U.O. Sistema Statistico Regionale U.O. Sistema Statistico Regionale
Capitolo 3

Più opportunità per il paese ripartendo dall'occupazione

Il rilancio dell'economia non può prescindere dal rilancio dell'occupazione. La crisi è, infatti, intervenuta con prepotenza sul mercato del lavoro, azzerando molti dei passi in avanti compiuti dagli stati europei fino al 2008.
La strategia "Europa 2020" si inserisce, così, in un contesto difficile, con livelli di occupazione in calo, disoccupazione crescente e disparità ancora evidenti e rappresenta uno strumento indispensabile per ottenere nel prossimo futuro stabilità e opportunità di crescita.
L'occupazione è stata da subito un'importante necessità del Governo Monti. Il punto di partenza su cui l'esecutivo si trova a discutere è un mercato del lavoro bloccato e poco equo, con gruppi di lavoratori molto tutelati ed altri totalmente privi di forme assicurative contro la disoccupazione. Si delineano, dunque, due strade da percorrere: l'estensione delle protezioni sociali e la crescita della produttività.
La parola d'ordine sembra essere flessibilità, in entrata e in uscita: il contratto a tempo indeterminato è un valore radicato nella società italiana, presupposto spesso per determinate scelte personali (es. uscire dal nucleo familiare, avere un figlio) e sociali (es. concessione di un mutuo), ma al giorno d'oggi rappresenta un freno allo sviluppo del mercato; i datori di lavoro, infatti, sono scoraggiati da questa tipologia contrattuale a causa dei costi elevati e dalla difficoltà di garantire un posto fisso e sono spinti verso contratti di lavoro a termine.
Chiedere ai lavoratori più mobilità implica, però, garantire una solida e diffusa rete di protezione in caso di perdita temporanea del lavoro. Da qui l'esigenza di una riforma strutturale del sistema degli ammortizzatori sociali, al momento caratterizzato da forti disomogeneità (fra settori produttivi, dimensione d'impresa, tipologie contrattuali) e da una mancanza di efficaci politiche attive per incentivare la ricerca di lavoro.
L'attenzione del nuovo Governo è poi focalizzata sulle due categorie notoriamente più penalizzate dal mercato del lavoro italiano, ossia i giovani e le donne.
È necessario assicurare la piena inclusione femminile, trovando nuove strategie per la conciliazione fra vita familiare e vita lavorativa, così da aumentare le possibilità occupazionali. Alle donne è, infatti, richiesto di essere madri, mogli, figlie, lavoratrici, ma è essenziale scaricare il peso che grava su di loro, incentivando, ad esempio, la suddivisione delle responsabilità dei figli ad entrambi i genitori, adeguando i sistemi di cura alle nuove esigenze delle famiglie, adattando i tempi del lavoro ai tempi della famiglia.
Ma sono i giovani l'obiettivo primario dell'azione governativa: il Presidente Monti si rivolge a loro come i talenti su cui investire per poter dare nuovo slancio alla ripresa del Paese. È indispensabile fornire ai giovani più opportunità nel difficile inserimento nel mondo del lavoro, trovando gli strumenti più adatti per agevolarne l'occupazione. A questo proposito l'apprendistato sembra essere uno dei canali privilegiati: creando un anello di congiunzione fra formazione e lavoro, permette alle imprese di formare dei lavoratori adeguati alle reali esigenze del mercato e ai giovani di acquisire capacità tecniche e professionali che il sistema educativo non riesce a fornire. La Regione Veneto da tempo si è mossa in questa direzione: da sottolineare i traguardi raggiunti in merito all'apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione e all'apprendistato in alta formazione per l'ottenimento del titolo di dottore di ricerca.
Se i giovani e le donne sono le priorità di governo dei prossimi mesi, gli anziani sono stati i primi ad essere coinvolti nel processo di cambiamento in atto. È, infatti, già operativa dall'1/1/2012 la riforma del sistema pensionistico, presentata nel decreto legge 201/2011, cosiddetto "Salva Italia": vincolo di bilancio, stabilità economico-finanziaria e sostenibilità del sistema pensionistico, sono gli obiettivi definiti dal Governo Monti che si sono tradotti in un aumento dell'età pensionabile e un completo passaggio al sistema contributivo.
 
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3.1 - L'occupazione in tempo di crisi

