U.O. Sistema Statistico Regionale U.O. Sistema Statistico Regionale
Capitolo 6

Uguaglianza nelle opportunità

Interrogarsi sull'uguaglianza significa innanzitutto interrogarsi su quali aspetti devono essere resi uguali, nella consapevolezza che gli esseri umani sono profondamente diversi, per caratteristiche personali, esperienze e preferenze. La sociologia distingue "uguaglianza" da "uguale", ovvero disuguaglianza sociale da differenza sociale: mentre il termine "differenza" coglie gli aspetti soggettivi ineliminabili e costituisce una ricchezza di fondo delle relazioni e degli aggregati umani, la disuguaglianza denota piuttosto un ingiusto squilibrio nella distribuzione di privilegi, risorse e compensi, pregiudizievole per le potenzialità degli individui nella collettività. Stabilire quale sia il modo più giusto e meno squilibrato di distribuire risorse e compensi, a fronte delle diversità soggettive e umane, è da sempre compito della politica e dibattito nella filosofia. Un dibattito sempre rinnovato, che continua oggigiorno e che ha ripercussioni sulla misurazione stessa della disuguaglianza sociale. L'economista Amartya Sen, Premio Nobel per l'economia nel 1998, ad esempio, ha analizzato come sia proprio la diversità umana a far sì che l'uguaglianza in una sfera possa coesistere con una sostanziale disuguaglianza in altre sfere: così, una persona sana e una malata, un individuo libero e uno sottoposto a restrizioni delle libertà, pur godendo di redditi uguali, non hanno la stessa opportunità di realizzazione personale, la stessa possibilità di fare ciò che ritengono importante. Quindi per poter parlare di uguaglianza, e poterne misurare la portata sociale, Sen invita a chiedersi "uguaglianza di che cosa?".
In generale, in presenza di adeguate occasioni sociali, i singoli individui possono sia plasmare il proprio destino sia aiutare la collettività; è per questo che, per Sen, l'uguaglianza ha a che fare con le "capacità" (capabilities) e i "funzionamenti" (functioning). Funzionamenti come "stati di essere e fare" che hanno motivo di essere scelti dall'individuo per star bene, in sostanza il tipo di persona che siamo o che vorremmo essere: ad esempio, l'essere adeguatamente nutrito, in buona salute, avere una buona istruzione e un lavoro appropriato, vivere in una comunità pacifica, essere felici e avere rispetto di se stessi. Capacità di fare e di essere, libertà di poter scegliere un funzionamento rispetto ad altri, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: "nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene (Nota 1)".
Il grado di uguaglianza di una determinata società storica, quindi, dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di "capacità" di perseguire fini e obiettivi desiderati, ossia un'adeguata qualità della vita. L'importante è far sì che tutti possano avere la possibilità di ottenere una realizzazione completa di sè, vale a dire che è necessario assicurare l'uguaglianza nelle opportunità.
Se la disuguaglianza nei redditi non è necessariamente un fattore negativo quando è giustificata dal merito, la povertà, quale riflesso inaccettabile di una distribuzione disomogenea della ricchezza, è senz'altro una limitazione importante dell'uguaglianza nelle opportunità. Accedere ai livelli più elevati degli studi, a cure appropriate e tempestive, disporre di una casa confortevole, poter partecipare a una vita sociale ricca e appagante, ma anche sentirsi capaci di affrontare i semplici bisogni quotidiani sono precondizioni all'inclusione sociale che ai poveri spesso sono negate. La povertà, dunque, intesa come deprivazione in termini di capabilities.
