioni demografiche e sui rapporti tra generazioni.
Giovani veneti, meno disoccupati e meno instabili
Già dai primi anni Novanta la recessione scarica gran parte del suo peso sui giovani, riducendo notevolmente il ricambio generazionale sui posti di lavoro. L'età media della forza lavoro da allora è cresciuta ininterrottamente: le aziende, infatti, hanno reagito alle difficoltà non solo con l'espulsione di lavoratori adulti, ma soprattutto riducendo il turn over. Dal 1997, anche a seguito dell'introduzione delle forme di flessibilità contenute nel pacchetto Treu, l'occupazione giovanile ha un nuovo impulso e manifesta una dinamica positiva per alcuni anni. Ma la recente crisi evidenzia vecchi e nuovi problemi e nel 2012 in Italia si registra un tasso di disoccupazione per i giovani 25-34 del 14,9% % e addirittura del 35,3% per i ragazzi15-24enni, il valore più alto di quest'ultimo ventennio e al di sopra del dato medio europeo che si ferma al 22,8%. Concentrandoci sui più giovani, l'Italia si conferma tra i Paesi con le prospettive lavorative peggiori: condizioni più svantaggiose solo in Grecia e Spagna, dove oltre la metà dei ragazzi non trova lavoro, e in Portogallo dove la disoccupazione è al 37,7%. Le condizioni migliori, invece, si registrano in Germania, Austria e Paesi Bassi dove meno del 10% incontra difficoltà.
Fortunatamente, la situazione dei giovani veneti è tra le più favorevoli in Italia: infatti, con un tasso di disoccupazione del 23,7%, contro un dato del 17% di venti anni prima e dell'8% di dieci anni fa, si classifica, comunque, come la seconda regione italiana per i livelli di disoccupazione più bassi; primo il Trentino Alto Adige con il 15,2%. Largamente inferiore, rispetto alla media italiana, anche la quota di ragazzi veneti in cerca di lavoro da oltre un anno: il 6,1% delle forze lavoro contro il 17,2% nazionale. (Figura 10.4.1)
Migliore anche la situazione dal punto di vista contrattuale: il Veneto è terzo solo dopo a Molise e Lombardia per la percentuale di ragazzi assunti con contratto a tempo indeterminato. Questo è sicuramente un risultato positivo, ma non bisogna trascurare il trend del fenomeno e gli effetti della crisi degli ultimi anni: nel 2005 la quota di lavoratori 20-34enni a tempo determinato era il 15% in Veneto e il 19% in Italia. Nel giro di qualche anno, tale quota è aumentata: di nove punti percentuali nella nostra regione e di sette e mezzo a livello nazionale fino a registrare, rispettivamente, nel 2012 il 24% e il 26,7%.
Ma accanto alla disoccupazione vi è un'altra realtà più critica che sta investendo sempre più i giovani di oggi: quella dei NEET, acronimo inglese di "Not in Employment, Education or Training", ovvero ragazzi che "Non lavorano, non studiano, non si formano", cioè non fanno niente.
In Veneto nel 2012 il 25% dei giovani in età 15-24 anni lavora, mentre il 59% sta studiando o sta perfezionando la preparazione tramite dei corsi di formazione. I NEET rappresentano, invece, il 16% dei ragazzi veneti, situazione migliore di quella rilevata a livello nazionale, dove si tocca il 21%.
Ma chi sono questi giovani? Una parte sono ragazzi che avevano un lavoro, ma dopo averlo perso sono alla ricerca di una nuova occupazione (disoccupati ex occupati), altri hanno appena concluso gli studi e stanno cercando il loro primo impiego (disoccupati in cerca di prima occupazione) e altri ancora, dopo un periodo di inattività, hanno iniziato una ricerca attiva di lavoro (disoccupati ex inattivi). Tuttavia, la parte più numerosa è rappresentata da quei ragazzi che non hanno un lavoro e che al tempo stesso non lo stanno cercando, ossia gli inattivi: in Veneto sono il 9% sul totale dei giovani in età 15-24 anni mentre in Italia oltre il 12%. La cosa più