Un'Europa a tinte forti
Per uscire dalla crisi economica, l'Europa può contare su uno strumento di indirizzo molto importante: la strategia "Europa 2020", che individua priorità e obiettivi da raggiungere in questo decennio. Per quanto riguarda il difficile tema del lavoro, la Commissione europea ha definito un obiettivo ambizioso: arrivare ad occupare il 75% della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni entro il 2020.
Vista la complessa situazione del mercato del lavoro nazionale, questo target sembra lontano; il governo italiano ha fissato, dunque, per l'Italia un obiettivo più realistico compreso tra il 67% e il 69%. Molto però rimane da fare: nel 2010, il tasso di occupazione in età 20-64 nel nostro paese supera appena il 61%, ad di sotto di 14 punti percentuali rispetto al target europeo e di 6 punti rispetto a quello italiano. Migliore la situazione del Veneto che ha già raggiunto l'obiettivo nazionale, con una quota di occupati che sfiora il 69%, e può puntare verso l'Europa.
Tuttavia, è il tasso di disoccupazione che dipinge inequivocabilmente il difficile momento del vecchio continente; nella mappa sottostante, si può osservare come il 2001 si colori in parte di verde (bassa disoccupazione) e in parte di rosso (alta disoccupazione), segnando un netto confine fra l'Europa dell'Est, dove i tassi di disoccupazione superano in molti casi il 12,5%, e l'Europa centrale con tassi inferiori al 6%. Il Veneto, con 3,5 disoccupati ogni 100 persone appartenenti alle forze lavoro, rientra nella classe inferiore, assieme a molte regioni della Germania meridionale e dell'Austria.
Nel 2008, il rosso quasi scompare dalla mappa europea: poche regioni superano il 12,5%, fra le quali il Sud della Spagna, Sicilia e Campania, l'area della Germania orientale, la Macedonia, parte dell'Ungheria e della Slovacchia. Il Veneto continua a rimanere nell'area a bassa disoccupazione, registrando un tasso pari a 3,5%.
Nel 2010 l'Europa torna a tinte forti: è evidente il peggioramento di Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e Paesi Baltici. L'area colorata di verde è ridotta a poche regioni concentrate nell'Europa centrale, tra le quali molte del Nord Italia, Austria e Germania centro meridionale. In Veneto, il tasso di disoccupazione rimane fra i più bassi d'Europa, nonostante l'aumento registrato negli anni successivi alla crisi. (Figura 3.1.1)
Gli effetti della crisi in Italia e in Veneto
La strategia "Europa 2020" è il naturale evolversi della strategia di Lisbona, avviata nel 2000, che fissava un target del 70% per il tasso di occupazione in età 15-64 anni da raggiungersi entro il 2010.
Dal 2000 al 2008, il Veneto aveva trovato la giusta spinta per poter arrivare agli obiettivi europei, ma la crisi economica ha rallentato la crescita, allontanando il traguardo: il tasso di occupazione dal 2008 al 2010 è diminuito di quasi 2 punti percentuali e il tasso di disoccupazione è aumentato di altrettanti punti. In ogni caso i livelli di occupazione nella nostra regione si mantengono ben al di sopra della media nazionale ed europea. L'Italia ha seguito lo stesso andamento: occupazione in aumento e disoccupazione in calo fino al 2007-2008 e poi un veloce cambio di tendenza.
In questo quadro, il 2011 potrebbe segnare un nuovo punto di svolta: l'occupazione in Veneto è cresciuta di 0,4 punti percentuali e la disoccupazione ha perso 0,8 punti; sarà poi il 2012 a dire se il cambio di orientamento è in atto, confermando o meno questi valori. (Figura 3.1.2)
Non tutti i settori produttivi hanno risentito della crisi economica allo stesso modo. L'industria, che già da anni ha visto diminuire il suo peso rispetto ai servizi, ha pagato il tributo più pesate. La transizione da un sistema economico prettamente industriale ad uno fondato sui servizi è visibile da tempo: alla fine degli anni '70 il comparto industriale occupava nella nostra regione circa il 44% dei lavoratori, valore diminuito costantemente, soprattutto dopo il 2000, fino a raggiungere il 37% nel 2011. Parallelamente l'ambito dei servizi ha guadagnato sempre più importanza: nel 1980, 43 occupati su 100 lavoravano in questo comparto, nel 2011 se ne contano quasi 60.
La crisi è quindi intervenuta in una situazione già precaria per l'industria: dal 2008 al 2010 le attività manifatturiere hanno perso nel complesso l'11% degli occupati, anche se con situazioni molto diverse. Industrie tessili, alimentari, conciarie e altre industrie manifatturiere, come la fabbricazione di mobili e la gioielleria, in Veneto hanno dovuto rinunciare a più del 20% dei lavoratori. Viceversa, l'industria chimica e il comparto del legno hanno visto aumentare significativamente i propri occupati (+19% la chimica, +15% il legno).
Nell'ambito dei servizi, solo le attività finanziarie e il settore degli alberghi e ristoranti hanno risentito della crisi, mentre il commercio ha visto aumentare gli occupati del 5% e le attività dei servizi pubblici, sociali e personali (smaltimento dei rifiuti, attività di organizzazioni associative e ricreative, servizi alle famiglie...) del 12%.
Un ulteriore indicatore per valutare i settori più colpiti è il numero di ore di cassa integrazione autorizzate. Nel 2010, su circa 124.500.000 ore concesse in Veneto, il 22% è stato assegnato al settore della metallurgia e il 20% a quello della meccanica; significativo anche il 13% delle industrie tessili. Questi tre comparti, assieme al conciario, hanno registrato anche il rapporto più elevato fra numero di ore concesse e occupati: per ogni lavoratore sono state autorizzate dalle 250 alle 340 ore di cig. Anche in Italia i settori tessile, meccanico e metallurgico assorbono la quota maggiore di cassa integrazione, ma il rapporto più alto fra cig e occupati si conta nelle industrie alimentari, nella fabbricazione di coke e di mezzi di trasporto.
In seguito a queste trasformazioni, il mercato del lavoro veneto sembra aver perso parte della capacità attrattiva nei confronti degli stranieri. Il numero di occupati di cittadinanza non italiana è cresciuto rapidamente nell'ultimo decennio, segnando un aumento del 14% fra il 2006 e il 2007 e del 18% fra il 2007 e il 2008. Negli anni successivi la crisi, la quota di stranieri ha mantenuto un trend crescente, ma con variazioni più deboli. Inoltre, il tasso di occupazione degli stranieri, superiore a quello degli italiani fino al 2009, è diminuito sensibilmente fino a raggiungere nel 2010 il valore di 62,4%.

Figura 3.1.1

Tasso di disoccupazione (*) delle regioni europee. Anni 2001 (*), 2008 e 2010

Figura 3.1.2

Tasso di disoccupazione e di occupazione (*).  Veneto e Italia - Anni 2000:2011
 
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3.2 - Più opportunità a giovani e donne per il rilancio dell'economia

Per superare la crisi e garantire piena occupazione, è necessario sostenere tutta la popolazione, soprattutto le categorie che più facilmente rischiano di rimanere escluse dal mercato del lavoro. Aumentare la partecipazione al lavoro per le donne e i giovani è un passaggio obbligato per raggiungere gli obiettivi di competitività e crescita e le riforme in atto si stanno muovendo in questa direzione. Il decreto "salva-Italia" ha previsto l'istituzione di un Fondo per giovani e donne, al fine di incrementare la loro occupazione e stabilire un maggiore riequilibrio di opportunità tra le varie fasce della popolazione, attraverso la creazione di nuove possibilità di accesso nel mondo del lavoro, a condizioni meno svantaggiate di coloro che già sono stabilmente occupati e minori rigidità a tutela di pochi.
Giovani e lavoro: sopravvivere ai cambiamenti
In Italia i giovani si trovano oggi ad affrontare sfide e problematiche nuove rispetto ai loro coetanei delle generazioni passate, in una società sempre più competitiva che si confronta con gli altri Paesi europei.
Nel 2010 gli italiani tra i 15 e i 34 anni rappresentano il 22% della popolazione, quota in calo rispetto a dieci anni prima e anche in Veneto, dove sono poco più di un milione, si assiste a questo lento processo di "de-giovanimento", o "invecchiamento dal basso" della popolazione, conseguenza della bassa natalità e di una sempre maggiore longevità.
Investono sempre più nell'istruzione anche se rimane significativo il gap con gli altri paesi europei: la percentuale di laureati tra i 30 e 34 anni sale al 18,6% in Veneto e al 19,8% in Italia, in crescita anche nell'ultimo quinquennio, ma comunque ancora al di sotto della media europea (UE27 33,6%). Tuttavia il sistema formativo, che dovrebbe essere uno dei principali strumenti di promozione sociale, in Italia, più che altrove in Europa, non riesce ancora a colmare pienamente le disuguaglianze dell'origine sociale. E' indubbio che ci sia stato un innalzamento generale del livello di istruzione, ma il percorso verso una maggiore uguaglianza delle opportunità è stato solo parziale e rimane ancora forte il condizionamento dello status socio-culturale della famiglia di origine sulla scelta del tipo di studi già dalle scuole medie superiori, sulla probabilità di accedere all'università, specie ad alcune facoltà, nonché sul successo scolastico e sui successivi esiti occupazionali.
I percorsi di studio più lunghi rispetto ai coetanei europei, gli alti costi delle case e degli affitti, nonché le più difficili condizioni del mercato del lavoro, meno flessibile e remunerativo, di certo non aiutano i nostri giovani a realizzare i propri progetti di vita autonoma e indipendente. Si rimane a lungo in famiglia, ci si sposa più tardi e anche l'età in cui si diventa genitori è tra le più alte in Europa. Se nei Paesi del Nord Europa il distacco dalla famiglia di origine avviene presto, in genere entro i 25 anni e addirittura poco dopo il raggiungimento della maggiore età nei Paesi scandinavi, in Italia vi è la tendenza a restare con i genitori fin oltre i 30 anni: nel 2011 il 59% dei 18-34enni vive ancora come figlio nella famiglia di origine e in Veneto, la percentuale è solo di poco inferiore, 57,8%. Influisce sicuramente anche un fattore culturale, perché in Italia il legame con la famiglia è particolarmente forte e si mantiene a lungo intenso, tuttavia ciò va letto congiuntamente alla specificità dei regimi di welfare, assai poco generoso nei confronti dei giovani, e della famiglia in generale.
La crisi certamente ostacola i giovani nella decisione di lasciare il nido: anche tra quelli che hanno intenzione di farlo, molti sono frenati proprio dalle difficoltà economiche. Ad esempio, il 44% dei veneti di 18-34 anni che vivono ancora con mamma e papà dichiara di non poter uscire di casa perché non trova un lavoro o perché non può permettersi le spese per l'affitto o l'acquisto della casa.
Il problema abitativo è particolarmente sentito dalla fascia più giovane della popolazione e, come evidenziato dalle ricerche del CNEL (Nota 1) sulle condizioni abitative dei giovani, le principali cause di disagio riguardano i costi insostenibili e l'assenza delle istituzioni, che sottovalutano il problema della questione abitativa tra gli under35; inoltre la difficoltà abitativa può limitare la mobilità territoriale di chi vuole perseguire opportunità di studio o di lavoro, traducendosi a volte in una rigidità del mercato del lavoro.
Accedere a una casa e sostenerne le relative spese diventa sempre più difficile, come espresso dall'indice sintetico di sostenibilità economica, che tiene conto dell'entità dei costi per la casa, di quanto incidono sul reddito e se alla famiglia rimangono risorse sufficienti da destinare ad altri consumi e per mantenere uno standard di vita accettabile. Si tratta di un indicatore compreso tra 0 e 100, dove 0 rappresenta la condizione peggiore e 100 la situazione più favorevole, cioè la massima sostenibilità. Se per la generalità delle famiglie venete l'indice, pari a 73 punti su 100, mostra un livello di sostenibilità economica dell'abitazione accettabile, per i giovani che vivono soli ne mette in evidenza invece la sofferenza, attestandosi su un valore di 43,5, in calo di quasi 10 punti rispetto a qualche anno prima.
Ciò nonostante i giovani si esprimono in genere positivamente e sono mediamente contenti della loro vita nel complesso, esprimendo un punteggio di circa 7 e mezzo su 10, in una scala che va da 0 a 10, dove 10 rappresenta la massima soddisfazione: particolarmente appagati dall'intensità delle relazioni, con familiari e amici (rispettivamente il 92% e il 90% dei giovani 15-34enni veneti), soddisfatti di ciò che riescono a fare nel proprio tempo libero, manifestano invece minore soddisfazione per la propria condizione economica (50%), soprattutto i giovani di età 25-34 anni e specie nell'ultimo periodo, e per la qualità del proprio lavoro (79%). (Tabella 3.2.1)