In un particolare momento di crisi come quello che stiamo vivendo, povertà e disuguaglianza rappresentano preoccupazioni crescenti per i cittadini, anche tra i Paesi più avanzati. Secondo un'indagine di Eurobarometro condotta nel dicembre 2011 (Nota 2), ovvero nel pieno della recessione che ha travolto tutta Europa, la maggioranza dei cittadini ritiene la povertà un fenomeno diffuso e in crescita. In Italia, così come in molti Paesi, la percezione comune è che interessi ormai oltre il 20% dell'intera popolazione e che nel giro degli ultimi 12 mesi sia significativamente aumentata. In particolare, rispetto all'anno prima, l'81% (UE27 63%) percepisce un incremento della povertà nella zona in cui vive, l'89% (80% nell'UE27) se pensa alla situazione del Paese nel complesso e il 65% (UE27 67%) se riferita a tutta l'area europea.
Italiani, assieme a greci, francesi, portoghesi e spagnoli, si dimostrano particolarmente preoccupati per l'avanzare della povertà, influenzati probabilmente anche dalla situazione critica vissuta dai loro Paesi nel 2011. In Italia, poi, più che altrove, l'apprensione è molto cresciuta rispetto agli anni precedenti.
Si ritiene che l'essere poveri comporti necessariamente una serie di rinunce e limitazioni, anche molto importanti. Riduce significativamente le opportunità di disporre di una sistemazione alloggiativa soddisfacente (secondo l'88% degli italiani e l'86% nell'UE27), di intraprendere un'attività economica in proprio (Italia 90%, UE27 85%), di accedere non solo ad alti livelli di istruzione (Italia 87%, UE27 80%) ma anche a una buona educazione scolastica di base (Italia 78%, UE27 60%). Può anche limitare le possibilità di ricevere cure mediche adeguate in caso di bisogno (Italia 73%, UE27 61%), di usufruire dei più elementari servizi bancari (Italia 83%, UE27 64%), di mantenere relazioni e far parte di una rete amicale o sociale (Italia 68%, UE27 55%).
Perché c'è la povertà? Quali sono le cause? Le risposte a queste domande rivelano interessanti differenze tra i Paesi europei, frutto anche di culture e orientamenti profondamente diversi. In alcuni Paesi, ad esempio nel Nord Europa, particolarmente attenti a garantire a tutti buone condizioni di vita, la povertà è percepita come effetto di un'ingiustizia sociale e in quanto tale è un problema di cui deve farsi carico la società intera, nella convinzione che il miglioramento delle condizioni dei poveri comporti necessariamente anche una migliore qualità di vita per la collettività. In altri Paesi, invece, è considerata ancora un problema individuale e il povero spesso viene lasciato solo nel compito, a volte assai arduo, di risollevarsi.
In Italia per la maggioranza la povertà è un'ingiustizia sociale (45%), ma c'è anche chi la attribuisce alla mancanza di impegno, volontà, iniziativa dell'individuo (9%), nonché a motivi di sfortuna (21%), e per un 15% è un effetto inevitabile del progresso. Comunque l'88% degli italiani (UE 89%) ritiene che la povertà sia un problema grave che richiede un intervento urgente dei governi; ma c'è anche chi è convinto che non ci sia alcun mezzo per combattere la povertà e che questa esisterà sempre, o che scomparirà automaticamente con la crescita economica (Italia 49%, UE27 34%). Tra i primi, i governi dovrebbero agire anche attraverso una migliore redistribuzione della ricchezza tra i cittadini, per colmare le disparità esistenti ritenute ancora eccessive (Italia 87%, UE27 85%), magari chiedendo a chi se lo può permettere di pagare più tasse (Italia 78%, UE27 79%) (Nota 3).
 