preoccupante è che nella nostra regione negli anni sono aumentati di più proprio i NEET inattivi. Troppo facile e sbrigativo sarebbe, comunque, definirli bamboccioni: è necessario capirne le implicazioni a livello personale e sociale, e soprattutto studiarne le cause. Il fenomeno è legato alla crisi occupazionale che ha coinvolto il nostro Paese, ma non è l'unica causa; è intrinseco al territorio in cui il ragazzo vive. Inoltre, bisogna interrogarsi sulla sensazione di scoraggiamento che provano i ragazzi davanti a una società che sembra poter offrire poco in questo momento e ancora su quello che oggi sono disposti a fare: sono disposti a fare qualsiasi lavoro pur di lavorare o possono permettersi di aspettare, sicuri del focolare familiare? (Tabella 10.4.1)
Scelte dopo la laurea: una decisione sul proprio futuro
L'impatto delle trasformazioni demografiche, l'aumento del livello educativo e la crisi economica stanno modificando notevolmente il mercato del lavoro giovanile. Questi fattori hanno agito su leve differenti, portando ad avere una forza lavoro con titoli di studio elevati, una forza lavoro sempre più qualificata, ma che paga pesantemente gli effetti della crisi economica.
Il calo della natalità è intervenuto a monte facendo diminuire il numero di giovani: se nel 2005 si contavano 1.130.798 giovani in Veneto di età 15-34 anni, nel 2011 si ha una diminuzione del 10,4%. L'aumento del livello educativo, invece, è intervenuto ingrossando le fila degli inattivi: sempre più giovani decidono di proseguire gli studi fino al raggiungimento della laurea o di un titolo superiore, ritardando così l'ingresso nel mercato del lavoro. Infine, la crisi economica ha agito sul gruppo dei disoccupati, facendo aumentare il numero di 15-34enni in cerca di occupazione. I più colpiti risultano i ragazzi con un basso titolo di studio: il loro tasso di disoccupazione dal 2008 al 2012 cresce di quasi 10 punti, raggiungendo nell'ultimo anno quota 17,2%, rispetto all'11,3% dei laureati. Se dunque un titolo di studio elevato non è garanzia di un lavoro qualificato e stabile, rappresenta comunque uno strumento importante che i giovani hanno a disposizione all'ingresso di un mercato del lavoro molto incerto e precario.
Queste tre dinamiche hanno determinato dei cambiamenti sostanziali nella composizione delle forze lavoro, sempre più formata e qualificata: nel 2005 quasi un terzo degli occupati in età 15-34 anni possedeva al più la licenza media, percentuale che nel 2012 si ferma al 22%; al contrario, i laureati pesavano per il 12,8% nel 2005, mentre nel 2012 incidono per il 18,3%.
Focalizzandosi sui laureati, dall'indagine Istat sull'inserimento professionale dei laureati nel mercato del lavoro è possibile analizzare le scelte e i percorsi dei giovani che dopo la laurea muovono i primi passi nel lavoro. Risulta, così, che fra quanti hanno ottenuto il titolo nel 2007 e che risiedono in Veneto al momento dell'intervista, il 40% lavora al momento del conseguimento del titolo, percentuale che sale al 60% dopo un anno (nel 2008) e al 78% dopo circa quattro anni (nel 2011). È tuttavia necessario approfondire questi dati alla luce dei percorsi universitari intrapresi: le scelte lavorative risultano, infatti, molto diverse fra laureati triennali, laureati specialistici (corsi di durata biennale) e laureati in corsi di durata 4-6 anni del vecchio ordinamento o specialistici a ciclo unico. A questo proposito va ricordato che nel corso degli ultimi anni sono intervenute numerose riforme in ambito universitario: a partire dal 1999 è stato introdotto, infatti, il nuovo sistema 3+2, formato da una laurea triennale di primo livello, seguita da una laurea specialistica di due anni, modificato nel 2004 con il passaggio dalle lauree specialistiche a quelle magistrali (Nota 10).