Lavorare: scusate, possiamo entrare?

Sono dunque i giovani a soffrire di più della crisi. Il tasso di disoccupazione ufficiale, ossia quello calcolato sulla fascia d'età 15-24 anni, mostra un trend decisamente negativo. In Veneto, si è mantenuto al di sopra del 13% per tutti gli anni '90 per poi diminuire fino a raggiungere valori minimi nel 2002 e nel 2007 (rispettivamente 8,3% e 8,4%). La crisi ha poi sortito i suoi effetti: nel giro di pochi anni, la disoccupazione è cresciuta di oltre 11 punti percentuali e il numero di giovani veneti che cercano lavoro senza riuscire a trovarlo ha raggiunto nel 2011 le 30 mila unità; in Italia, la disoccupazione raggiunge livelli ancora più elevati segnando il 29,1% fra le forze lavoro, con picchi del 42-44% in alcune regioni del Sud come la Campania, la Sicilia e la Sardegna.
Nella classe d'età successiva, fra i 25 e i 34 anni, la condizione giovanile migliora significativamente: pur non raggiungendo i valori del resto della popolazione, il tasso di disoccupazione scende nel 2011 al 6,8% in Veneto e all'11,7% in Italia. Sono dunque gli under 25 a dover sopportare i maggiori effetti della crisi e le difficoltà le riscontrano proprio al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro: più della metà dei disoccupati, infatti, sono in cerca di prima occupazione.
Destano, poi, particolare preoccupazione i giovani che rimangono disoccupati per lunghi periodi di tempo: per circa 10 mila ragazzi, il 6,4% delle forze lavoro, lo status di disoccupato perdura per 12 mesi o più. La disoccupazione di lunga durata genera effetti molto negativi, soprattutto per i più giovani: da un lato, infatti, può portare a fenomeni di scoraggiamento, che si traducono poi in una totale rinuncia di ricerca di occupazione; dall'altro, un periodo prolungato al di fuori dal mercato del lavoro proprio agli inizi della carriera impedisce la crescita professionale, lo sviluppo di nuove esperienze e l'utilizzo delle conoscenze acquisite durante il periodo di studi. È dunque un circolo vizioso: più si rimane al di fuori del mercato, più difficoltà si incontrano nel cercare di rientrarvi. (Figura 3.2.1)
Ancora più preoccupante la situazione di quei giovani che non lavorano, non studiano e non si formano, ossia i NEET, acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training. Dal 2007 al 2010 in Veneto sono passati da circa 35 mila a più di 65 mila, in termini percentuali dal 7,9% al 14,4% dei giovani in età 15-24 anni. In Italia la situazione è ancora più critica e, nell'ultimo anno per cui si hanno a disposizione i dati, superano il 19%. Si tratta soprattutto di giovani inattivi che non cercano attivamente lavoro, ma l'incremento nel tempo è legato piuttosto all'aumento dei disoccupati: nel 2007, anno in cui la quota di NEET ha registrato il valore più basso, in Veneto su 100 giovani in condizione di NEET, 32 erano disoccupati e 68 inattivi, nel 2010 si contano 42 disoccupati e 58 inattivi. In particolare è cresciuto il peso dei giovani in cerca di prima occupazione, passati da 5 a 15 mila, e quello degli ex occupati, ossia i giovani che hanno perso il lavoro e che sono alla ricerca di una nuova occupazione. (Tabella 3.2.2)