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6.1 - La disparità dei redditi

Se la povertà interessa una minima parte della collettività, i malesseri generati dalla diseguaglianza coinvolgono tutti, non solo i ceti più svantaggiati, ma anche quanti si collocano al vertice della scala sociale. La disuguaglianza condiziona l'equilibrio sociale, economico e politico di un Paese: soffoca la mobilità sociale, limita le opportunità di crescita dei meritevoli, ripercuotendosi sulle performance economiche e di sviluppo dell'intera società.
Vari studi dimostrano anche che nei Paesi ricchi e con minori diseguaglianze di reddito la popolazione gode di maggiori livelli di benessere fisico e psicologico e che una diminuzione della sperequazione dei redditi ridimensiona molti problemi sanitari e sociali, come obesità, disturbi psichici e criminalità. E' quindi nell'interesse generale contrarre la forbice sociale per puntare a un nuovo concetto di sviluppo, che ponga al centro dell'attenzione la qualità della vita nel suo complesso.
Il quadro internazionale...
A fianco degli straordinari processi di sviluppo economico, che hanno coinvolto i Paesi industrializzati nell'ultimo secolo e negli ultimi anni anche quelli in via di sviluppo, continuano a sussistere forme di ineguaglianza inaccettabili. Un recente studio dell'Ocse (Nota 4) propone un'analisi comparativa tra 34 Paesi sull'evoluzione della disuguaglianza dei redditi delle famiglie negli ultimi 30 anni, sulle possibili determinanti e sulle politiche di contrasto più efficaci.
L'indice di Gini, che è una misura sintetica di dispersione del reddito e che varia tra 0 e 1, dove 0 sta a indicare una condizione di perfetta equità e 1 di massima disuguaglianza, nel 2008 assume nell'area Ocse un valore medio di 0,314, sintesi tuttavia di situazioni molto diverse. Mantiene valori contenuti, sotto lo 0,25, solo in Slovenia, Danimarca e Norvegia, mentre evidenzia l'esistenza di notevoli disparità in Cile, Messico, Turchia, Stati Uniti, Israele, Portogallo e Regno Unito. L'Italia con un valore di 0,337 si posiziona nella seconda metà della graduatoria, vicino ai Paesi più diseguali, confermando livelli di disuguaglianza superiori alla media Ocse e a quasi tutti i Paesi europei. (Figura 6.1.1)
Nell'ultimo trentennio, dal 1980 al 2008, prima della recente crisi economica globale, si è assistito a un aumento generalizzato del livello di disuguaglianza, sia nei Paesi da sempre caratterizzati da forti disparità, sia in quelli solitamente più egualitari, come Germania e Paesi del Nord Europa. La disparità diminuisce significativamente (con un indice di Gini più basso di almeno il 5%) solo in Irlanda, Grecia, Estonia, Spagna, Turchia e Cile, rimane pressoché stabile in Slovenia, Slovacchia, Belgio, Ungheria, Francia e Polonia. In Italia si registra un andamento prima crescente e poi lievemente decrescente: l'indice di Gini è aumentato tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, passando da 0,309 a 0,348, per poi stabilizzarsi e ridursi lievemente nei quindici anni successivi, senza però compensare l'aumento del primo periodo.
La disuguaglianza è peggiorata soprattutto perché le famiglie ricche hanno beneficiato di redditi particolarmente alti e cresciuti in misura maggiore rispetto alle famiglie con redditi medio-bassi. Infatti nell'area Ocse il reddito delle famiglie nel complesso è aumentato in media dell'1,7% all'anno, ma l'incremento è stato maggiore per i più ricchi (+1,9%) e meno pronunciato per i più poveri (+1,3%). Questa distanza è anche maggiore per molti Paesi, compresi quelli del Nord Europa, notoriamente più egualitari. In Italia in questi 30 anni il reddito del 10% più povero della popolazione è rimasto pressoché costante (+0,2% all'anno), mentre il corrispondente 10% più ricco ha incrementato i propri redditi dell'1,1% all'anno. Ciò ha fatto sì che nel 2008 il segmento più ricco della popolazione concentrasse un reddito medio quasi dieci volte superiore a quello del 10% più povero, indicando un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà anni Ottanta. (Tabella 6.1.1)
Nell'indagare sulle possibili cause della cresciuta disuguaglianza l'Ocse prende in considerazione sia fattori che hanno influenzato il mercato del lavoro, come globalizzazione, progresso tecnico, cambiamenti nella struttura occupazionale, politiche e riforme normative, sia fattori demografico-sociali che hanno modificato significativamente la struttura familiare.