Entrando più nello specifico, il 54% dei laureati triennali che vive in Veneto ha intrapreso il successivo biennio specialistico; i livelli di occupazione di questo gruppo di giovani sono chiaramente più bassi rispetto ai laureati che non hanno proseguito ulteriormente gli studi: per i primi il tasso di occupazione a quattro anni dal conseguimento del titolo triennale è pari al 65%, mentre per i secondi sale all'89%. Questo valore è superiore anche ai tassi di occupazione di coloro che hanno una laurea specialistica (83%) e dei laureati del vecchio ordinamento o in corsi a ciclo unico (79%), molti dei quali impiegati in ulteriori attività formative come tirocinio, praticantato e specializzazione.
Anche per i laureati la crisi sta arrestando il trend positivo di crescita dei livelli occupazionali sebbene sia difficile effettuare dei confronti diretti, considerato l'intervento delle riforme universitarie. Per questo motivo è possibile confrontare i risultati delle precedenti edizioni dell'indagine Istat (a partire dai laureati del 1998) solo per i laureati del vecchio ordinamento, che nell'ultimo anno vengono equiparati ai laureati specialistici e quelli a ciclo unico; per le lauree triennali è possibile confrontare solamente le ultime due edizioni (laureati del 2004 e del 2007). Per i giovani con una laurea "lunga", il tasso di occupazione a quattro anni dall'acquisizione del titolo di studio è in genere in aumento, ma negli ultimi anni rimane stabile se non in lieve peggioramento (81,2% nel 2011 contro 81,7% nel 2007). Per i ragazzi con un titolo triennale la diminuzione dei livelli occupazionali è più evidente (-3,6 punti percentuali), segnale che questo gruppo di giovani risente maggiormente della crisi economica.
Per i laureati specialistici il confronto è possibile solo a un anno distanza dal conseguimento del titolo di studio, anche per loro l'occupazione scende dal 73,4% del 2008 al 65,5% del 2011. (Figura 10.4.2)
La qualità del lavoro
Nel 2011 oltre 9 laureati su 10 svolgono un lavoro continuativo, anche se più di un terzo ha un contratto a termine. Dal 2001 al 2007 la quota di laureati assunti con contratti a termine cresce costantemente, fino a raggiungere il 38% per i giovani con laurea "lunga". In seguito si è registrata, invece, una flessione, ma al contempo si segnala un aumento importante dei lavoratori occasionali. Due tendenze che evidenziano la volontà dell'ultimo decennio di passare da un mercato lavorativo rigido a uno più flessibile e più funzionale per la società di oggi; i contratti a termine sono stati introdotti e successivamente riformati per combattere la rigidità del mercato del lavoro italiano: in molti casi, infatti, venivano imposti ai datori di lavoro degli obblighi importanti che spesso finivano per bloccare la crescita occupazionale anziché favorire del tutto i lavoratori (Nota 11). (Figura 10.4.3)
Scendendo nel dettaglio dei lavori svolti, 3 laureati su 4 nel 2011 hanno un'occupazione alle dipendenze: in particolare, il 14% è un dirigente o un quadro, il 46% è un impiegato ad alta/media qualificazione e un ulteriore 14% è un impiegato esecutivo. Un numero più esiguo di laureati svolge un lavoro autonomo (18%, per lo più liberi professionisti), mentre il rimanente 7% è impiegato in lavori a progetto o in collaborazioni coordinate e continuative. Le lauree "lunghe" di 4-6 anni e le lauree specialistiche garantiscono lavori più qualificati: è, infatti, maggiore la quota di liberi professionisti rispetto alle lauree triennali (18% vs 11%), ma anche la quota di impiegati ad alta e media qualificazione (39% vs 54%).