I primi passi nel mercato del lavoro

Queste prime analisi hanno evidenziato come la crisi abbia peggiorato la situazione giovanile, aumentando soprattutto gli ostacoli e le barriere di accesso al mercato del lavoro. Ma all'uscita del sistema scolastico, quali sono gli strumenti a disposizioni dei giovani? Che difficoltà incontrano nel loro primo inserimento lavorativo?
Il 54% dei giovani veneti in età 15-34 che hanno concluso il percorso formativo si affaccia al mercato del lavoro con un diploma di scuola superiore, mentre il 14% con una laurea o un titolo superiore. Il rimanente 32% non ha raggiunto neanche il diploma e si appresta ad affrontare le prime esperienze lavorative con la sola licenza media. Fra questi ragazzi con basso titolo di studio, una quota significativa (29%) aveva iniziato a frequentare una scuola superiore, in seguito abbandonata a causa delle difficoltà incontrate negli studi. Se questi studenti non avessero lasciato gli studi, la quota di giovani con basso titolo di studio scenderebbe al 23%, mentre se i diplomati che hanno abbandonato un corso universitario avessero ottenuto la laurea, la quota di giovani con alto titolo di studio salirebbe al 19%. Si può quindi affermare che se ai giovani fossero dati più strumenti di sostegno durante il percorso scolastico, anche in termini di qualità e quantità di orientamento, il livello medio del capitale umano aumenterebbe velocemente.
Inoltre, l'85% dei 15-34enni usciti dal sistema scolastico ha avuto un'esperienza di lavoro superiore ai 3 mesi, valore che varia dal 79% dei giovani con basso titolo di studio all'88% di quelli con il diploma di scuola superiore. La laurea influenza i tempi di ingresso: il 55% dei laureati ha avuto la prima esperienza di lavoro significativa entro un anno dal conseguimento del titolo, mentre la stessa percentuale di giovani con titolo di studio basso l'ha trovato dopo un anno. (Tabella 3.2.3)
Su 100 giovani che attualmente lavorano, 29 sono alla prima esperienza lavorativa e 71 si trovano almeno alla seconda. Per questo secondo gruppo di persone è possibile confrontare il primo lavoro con quello attuale, per analizzare i cambiamenti intercorsi. Ne emerge così che il 61% dei 15-34enni, pur avendo cambiato lavoro, continuano a svolgere la medesima professione, mentre il 20% ha migliorato la propria posizione. In questo contesto, i laureati cambiano lavoro in percentuale maggiore rispetto agli altri, ma soprattutto hanno più possibilità di miglioramento: per il 25% dei laureati veneti, l'attuale lavoro è migliore del primo, situazione che si verifica solo per il 15% dei giovani con solo la licenza media. Va, comunque, sottolineato che i laureati devono guadagnarsi il miglioramento della propria posizione professionale: devono, infatti, attendere mediamente cinque anni dal conseguimento del titolo per avere più probabilità di avanzamento.
In Italia, si osserva una situazione diversa: i laureati nel 70% dei casi mantengono la stessa professione e la laurea ha più un effetto protettivo contro la possibilità di peggiorare la propria carriera.
Per quanto riguarda, invece, le differenze di genere, sono le donne che più spesso migliorano il proprio lavoro: in Veneto, il gap uomo-donna sulla quota di persone che hanno avuto avanzamenti di carriera è di 7 punti percentuali a favore delle donne. (Tabella 3.2.4)
Ma il cambiamento non si registra solamente in termini di aumentata professionalità, è necessario considerare anche la stabilità del posto di lavoro. Poco più della metà degli occupati ha iniziato il proprio percorso lavorativo con un tempo indeterminato e continua tuttora a mantenere tale tipologia contrattuale. Accanto a questa situazione considerata ottimale dalla maggior parte dei lavoratori, circa il 15% dei 15-34 enni è rimasto con un contratto a termine (tempi determinati, collaborazioni e prestazioni occasionali), mentre un ulteriore 14% è passato da un contratto a termine ad un tempo indeterminato.
L'analisi per titolo di studio segnala alcuni aspetti contrastanti. Da un lato, infatti, la percentuale di laureati che migliorano la propria stabilità lavorativa è superiore a quella dei giovani con titoli di studio inferiori, ma è superiore anche la quota di laureati che rimangono in condizioni di precariato e questo si verifica sia in Veneto che in Italia.
Come già visto per le posizioni professionali, anche per la stabilità del posto di lavoro i giovani devono attendere almeno cinque anni prima di vedere miglioramenti sostanziali: la percentuale di 15-34 enni che passano da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato è pari al 5% fra i giovani che hanno concluso gli studi da meno di tre anni, sale al 13% fra quanti sono usciti dal sistema scolastico da 3 a 5 anni, per raggiungere, poi, il 16% nel gruppo di quanti sono nel mercato del lavoro da più di cinque anni. Parallelamente la quota di giovani che rimangono in situazioni di precariato scende dal 44% per chi è uscito da poco dal sistema scolastico al 10% per chi è uscito da più di 5 anni. (Figura 3.2.2)
Le donne, tra casa e lavoro

Conciliare famiglia-lavoro, come fare?

La condizione della donna nella società italiana è ancora contraddittoria: se da un lato assistiamo al crescere del livello di scolarizzazione femminile, già superiore a quello maschile, dall'altro persistono segnali di ritardo e situazioni di disuguaglianza di genere.
La scarsa presenza femminile nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di rilievo, unitamente a un tasso di fecondità tra i più bassi in Europa, evidenziano come la mancanza di adeguati servizi finalizzati alla conciliazione dei compiti di gestione della famiglia con il lavoro e con gli stili di vita, ricade ancora oggi prevalentemente sulle donne.
Le donne residenti in Veneto nel 2010 sono oltre due milioni e mezzo e circa il 64% è la quota di quelle in età lavorativa. A loro si chiede di lavorare, senza rinunciare ai figli. Divise tra lavoro, casa, cura dei figli ed eventualmente anche dei familiari anziani o disabili, le donne lavoratrici faticano perché impegnate su più fronti e non di rado risentono della mancanza di un aiuto all'interno della famiglia, ma anche di un sostegno esterno da parte del sistema pubblico di welfare.
La politica italiana di sviluppo regionale (QSN 2007-2013 (Nota 2)) attribuisce un ruolo chiave al miglioramento dei servizi essenziali, ponendosi tra gli obiettivi proprio quello di aumentare la diffusione dei servizi di cura all'infanzia e per l'assistenza agli anziani nel proprio domicilio per alleggerire i carichi familiari ed innalzare quindi la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni del Sud dove il problema è più sentito. Anche se cresce la presenza nel territorio di servizi pubblici per la prima infanzia, come asili nido, micronidi e servizi integrativi, tanto che nel 2009 il 78% dei comuni in Veneto è dotato del servizio (57% in Italia), i bambini che riescono ad accedervi sono ancora pochi, il 12,5% dei bambini sotto i tre anni. E limitata è anche la quota di anziani trattati in assistenza domiciliare, neanche il 6% della popolazione di 65 anni e oltre, pertanto è la donna che in molti casi deve sostenere l'onere della cura dei figli e dei familiari anziani o disabili, prevedendo per il futuro una situazione di faticosa sostenibilità.
Infine, persiste una forte disuguaglianza di genere anche nella divisione dei carichi di lavoro all'interno della famiglia. Nel 2008-09, nelle coppie in cui la donna ha tra i 25 e i 44 anni, ovvero si trova nella fase di vita in cui in genere si lavora e si diventa mamme, il 71% degli impegni familiari grava sulle donne. Seppur in costante diminuzione negli ultimi anni, si tratta comunque di un disagio diffuso e trasversale a tutto il Paese anche se al Nord si mantiene su livelli più contenuti (69%). In Italia, anche per ragioni culturali, l'uomo è poco partecipe nelle attività domestiche: le lavoratrici italiane, infatti, dedicano alla casa (per cucinare, pulire, badare ai figli, ecc...) quasi 4 ore al giorno, molto più di quanto non facciano le donne negli altri Paesi europei.
In tale contesto, le politiche per la conciliazione si propongono di fornire strategie che possano rendere compatibili lavoro e famiglia, consentendo a ogni individuo di vivere al meglio i diversi ruoli che ricopre nella società.
La Regione Veneto già da tempo promuove politiche per la conciliazione, attraverso la realizzazione di diversi progetti e recentemente, prima in Italia, ha introdotto un nuovo strumento internazionale denominato "Audit", già diffuso in Germania e in Austria. Si tratta di una certificazione rilasciata alle aziende che collaborano nel valorizzare il capitale intangibile, cioè le risorse umane, favorendo l'accrescimento delle competenze professionali e delle possibilità di carriera, tenendo conto della specifica fase di vita familiare vissuta da ciascun lavoratore.
Un'attenta organizzazione delle risorse umane, nella definizione di turni, orari flessibili di lavoro, telelavoro, part-time e altre facilitazioni ai dipendenti e alle loro famiglie, garantisce da un lato una gestione aziendale più efficiente e produttiva, dall'altro una riduzione dello stress, delle malattie, dell'assenteismo, della qualità di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. (Tabella 3.2.5)