Se la globalizzazione è stata un fattore trainante di riforme strutturali che hanno avuto l'effetto di ampliare la base occupazionale includendo categorie anche a basso salario, come giovani, donne e stranieri, il progresso tecnologico ha provocato un aumento della domanda di lavoratori più qualificati; in entrambi i casi l'effetto sulle disuguaglianze è stato di allargare la forbice salariale e quindi indurre una maggiore disparità. Si stima che tali disparità di salario abbiano inciso per il 56% sull'aumento totale delle disuguaglianze che si è registrato tra il 1987 e il 2004, quando in Italia l'indice di Gini passa da 0,325 a 0,363, mentre la cresciuta occupazione femminile ha avuto un effetto deflativo del 21%. L'invecchiamento generale della popolazione e la frammentazione delle famiglie in nuclei sempre più ridotti, incapaci di sfruttare le economie di scala delle famiglie numerose, è un fattore che si stima abbia contribuito mediamente nei Paesi Ocse per l'11% dell'aumento totale della disuguaglianza, mentre in Italia è del tutto trascurabile. Non così invece per il fenomeno dell'"assortative mating", vale a dire la propensione a sposare persone della medesima condizione sociale, a unire i privilegi e a trasmetterli ai figli. Questa ridotta mobilità sociale si riflette inevitabilmente sulle disparità economiche delle famiglie e in Italia spiegherebbe il 35% dell'aumento della disuguaglianza dei redditi (11% in media nei Paesi Ocse). (Figura 6.1.2)
E in Italia negli ultimi anni
Rientrando nei confini nazionali, si fa riferimento ai dati provenienti dall'indagine sul reddito e le condizioni di vita del progetto europeo Eu-Silc (Nota 5), che, sebbene sia recente e quindi non consenta di estendere analisi anteriormente al 2003, offre informazioni con dettaglio regionale.
In caso di perfetta equidistribuzione dei redditi, in genere, si assume che il 20% delle famiglie più povere cumuli il 20% del reddito complessivo, il secondo 20% cumuli un altro 20% del reddito e così via, in sostanza ogni "quinto" di popolazione dovrebbe disporre di un quinto del reddito complessivo (Nota 6).
Riportando i quinti calcolati sulla popolazione reale in un grafico è possibile confrontare la situazione effettiva, tipicamente una curva, "curva di Lorenz", con la situazione ideale di perfetta equidistribuzione, rappresentata dalla retta bisettrice, e verificare il grado di scostamento tra le due: più la curva si allontana dalla bisettrice, maggiore è la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e viceversa.
Si vede così che in Italia nel 2009 il primo quinto della popolazione, cioè il 20% più povero, detiene solo l'8% del reddito totale e il 20% più ricco ha a disposizione il 37% del reddito complessivo. In Veneto la disuguaglianza è un po' meno pronunciata e, come a livello nazionale, in lieve miglioramento nel tempo: il primo quinto detiene il 10% del reddito complessivo (9,4% nel 2003), il secondo quinto il 15%, il terzo il 18%, il quarto il 23% e l'ultimo, vale a dire il 20% più ricco, concentra il 34% del reddito complessivo (36,2% nel 2003). In modo più sintetico, nel periodo considerato l'indice di Gini per il Veneto passa da 0,26 a 0,24, mantenendosi sempre al di sotto del valore nazionale (da 0,31 a 0,29), che risente in particolar modo dei più alti livelli di disparità presenti nelle regioni meridionali. Si precisa, tuttavia, che per la mancanza di dati disponibili, dall'analisi rimane al momento escluso l'eventuale impatto della crisi in corso. (Figura 6.1.3)
Esaminando con una lente di ingrandimento la composizione dei quinti di reddito secondo alcune caratteristiche delle famiglie, è possibile individuare tipologie familiari più in difficoltà di altre.
Rispetto alla distribuzione del reddito a livello nazionale (Nota 7), solo il 10,4% delle famiglie venete ricade nel quinto più basso, con un reddito familiare equivalente inferiore a 12.589 euro annui, mentre quasi il 50% si concentra nelle fasce media e media-alta, ossia con redditi tra 17.275 euro e 28.670 euro.
Dal confronto con queste percentuali, riferite alla totalità delle famiglie venete, emerge che le persone che vivono da sole e le famiglie numerose presentano distribuzioni più squilibrate, concentrate in misura maggiore delle altre nel quinto di reddito più basso. Sono invece le famiglie a due componenti a concentrarsi di più nel quinto più ricco (7 punti percentuali più della media).
La presenza di minori in famiglia contribuisce a squilibrare la distribuzione delle famiglie verso i quinti di reddito più bassi: tra le famiglie con due o più minori solo il 7% si colloca nella fascia massima di reddito, mentre tra quelle senza figli a carico la percentuale sale addirittura al 23,2% e si arriva al 50% se si considera anche la fascia dei redditi medio-alti (4° quinto, oltre i 21.958 euro di reddito familiare equivalente annuo).
Il numero dei percettori di reddito della famiglia è un fattore importante nel definire la collocazione delle famiglie nei quinti: sono fortemente squilibrate al ribasso le famiglie con un unico percettore (circa il 19% di queste famiglie si colloca nel primo quinto di reddito, quasi il doppio della media regionale di 10,4%), mentre le famiglie con almeno due percettori si concentrano per più del 24% dei casi nell'ultimo quinto di reddito, il doppio delle famiglie a un solo percettore. Ma è soprattutto la fonte di reddito, se da lavoro autonomo, dipendente o da pensione, a determinare le maggiori differenze. Più uniforme la distribuzione delle famiglie il cui reddito deriva da lavoro dipendente, vista la minore variabilità nelle retribuzioni, mentre il lavoro autonomo garantisce condizioni economiche migliori, tanto che quasi la metà di queste famiglie ricade nel quinto di reddito più alto. Chi vive di pensione o di altri trasferimenti pubblici si colloca nella fasce centrali di reddito, soprattutto medio-basse. (Tabella 6.1.2)