Il 18% dei laureati triennali che non hanno proseguito gli studi con una laurea magistrale è un impiegato esecutivo, risultando sottoinquadrato, in quanto possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per svolgere tale professione. Va sottolineato, inoltre, che per quasi 4 laureati su 10, la laurea non è stato un requisito necessario per ottenere l'attuale posto di lavoro, valore che sale al 50% fra i soli laureati triennali che non hanno continuato a studiare.
Il fenomeno del sottoinquadramento cresce e interessa maggiormente i giovani. Con l'aumentare dell'età il problema si attenua, anche se un netto miglioramento si registra solamente dopo i 34 anni. Il sottoutilizzo del capitale umano rischia di scardinare il delicato collegamento fra titolo di studio e mercato del lavoro: studiare, infatti, costa sia in termini di spese dirette (tasse, materiali, libri di testo...) sia in termini di mancato guadagno durante il periodo di studio. Questo svantaggio iniziale deve essere, poi, recuperato e deve portare a dei benefici che si traducono in redditi più elevati, maggiori probabilità di occupazione e lavori migliori. Studiare è un investimento e come tale deve produrre dei risultati tangibili, altrimenti il valore della laurea tenderà a diminuire.
Dal punto di vista del reddito percepito, nel 2011 i laureati che svolgono un lavoro alle dipendenze guadagnano mediamente circa 1.250€ al mese (Nota 12): più svantaggiati i laureati in corsi a ciclo unico (1.280€) e i laureati triennali che hanno proseguito gli studi (1.200€), rispetto ai laureati specialistici e triennali che non hanno proseguito gli studi (1.300€). Chiaramente queste differenze sono dovute al ritardato ingresso nel mercato del lavoro dovuto, come già sottolineato, al prolungarsi delle attività formative, soprattutto tirocini e specializzazioni per i laureati a ciclo unico.
Al di là delle caratteristiche occupazionali e della retribuzione percepita, è interessante entrare in una dimensione più soggettiva, ossia quella della soddisfazione per il lavoro svolto. Nel 2011, in Veneto i laureati si sentono soddisfatti soprattutto per il grado di autonomia e le mansioni svolte: circa l'88% dei laureati esprimono un giudizio positivo (molto o abbastanza soddisfatti). Buona anche la soddisfazione per la stabilità del posto di lavoro (76% di giudizi positivi) ­ nonostante la crisi economica e il sempre più allarmante problema della precarietà ­, mentre più carenti risultano l'utilizzo delle conoscenze acquisite durante il percorso di studi (69% è soddisfatto), il trattamento economico (64%) e la possibilità di far carriera (60%). Per quanto riguarda l'utilizzo delle conoscenze acquisite, va sottolineato che il 38% dei laureati ritiene che la laurea ottenuta non sia effettivamente necessaria per svolgere l'attuale lavoro.
Per ciascuno degli aspetti considerati è possibile poi calcolare un punteggio medio che varia da 0 (per niente soddisfatto) a 100 (molto soddisfatto). I laureati triennali che non hanno proseguito gli studi si considerano mediamente più soddisfatti rispetto agli altri soprattutto per la stabilità del posto di lavoro, ma sentono che la laurea conseguita non è pienamente sfruttata dal punto di vista delle conoscenze acquisite. Al contrario, i laureati specialistici/magistrali ritengono che le conoscenze apprese all'università siano ben sfruttate e si sentono maggiormente appagati per il trattamento economico e la possibilità di fare carriera. Anche i laureati a ciclo unico si sentono soddisfatti dell'utilizzo delle conoscenze acquisite, ma ritengono più inadeguato lo stipendio e la stabilità del posto di lavoro. (Figura 10.4.4)