Figli e lavoro, una relazione in trasformazione

Migliori condizioni per le famiglie, maggiore attenzione ai bisogni dei minori e degli anziani e una più ampia offerta di servizi, sono tutti fattori atti a favorire il rinnovamento demografico, nonché un maggiore equilibrio tra vita e lavoro per le donne.
Fino agli anni '80, la relazione tra occupazione femminile e numero di figli era negativa, ovvero ad una fecondità alta corrispondeva una bassa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, viceversa nei paesi con un'alta proporzione di donne occupate, che sottraevano tempo e forze alla famiglia, la natalità era più bassa. In seguito, però, la relazione è cambiata: oggi sono i paesi a maggiore occupazione femminile ad avere generalmente anche un numero maggiore di figli e quelli con occupazione debole, come l'Italia, ad avere la riproduttività più bassa. Difatti, le trasformazioni degli ultimi decenni hanno spinto la donna nel mercato del lavoro per due ragioni principali: la prima è che il lavoro, e quindi l'autonomia economica che ne consegue, è un mezzo fondamentale di indipendenza e valorizzazione della donna, la seconda è che per vivere oggigiorno ad una famiglia non basta più un solo reddito, ma è necessario lavorare in due. In pratica, nei paesi in cui la conciliazione tra lavoro e vita privata è più complessa, i tassi occupazionali delle donne sono generalmente bassi e, allo stesso tempo, i tassi di natalità non sono alti poiché si ritiene di non potersi permettere di avere tanti figli. Le coppie decidono di mettere al mondo un figlio quando viene raggiunto un certo grado di sicurezza e di stabilità economica, quindi l'avere un lavoro è condizione necessaria per fare un figlio mentre non avere lavoro può essere una causa sufficiente per posporre o evitare una nascita.
Nei Paesi del Nord-Europa dove ci sono meno difficoltà a trovare lavoro e gli strumenti di conciliazione di famiglia e lavoro sono più avanzati, le donne scelgono di mettere al mondo un maggior numero di bambini, mantenendo tranquillamente la loro occupazione. E' il caso di Danimarca e Svezia che registrano sia i più alti tassi di occupazione femminili a livello europeo, nel 2010 superiori al 70%, che tra i più elevati tassi di fecondità (rispettivamente, nel 2009 un numero medio di figli per donna pari a 1,84 e 1,94). Bene anche la Francia che raggiunge l'obiettivo di Lisbona, censire il 60% delle donne occupate entro il 2010, con un numero medio di figli per donna pari a 2.
In Italia, invece, nonostante la crescita dagli anni novanta, la partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane bassa (46,1%) e in media una donna decide di avere 1,41 figli. In linea con i dati europei, nelle regioni del Nord-Italia a più elevati tassi di occupazione corrispondono più alti livelli di riproduttività, prime fra tutte Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Emilia Romagna con un'occupazione femminile intorno al 60% e tassi di fecondità superiori a 1,50. Viceversa, le regioni del Sud soffrono della difficile situazione lavorativa e conseguentemente, insicuri della loro stabilità economica, le coppie fanno meno figli. (Figura 3.2.3)
Il Veneto è una delle regioni con la più forte propensione a crescere figli, nel 2009 1,46, ma ancora molto c'è da fare per raggiungere i livelli desiderati di occupazione: nonostante la crescita della partecipazione femminile al lavoro, dal 1993 oltre 11 punti percentuali, il tasso è fermo nel 2011 al 54,8%. (Figura 3.2.4)
E' il caso, infine, di fare un appunto: alla ripresa della fecondità in Italia registrata negli ultimi anni, a cui hanno contribuito in prevalenza le regioni del Nord, ha pesato in parte anche la crescente presenza di persone straniere che mostrano una maggiore inclinazione ad avere figli.

La condizione occupazionale delle donne che vivono in coppia

Per approfondire quanto appena considerato, trattiamo la condizione occupazionale delle donne italiane che vivono in coppia in età 15-54 anni.
In Veneto quasi il 61% delle donne con un partner occupato lavora, contro il dato italiano pari al 50%, mentre le donne inattive che vivono del reddito del marito/compagno sono il 27,4% (32,4% in Italia). Ma le quote cambiano fortemente in presenza o meno di figli: sebbene nel confronto con il dato nazionale il Veneto evidenzi una situazione migliore, ben il 30% delle donne venete con figli rimane a casa mentre il marito lavora contro il 17% di quelle senza figli. Più alto è poi il titolo di istruzione più le donne sono inserite nel mercato lavorativo. (Tabella 3.2.6)
E quando lavorano, le donne hanno occupazioni migliori del proprio partner per quasi il 39% dei casi. Ciò nonostante la retribuzione rimane sempre più bassa: guadagnano di più del proprio uomo solo il 18,3% delle venete, quattro punti percentuali in meno anche del dato italiano, mentre il 66% guadagna meno, di cui molte donne portano a casa uno stipendio inferiore di oltre 400 euro al mese rispetto al loro compagno. Più alto è il titolo di studio più fortunatamente il gap si restringe, ma se la coppia ha dei figli, la donna guadagna meno del proprio partner in misura maggiore di quelle che non hanno figli. (Tabella 3.2.7)

Le difficoltà lavorative delle donne

Molte poi ancora le difficoltà incontrate dalle donne al lavoro.
Poca la flessibilità: oltre i due terzi delle donne venete occupate hanno un orario di entrata e di uscita dal lavoro stabilito in modo rigido e nessuna distinzione sia che si abbiano o non si abbiano figli. Se poi la donna ha un titolo di studio alto ha meno flessibilità rispetto al collega maschio con la stessa istruzione.
Un quarto delle donne non può variare neppure di un'ora l'entrata e l'uscita e oltre un terzo non ha la possibilità di assentarsi dal lavoro per una giornata senza chiedere ferie se ha problemi familiari.
Infine, ben il 55% delle donne con un figlio con meno di otto anni non ha preso la maternità facoltativa; in particolare, oltre il 14% perché trovava questo periodo poco o per niente retribuito e un altro 14,4% perché riteneva che avrebbe avuto effetti negativi sulla carriera o il datore di lavoro ha creato problemi o perché non c'era flessibilità nella scelta del periodo.