Figura 6.1.1

Disuguaglianza nella distribuzione dei redditi in alcuni Paesi Ocse: indice di Gini - Anni Ottanta e 2008 (*)

Tabella 6.1.1

Crescita del reddito familiare medio tra gli anni Ottanta e il 2008 e livello di disuguaglianza in alcuni Paesi Ocse (*)

Figura 6.1.2

Contributo percentuale all'aumento della disuguaglianza dei guadagni delle famiglie tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. Media Ocse e Italia (*)

Figura 6.1.3

Disuguaglianza nella distribuzione dei redditi delle famiglie. Veneto e Italia - Anni 2003 e 2009 (*)

Tabella 6.1.2

Distribuzione percentuale delle famiglie nei quinti di reddito equivalente inclusi i fitti imputati. Italia, ripartizioni geografiche e Veneto - Anno 2009 (*)
 
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6.2 - Europa 2020 contro le povertà

Il 2010 è stato l'anno europeo della "lotta alla povertà e all'esclusione sociale", tema che la Commissione europea ha deciso di mantenere tra le priorità delle politiche comunitarie e, nel rinnovare l'impulso alla lotta contro tutte le forme di povertà, la strategia Europa 2020 punta a ridurre di almeno 20 milioni il numero di persone a rischio di povertà o esclusione sociale entro il 2020.
I progressi nel raggiungimento dell'obiettivo è misurato da Eurostat tramite tre indicatori: il rischio di povertà, inteso come la quota di popolazione che dispone di un reddito inferiore alla soglia di povertà, l'indice di grave deprivazione materiale, che fa riferimento all'impossibilità di accedere a certi beni e servizi considerati comuni e ordinari o percepiti come necessari per gli standard della società in cui si vive, e la percentuale di persone che appartengono a famiglie con un'intensità di lavoro molto bassa o senza lavoro ("very low work intensity").
Dalla loro combinazione deriva un quarto indicatore di sintesi, utilizzato per il monitoraggio dell'obiettivo europeo, ottenuto come percentuale di persone che sperimentano almeno una delle tre condizioni individuate dai singoli indicatori (Nota 8).
Tale impostazione riflette la molteplicità di fattori alla base della povertà e dell'esclusione sociale, considerando varie dimensioni della qualità della vita e comprendendo, oltre la mancanza di reddito e di risorse materiali sufficienti a vivere dignitosamente, misurato dal rischio povertà, anche forme di esclusione non necessariamente legate al reddito, come l'incapacità di accedere a servizi di base o la precarietà lavorativa.
L'indice di deprivazione prende in esame 9 aspetti, tra cui: non potersi permettere un pasto a base di carne o proteine regolarmente, una vacanza di almeno una settimana fuori casa durante l'anno, di pagare le bollette, l'affitto o il mutuo, di riscaldare adeguatamente la propria casa, di affrontare spese impreviste e di avere certi beni durevoli, come telefono, televisore, lavatrice e automobile. Si considera in stato di deprivazione materiale chi vive in una famiglia che non può permettersi almeno tre tra i beni e servizi sopra descritti e si definisce grave la situazione in cui sono quattro o più le mancanze.
Si tratta quindi di una misura di tipo non monetario che si concentra sugli effetti, sulle condizioni finali di vita delle persone piuttosto che sulla potenziale soddisfazione di questi bisogni, ossia sulla mancanza di risorse per ottenere un certo benessere. Rispetto alle più tradizionali misure sulla povertà basate sul reddito, la nuova impostazione ha il merito di aggiungere importanti informazioni, perché la deprivazione materiale può essere intesa come l'output della povertà in termini monetari quando questa persiste nel tempo. Si pensi ad un malato che debba affrontare spese ingenti per cure mediche che sottrae all'acquisto di beni e servizi considerati essenziali, pur disponendo di un buon reddito: tale disagio non può essere colto dalla sola informazione sul suo reddito monetario.
I due tipi di misure, la povertà monetaria e la deprivazione materiale, esprimono concetti differenti, ma che si completano e che possono essere usati congiuntamente per analizzare differenti aspetti delle condizioni di vita degli individui e delle famiglie. Entrambi, tra l'altro, rispondono alla definizione di povertà adottata dal Consiglio dei Ministri dell'Unione europea nel 1985, in base alla quale sono da considerare povere le persone che dispongono di risorse "materiali, culturali e sociali" limitate, tanto da non poter garantire loro uno standard di vita accettabile.