Complessivamente, la soddisfazione generale per la sfera lavorativa dei laureati si può considerare buona: aggregando i sei aspetti appena esaminati, l'indicatore di soddisfazione è pari a 65,8 su 100, valore leggermente superiore fra i laureati specialistici. Negli anni, è rimasta pressoché invariata per i laureati triennali, mentre è leggermente cresciuta per quelli del vecchio ordinamento. Da sottolineare, tuttavia, che nel 2011 l'indicatore è stato calcolato considerando anche le lauree specialistiche, che appunto hanno dei valori piuttosto elevati rispetto ai laureati a ciclo unico (67,4 vs 65,5).
Inoltre, non tutte le componenti si sono modificate nella stessa direzione: i laureati triennali, ad esempio, si dimostrano sempre meno soddisfatti dell'utilizzo delle conoscenze acquisite durante la laurea e della stabilità del posto di lavoro, ma sono più contenti del trattamento economico rispetto all'indagine di quattro anni prima. I laureati del vecchio ordinamento e in laureati a ciclo unico, invece, si dimostrano sempre più soddisfatti dell'utilizzo delle conoscenze acquisite, ma lamentano possibilità sempre più scarse di fare carriera. (Figura 10.4.5)
I giovani fanno impresa
L'impresa è tra le forze che possono contribuire a rilanciare il Paese. Investire su idee, energie e imprenditori nuovi può aiutare a dare slancio allo sviluppo.
Il futuro dei giovani, il loro successo o il loro fallimento, dipende anche dalla capacità del sistema di indirizzarli verso l'imprenditorialità, di coltivarne l'entusiasmo, l'ottimismo e la motivazione del fare da sé e del fare con gli altri. Oltre a contribuire all'economia, i giovani che fanno impresa danno lavoro ad altri giovani, incentivando così processi di autonomia e di realizzazione personale.
Nel 2012 le persone con meno di 30 anni titolari di un'impresa in Veneto sono 13.879, il 5,2% del totale dei titolari. Sono quasi esclusivamente imprese individuali quelle dei titolari under30, tipologia tra le più semplici e meno onerose e che probabilmente meglio risponde alle esigenze di chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro, come ad esempio un'attività commerciale, che infatti interessa il 26% dei giovani imprenditori.
Il contributo dei giovani nel fare impresa segnala un trend in ribasso negli ultimi anni, non solo in termini assoluti ma anche di quota sul totale: più in generale, è in diminuzione il numero di nuovi titolari, ma il calo è più evidente per i titolari giovani, la cui incidenza è scesa di 1,7 punti percentuali rispetto al 2005 Ciò significa che i giovani sono meno agevolati e meno incentivati a fare impresa. (Figura 10.4.6)
Il Decreto Liberalizzazioni (Nota 13) del Governo Monti si inserisce come uno dei vari tentativi per rilanciare l'imprenditorialità delle nuove generazioni. Approvato nel 2012, il decreto, oltre a misure per la semplificazione delle attività economiche, contiene interessanti novità per i giovani. In particolare, l'articolo 3 prevede per gli under35 che vogliono diventare imprenditori la nascita di una forma semplificata di Srl, società a responsabilità limitata, che richiede un semplice atto costitutivo e un capitale sociale di un solo euro.
Al 31 dicembre 2012 sono 241 in Veneto le Srl semplificate (165) e a capitale ridotto (76) costituite nei primi mesi dallo loro introduzione nell'ordinamento giuridico attraverso il Decreto Liberalizzazioni, il 5,8% del totale italiano.
L'intraprendenza dei giovani trova realizzazione anche in un settore, come quello agricolo, che forse nell'immaginario collettivo appartiene alle generazioni più adulte, ma che invece ottiene benefici importanti anche dalle idee e dalle energie dei giovani.