Tabella 3.2.1

I giovani: alcuni indicatori. Veneto e Italia - Anni 2000, 2005 e 2011 (*)

Figura 3.2.1

Tasso di disoccupazione (*) e disoccupazione di lunga durata (**) dei giovani in età 15-24 anni. Veneto e Italia - Anni 1993:2011

Tabella 3.2.2

Percentuale di 15-24enni NEET (*) sul totale dei giovani della stessa classe d'età e distribuzione percentuale di NEET per condizione professionale. Veneto e Italia - Anni 2005:2010

Tabella 3.2.3

Percentuale di 15-34enni per titolo di studio raggiunto (*), motivo abbandono studi, esperienza lavorativa e tempi di ingresso al lavoro. Veneto e Italia - II trimestre 2009

Tabella 3.2.4

Percentuale di 15-34enni occupati per cambiamento fra il primo lavoro e quello attuale, per titolo di studio (*) e sesso. Veneto e Italia - II trimestre 2009

Figura 3.2.2

Percentuale di 15-34enni occupati per cambiamenti contrattuali fra il primo lavoro e quello attuale. Veneto e Italia - II trimestre 2009

Tabella 3.2.5

Le donne tra lavoro e famiglia: alcuni indicatori. Veneto e Italia - Anni 2000, 2005 e 2010 (*)

Figura 3.2.3

Relazione tra numero medio di figli per donna (anno 2009) e tasso di occupazione femminile (anno 2010). Paesi europei e regioni italiane (*)

Figura 3.2.4

Tasso di occupazione 15-64 anni femminile (*) per regione. Differenza % 2011-1993 e 2008-1993

Tabella 3.2.6

Donne che vivono in coppia in età 15-54 anni con partner occupato, per condizione occupazionale, titolo di studio e presenza o meno di figli. Veneto e Italia - Anno 2010

Tabella 3.2.7

Donne in coppia che lavorano a tempo pieno per differenze di reddito con il proprio partner (*).  Anno 2010
 
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3.3 - Nuove opportunità con più anziani al lavoro

Per superare la crisi è necessario anche trattenere le persone meno giovani nel mercato occupazionale, dando loro l'opportunità di sfruttare l'esperienza acquisita nel corso del tempo, di migliorarla anche attraverso la formazione e di continuare ad essere una risorsa per la società.
I profondi mutamenti demografici degli ultimi decenni si ripercuotono inevitabilmente sul lavoro. La popolazione è cambiata non solo quantitativamente, vedendo aumentare il numero dei residenti, ma soprattutto se ne è modificata la struttura e le relazioni familiari e sociali.
L'Italia è uno dei Paesi più vecchi d'Europa, la quota di anziani è aumentata negli anni e le previsioni demografiche ne indicano un ulteriore incremento. In Veneto il numero di ultra 65enni è di oltre 982 mila unità, il 20% circa della popolazione, e da qui a vent'anni si prevede aumenteranno ancora (+45%) tanto da arrivare nel 2030 a oltre un quarto della popolazione.
Il progressivo invecchiamento della popolazione si deve soprattutto all'allungamento della vita media, risultato delle migliori condizioni di vita raggiunte e dei continui progressi della medicina: in Veneto le donne vivono in media fino a 85 anni, mentre gli uomini fino a 79,6, tuttavia nel tempo il gap tra generi va riducendosi progressivamente.
La speranza di vita per le donne è ancora maggiore, anche se dal 2000 al 2010 si osserva un maggior guadagno in anni di vita per gli uomini. Le differenze che si osservano tra uomini e donne si invertono quando si prende in considerazione la qualità degli anni vissuti: nel 2005, sebbene le donne abbiano una vita media di circa 6 anni più elevata degli uomini, hanno in media 8,5 anni in più da vivere non in buona salute (33,2 anni rispetto 24,7 degli uomini). (Tabella 3.3.1)
Lavorare più a lungo
Di conseguenza in Italia si registra un intreccio particolarmente complesso tra la situazione demografica e il mercato del lavoro. La combinazione di longevità in aumento e di minore fertilità porta a un peggioramento del rapporto di dipendenza: diminuisce la popolazione in età lavorativa e, conseguentemente, l'offerta di lavoro potenziale e la crescita economica, producendo tra l'altro effetti significativi anche sul piano sociale e sanitario del Paese.
L'invecchiamento della popolazione si preannuncia quindi come una delle principali sfide che l'Unione Europea si troverà ad affrontare nei prossimi anni, ancor più l'Italia con l'avvicinarsi all'età pensionabile della folta schiera dei figli del baby-boom. Se oggi si contano 30 anziani ogni 100 persone in età lavorativa, nel 2030 la quota potrebbe salire al 40%. E anche l'indice di ricambio della popolazione attiva, un indicatore demografico usato per misurare le opportunità occupazionali per i giovani derivanti dai posti di lavoro lasciati liberi da chi si accinge ad andare in pensione, suggerisce un'ulteriore criticità. Nel 2010 raggiunge in Veneto quota 139% (130,3% in Italia), vale a dire che le persone potenzialmente in uscita dal mercato del lavoro sono quasi il 40% in più di quelle in entrata, segnalando la difficoltà del Paese a mantenere costante la propria capacità lavorativa.
All'elevato tasso di invecchiamento della popolazione corrisponde, poi, una presenza della popolazione attiva nelle classi di età da lavoro più anziane modesta.
Si tratta di un fenomeno, però, non solo italiano: da tempo i governi europei sono impegnati a perseguire l'innalzamento della soglia di età di uscita dal lavoro e a realizzare un aumento significativo del tasso di occupazione degli anziani. A tale scopo, la strategia di Lisbona fissava entro il 2010 l'obiettivo del 50% per il tasso di occupazione della popolazione in età 55-64 anni. Nel 2010 questo obiettivo è stato raggiunto da nove stati europei su ventisette, primi fra i quali la Svezia (71%), la Germania e la Danimarca (58%) e il Regno Unito (57%). L'Italia si ferma a quota 36,6% e il Veneto al 35,4%. Tuttavia vale la pena evidenziare i grandi passi in avanti fatti da tutti gli stati europei, Italia compresa: il tasso di occupazione dell'UE27, è passato dal 37% del 2000 al 46% del 2010, l'Italia pur partendo da livelli più contenuti è riuscita a crescere di 9 punti percentuali (da 28% a 37%) e il Veneto di 10 (da 25% a 35%). E' una crescita che investe tanto gli uomini che le donne, ma i livelli femminili sono veramente molto bassi, soprattutto in Italia: si pensi che nel 2010 tra il dato veneto e quello medio europeo la distanza è di oltre quindici punti percentuali. (Figura 3.3.1)
L'emergenza dell'invecchiamento e della crisi degli ultimi anni evidenziano così la necessità di un'azione politica tesa a promuovere anche una gestione più prudente dei risparmi pensionistici, migliorando nel lungo termine la sostenibilità delle finanze pubbliche e garantire nel contempo l'adeguatezza delle prestazioni, l'ampliamento della popolazione attiva ed il prolungamento dell'attività lavorativa. Un passo avanti in tale senso è stato fatto con la recente riforma previdenziale del decreto Monti. In sintesi, il provvedimento legislativo mira ad aumentare l'età di pensionamento media nei prossimi decenni attraverso un irrigidimento delle condizioni di accesso per età/anzianità contributiva e tramite l'introduzione di vincoli sull'importo necessario affinché il diritto al pensionamento possa essere esercitato.
Per una maggiore comprensione delle politiche in atto, però, è opportuno conoscere anche il punto da cui partono l'Italia e le sue regioni, a tal fine sono stati analizzati i dati relativi alle pensioni e ai suoi beneficiari dell'ultimo decennio, nonché i cambiamenti avvenuti in questi anni.
Uscire dal mercato: le prestazioni pensionistiche

Pensione, quanto mi costi?

Nel 2009 in Veneto sono state erogate prestazioni pensionistiche per una spesa complessiva di circa 19.662 milioni di euro, che rappresentano il 7,8% della quota nazionale (253.609 milioni di euro).
Per poter valutare l'andamento della spesa nel tempo e confrontarne il peso all'interno delle regioni italiane è necessario considerare anche il Prodotto Interno Lordo. Risulta così che nel 2009 l'Italia ha impiegato il 16,7% del PIL per le pensioni (sia previdenziali, sia assistenziali), mentre il Veneto si è fermato al 13,9%. Una percentuale più bassa si registra solo in Trentino Alto Adige (12,6%): è sicuramente un risultato positivo, in quanto una parte superiore di ricchezza prodotta può essere destinata ad altri usi e servizi per i cittadini. All'estremo opposto troviamo, invece, la Liguria, dove per le pensioni è destinato il 21% del PIL, seguita da Puglia e Umbria.
Rispetto al 2008, la quota di spesa pensionistica sul PIL è aumentata in tutte le regioni italiane: in particolare, il Veneto registra una crescita superiore al punto percentuale, in linea con la media nazionale. Ciò è dovuto in parte all'incremento effettivo della spesa pensionistica, ma soprattutto alla contrazione del PIL.
Nel complesso, la quota di Prodotto Interno Lordo destinata alle pensioni è andata crescendo nel corso di tutto il decennio: sia in Italia che in Veneto il valore minimo è stato registrato nel 2000 (Italia 14,6%, Veneto 11,7%) per poi salire costantemente, soprattutto fra il 2008 e il 2009. (Figura 3.3.2)
In linea con l'anno precedente, nel 2009 sono state erogate in Veneto complessivamente 1,8 milioni di pensioni. Si tratta soprattutto di pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (Ivs) e in misura minore di pensioni assistenziali (invalidità civile, pensioni sociali e guerra). Residuale la quota di pensioni indennitarie, ossia le rendite per infortunio sul lavoro o per malattie professionali, che diminuiscono ulteriormente nel corso del 2009.
Sebbene il numero di pensioni sia rimasto invariato, l'importo complessivamente erogato è cresciuto di cinque punti percentuali rispetto al 2008. In Veneto è aumentata soprattutto la spesa per le pensioni di Ivs (+5,4%), mentre in Italia quella per le pensioni assistenziali.
Una prima indicazione sul carico del sistema pensionistico è data dal tasso di pensionamento, ossia il rapporto percentuale tra il numero di pensioni e la popolazione residente: in Veneto nel 2009 sono state erogate 36,8 pensioni ogni 100 persone, valore leggermente inferiore a quello registrato a livello nazionale (39,5). Nel corso degli ultimi anni, questo rapporto si è mantenuto abbastanza stabile, passando in Veneto da un valore minimo di 36,5 nel 2000 ad un massimo di 37,4 nel 2006.

In Veneto un sistema pensionistico sostenibile

Una stessa persona può ricevere anche più di una pensione, per cui risulta opportuno analizzare non solo le prestazioni pensionistiche, ma anche i singoli beneficiari. In Veneto nel 2009 hanno percepito una qualsiasi forma di pensione 1.293.133 persone; incrociando questo dato con il numero di pensioni complessivamente erogate, si ricava che in media un pensionato riceve 1,4 pensioni.
Per quanto riguarda, invece, gli importi dei redditi pensionistici, nel 2009 il 44% dei pensionati veneti percepisce meno di 1.000 euro al mese, mentre il 27% ne guadagna fra i 1.000 e 1.500. La situazione è comunque molto diversa fra uomini e donne: si deve innanzitutto rilevare che le donne rappresentano il 52% dei pensionati, ma percepiscono solamente il 42% dei redditi pensionistici. Inoltre, il 7% degli uomini percepisce meno di 500 euro al mese e il 21% più di 2.000, percentuali speculari a quelle delle donne, le quali nel 7% dei casi guadagnano più di 2.000 euro e il 13% meno di 500.
Nel tempo, i redditi pensionistici sono mediamente aumentati, anche se le differenze di genere anziché attenuarsi, si acuiscono. La quota di pensionati che guadagna più di 2.000 euro al mese dal 2001 al 2009 cresce di quasi 14 punti percentuali per gli uomini, mentre per le donne di soli 5. Anche nella fascia fra i 1.500 e i 2.000 euro aumentano le distanze: il vantaggio degli uomini sulle donne era di 8 punti nel 2001 e passa a 10 nel 2009. (Tabella 3.3.2)
Il numero di pensionati dipende strettamente dal numero di anziani residenti; di conseguenza per poter confrontare territori diversi è necessario eliminare l'effetto della diversa struttura demografica della popolazione, utilizzando il coefficiente di pensionamento standardizzato. Questo indicatore misura il numero di pensionati ogni 1.000 abitanti, applicando alle diverse popolazioni una stessa struttura demografica (Nota 3).
Nel 2009 in Veneto, ci sono 251 pensionati su 1.000 abitanti, in Italia 253. Nelle altre regioni italiane questo valore oscilla fra i 265 dell'Emilia Romagna e i 236 del Lazio. Buona quindi la condizione del Veneto che si colloca fra le regioni con un minor numero di pensionati, preceduta solamente da Campania, Sicilia e Lazio. Nell'ultimo decennio la situazione è comunque migliorata: in Italia si è passati da 277 pensionati su 1.000 abitanti a 253, in Veneto da 276 a 251. (Figura 3.3.3)
Il coefficiente di pensionamento standardizzato può essere applicato anche per analizzare il peso delle diverse tipologie pensionistiche. In Veneto nel 2009, su 1.000 persone residenti, 193 hanno beneficiato di una pensione di vecchiaia o di anzianità, 65 di pensioni indirette ai superstiti, 30 di invalidità civile, 13 hanno ottenuto forme di pensioni indennitarie e 12 assegni di invalidità previdenziale. Ancora una volta l'Italia si divide: da una parte le regioni del Sud con le quote più alte di pensioni di invalidità, dall'altra il Nord con per lo più persone che escono dal mercato lavorativo per vecchiaia.
Va comunque sottolineato che l'importo dell'assegno di invalidità è decisamente inferiore a quelle delle pensioni di vecchiaia, infatti, a fronte di una pensione media di vecchiaia di 1.256 euro mensili, si recepiscono 638 euro per un assegno di invalidità.
Negli anni le differenze si sono attenuate: solo per citare qualche esempio, in Basilicata la percentuale di pensioni di invalidità nel 2009 è pari a 49 per mille, il valore più alto fra tutte le regioni, ma nel 2004 aveva raggiunto il 74 per mille. In generale si può osservare una crescente uniformità fra le regioni: le pensioni di invalidità previdenziale diminuiscono in tutte le regioni, mentre le pensioni di vecchiaia diminuiscono nelle regioni del Nord e aumentano in quelle del Sud. (Figura 3.3.4)
Il carico del sistema pensionistico può essere osservato anche tramite il rapporto di dipendenza che misura il numero di pensionati per 100 occupati. Da un confronto regionale, emerge che il Veneto ha un impianto sicuramente più sostenibile di altri: 100 occupati devono, infatti, sostenere 61 pensionati contro i 71 del livello medio italiano. Una prestazione migliore si osserva solamente in Trentino Alto Adige, con 57 pensionati per 100 occupati, mentre le situazioni più critiche si registrano al Sud, dove l'indicatore supera spesso l'80% (Campania 87%, Molise 84%).
Il peso che gli occupati devono sostenere per alimentare il sistema pensionistico è comunque diminuito negli anni: in Veneto il rapporto di dipendenza è sceso dal 67% del 1997, al 65% del 2000, fino ad arrivare al 60% del 2008. Nell'ultimo anno però è tornato a salire di un punto percentuale in Veneto come in Italia, con punte di 3 punti e mezzo in Abruzzo e in Campania. Si tratta di variazioni dovute soprattutto all'andamento degli occupati cresciuti costantemente fino al 2008, per poi diminuire nel 2009 in seguito alla crisi economica. (Figura 3.3.5)