Il subentrare delle nuove generazioni nel mondo agricolo sta apportando, infatti, trasformazioni e novità. Sebbene i capi azienda sotto i 40 anni occupino solamente il 7% delle aziende venete, l'impulso al rinnovamento è notevole: essi  in media sono più istruiti, sono a capo di aziende di dimensioni maggiori, impiegano più volentieri manodopera non familiare fornendo occupazione nel territorio, ricorrono a forme societarie e all'informatica per la gestione aziendale, sfruttano le opportunità della multifunzionalità e delle produzioni di qualità. Tutto ciò garantisce una redditività media aziendale di due volte e mezza superiore a quella dei propri colleghi.
Start Cup per nuove idee
Per stimolare la ricerca e l'innovazione tecnologica, aiutando a dare concretezza a giovani idee, le università venete (Nota 14) promuovono da qualche anno il premio Start Cup Veneto.
È una competizione che premia le migliori innovazioni imprenditoriali espresse sotto forma di business plan, assegnando un sostengo economico a 5 vincitori, ma offrendo anche a tutti i partecipanti occasioni di formazione, opportunità di scambi professionali e un contatto privilegiato con il mondo industriale e finanziario. Il concorso prevede inoltre l'accesso per i primi 5 progetti al Premio Nazionale per l'Innovazione, assieme ai vincitori delle altre 16 Start Cup italiane.
La competizione è aperta a tutti i gruppi, composti da almeno tre persone, che propongono un'idea imprenditoriale ad alto contenuto innovativo, in qualsiasi campo e indipendentemente dallo stadio di sviluppo, aspirando a costituire un'impresa.
Nell'edizione 2013 gli iscritti sono 108, per un totale di 397 persone: la maggior parte partecipa nella categoria "ICT and social innovation" (67%), seguono "Industrial" e "Agrifood-Cleantech" (entrambe 13%), e infine la categoria "Life Science" (7%). Negli ultimi 5 anni le business plan presentate all'iniziativa sono state circa 349.
Seppur aperta a chiunque, anche a chi non ha alcun legame con l'università, la competizione vede una larga partecipazione di giovani e laureati. Nel biennio 2011-2012, il 77% dei capigruppo ha meno di quarant'anni anni; per quanto riguarda invece il background accademico, le facoltà scientifiche la fanno da padrona: oltre la metà dei capigruppo partecipanti alle edizioni di Start Cup Veneto sono laureati in materie scientifiche e di questi il 24% in ingegneria. Non è da sottovalutare, tuttavia, la quota di capigruppo laureati in facoltà umanistiche, come lettere, filosofia e lingue (11%) o psicologia-sociologia (6%), ambiti notoriamente meno propensi all'iniziativa imprenditoriale, e il 12% di non laureati. (Figura 10.4.7)
I risultati concreti del progetto Start Cup Veneto non si fanno attendere, dimostrando la grande vivacità del Veneto nel campo dell'imprenditoria tecnologica: nelle prime undici edizioni sono nati 24 spin-off universitari e altri 3 sono in fase di costituzione, 14 imprese start-up esterne al mondo universitario e 19 brevetti.

Figura 10.4.1

Tasso di disoccupazione (*) e disoccupazione di lunga durata (**) dei giovani in età 15-24 anni. Veneto e Italia - Anni 1993:2012

Tabella 10.4.1

Distribuzione percentuale dei 15-24enni per condizione. Veneto e Italia - Anni 2005:2012

Figura 10.4.2

Tassi di occupazione dei laureati che risiedono in Veneto a circa 3-4 anni dal conseguimento del titolo - Anni 1995:2011 (*)

Figura 10.4.3

Percentuale di laureati con un lavoro a termine a 3/4 anni dal conseguimento del titolo. Veneto - Anni 2001:2011 (*)

Figura 10.4.4

Giudizio dei laureati del 2007 per il lavoro svolto nel 2011 (*) per tipo di aspetto - Veneto

Figura 10.4.5

Giudizio dei laureati per il lavoro svolto (*) per tipo di aspetto. Veneto - Anni 2001-2011 (**)

Figura 10.4.6

Giovani di 18-29 anni titolari di imprese e percentuale sul totale di titolari. Veneto - Anni 2005:2012

Figura 10.4.7

Distribuzione percentuale dei capigruppo partecipanti alle edizioni di Start Cup Veneto per titolo di studio. Veneto - Anni 2008:2012