Pensioni e costo della vita

Circa l'80% delle pensioni sono erogate dall'Inps, accanto ad un 11% erogato dall'Inpdap e dal 4% dell'Inail. In questo paragrafo sono presentati i soli dati dell'Inps, i quali sono aggiornati con maggiore sistematicità, oltre a rappresentare la maggioranza delle pensioni erogate. E' stato così possibile ricostruire la serie storica delle pensioni e dei relativi importi medi dal 2001 al 2011.
Il numero di pensioni aumenta nell'arco di tutto il decennio, ma il tasso di crescita rallenta nel tempo: a livello italiano si segnala una variazione del 12% fra il 2001 e il 2002, valore che diminuisce rapidamente, fino a registrare una variazione quasi nulla fra il 2010 e il 2011. Nella nostra regione l'andamento è lo stesso, con una variazione nell'ultimo anno leggermente positiva (+0,4%).
Anche l'importo medio delle pensioni aumenta nel tempo: in Veneto, la pensione media si arricchisce di circa 210 euro, passando dai 560 del 2001, ai 770 del 2011. Le sole pensioni di vecchiaia e anzianità crescono di 300 euro e nel 2011 raggiungono quasi i mille.
Risulta comunque interessante studiare queste variazioni in relazione al costo della vita. A partire dal 2001, gli importi medi delle pensioni aumentano più velocemente dei prezzi, con un conseguente innalzamento del potere medio d'acquisto dei pensionati, fenomeno evidente sia a livello nazionale, che veneto: nella nostra regione, in un decennio i prezzi sono cresciuti del 22%, mentre le pensioni del 38% (45% le pensioni di vecchiaia). Osservando, poi, le variazioni annuali, emerge chiaramente il legame tra le pensioni e i prezzi: ai picchi di inflazione, l'anno successivo corrisponde un incremento più sostenuto delle pensioni; in particolare si osservino i cambiamenti intercorsi fra il 2008 e il 2009: nel 2008 l'inflazione ha segnato una crescita record di 3,3 punti percentuali, a cui è seguito nel 2009 un deciso rialzo degli importi medi delle pensioni. Andamenti simili si riscontrano nel 2006 e nel 2010. La stessa relazione non si nota, invece, per quanto riguarda le retribuzioni medie, che seguono evoluzioni molto diverse dall'inflazione, a scapito dei lavoratori: nell'ultimo anno gli stipendi sono infatti cresciuti meno dei prezzi, con una perdita di potere d'acquisto per le persone all'interno del mercato del lavoro.
Considerando ancora le variazioni intercorse nell'ultimo decennio, in Veneto i segnali sono positivi; pur rimanendo gli importi medi delle pensioni di vecchiaia e di anzianità costantemente al di sotto del livello medio italiano, nel tempo lo scarto diminuisce: si è assiste, infatti, ad un aumento più sostenuto delle pensioni, affiancato da una minore accelerazione dei prezzi.
Inoltre, il Veneto si distingue per una migliore redistribuzione dei redditi da pensione: mediante il coefficiente di Gini (Nota 4), l'Inps ha calcolato le disuguaglianze presenti nelle singole realtà territoriali; il Veneto si colloca al quarto posto fra le regioni dove le disparità reddituali sono meno forti, preceduta soltanto da Emilia Romagna, Umbria e Piemonte. I valori più alti di disuguaglianza si riscontrano nel Lazio.
Oltre al numero di pensioni e agli importi medi, nell'ultimo decennio si è modificata anche la struttura per età dei percettori di prestazioni pensionistiche: fra chi riceve una pensione di vecchiaia in Veneto, l'età media cresce di circa due anni e mezzo per gli uomini (da 68,6 anni del 2001 a 71,3 del 2011) e di circa due anni per le donne (71,7 a 73,7), a fronte di un aumento della speranza di vita 2,3 anni per i primi e di 1,4 per le seconde. (Figura 3.3.6)

Tabella 3.3.1

L'invecchiamento della popolazione: alcuni indicatori. Veneto e Italia - Anni 2000, 2005, 2010 e previsioni 2030

Figura 3.3.1

Tasso di occupazione della popolazione in età 55-64 (*) anni per genere. Veneto, Italia e UE27 - Anni 1997:2010

Figura 3.3.2

Spesa pensionistica in rapporto al PIL per regione - Anni 2008 e 2009

Tabella 3.3.2

Pensionati per importo mensile della pensione e sesso. Veneto - Anni 2001:2009

Figura 3.3.3

Numero di pensionati per 1.000 abitanti (coefficiente di pensionamento standardizzato) per regione - Anni 2001 e 2009

Figura 3.3.4

Numero di pensionati per 1.000 abitanti per tipologia di pensione e regione (coefficiente di pensionamento standardizzato) - Anno 2009

Figura 3.3.5

Rapporto di dipendenza: numero di pensionati per 100 occupati per regione - Anni 1997 e 2009

Figura 3.3.6

Variazione percentuale dei numeri indice degli importi delle pensioni di vecchiaia, dei prezzi e delle retribuzioni (Base 2001=100). Veneto e Italia - Anni 2001:2011