L'indice "very low work intensity", infine, tiene conto di un'altra dimensione dell'esclusione sociale, quella del mercato del lavoro. Indipendentemente dal livello di reddito familiare e dalla grave deprivazione, esso esprime la percentuale di persone con meno di 60 anni che vive in famiglie dove gli adulti lavorano per meno del 20% del loro potenziale.
L'esclusione sociale in Europa
Considerando la definizione di Eurostat, nel 2010 nei 27 Stati dell'Unione europea si stimano quasi 116 milioni di persone a rischio povertà o esclusione sociale e tra queste 70 milioni vivono in uno dei 17 Paesi dell'area euro. Rappresentano il 23,5% della popolazione complessiva, una percentuale sostanzialmente stabile rispetto all'anno precedente, che nasconde tuttavia differenze significative tra gli Stati. Se Repubblica Ceca, Austria e Paesi del Nord registrano le percentuali più basse, inferiori al 18%, le situazioni più critiche si osservano in Lituania, Lettonia, Romania e Bulgaria, dove oltre un terzo della popolazione vive in condizione di disagio.
L'Italia si trova in una situazione intermedia con il 24,5% della popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, un valore analogo a quello del 2009; si tratta di quasi 15 milioni di persone, ossia il 13% di quelle nell'UE27. Valori d'incidenza prossimi a quelli italiani si rilevano nel Regno Unito (23,1%), in Spagna (25,3%) e Portogallo (25,5%), mentre in Francia (19,3%) e in Germania (19,7%) le difficoltà sono minori. (Figura 6.2.1)
Il 16,4% della popolazione europea risulta esposto al rischio di povertà, l'8,1% si trova in condizione di grave deprivazione materiale, mentre il 10% vive in una famiglia a bassa intensità di lavoro. Difficilmente tutte e tre le condizioni sono associate (1,5% della popolazione dell'UE27), né tutti coloro che sono a rischio povertà vivono in condizione di grave deprivazione materiale.
All'interno dell'Unione la percentuale di persone che vivono in stato di grave deprivazione varia in modo molto più ampio (dallo 0,5% del Lussemburgo al 35% della Bulgaria) rispetto al rischio di povertà (9% nella Repubblica Ceca, 21,3% in Lettonia) e i Paesi che sperimentano alti livelli di povertà economica non sono necessariamente gli stessi con alti tassi di deprivazione.
D'altra parte proprio per le considerazioni prima esposte, i due indicatori mettono in evidenza aspetti diversi del disagio. L'indicatore Eurostat sulla povertà, definendo a rischio di povertà chi vive in famiglie con reddito inferiore al 60% della mediana del reddito nazionale, è una misura di povertà relativa, che cioè tiene conto della distribuzione del reddito di ogni Paese e individua la condizione di povertà nello svantaggio di alcuni soggetti rispetto a tutti gli altri. Si basa, dunque, sul livello di disuguaglianza tra i redditi, con la conseguenza che un Paese mediamente ricco ma con forti squilibri nella distribuzione della ricchezza potrà avere un alto rischio di povertà, per l'elevato numero di persone con redditi lontani dalla media, magari anche più accentuato di quanto si verifica in un Paese complessivamente più povero ma con minori disparità.
La misura della deprivazione materiale, invece, coglie le difficoltà del vivere quotidiano attraverso la capacità della famiglia di accedere a determinati beni e servizi, e non dipende dalle caratteristiche della distribuzione del reddito. I beni e servizi considerati sono gli stessi per tutti i Paesi dell'Unione indipendentemente dai diversi livelli di vita raggiunti nei vari contesti sociali, pertanto la deprivazione può essere intesa come una misura di povertà assoluta. Così, ad esempio, la Spagna evidenzia un rischio di povertà (20,7%) superiore alla media europea, cui si associa però un tasso contenuto di grave deprivazione materiale (4%), segnale da un lato di una marcata disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, dall'altro che le condizioni di vita sono comunque accettabili per la gran parte della popolazione, anche per chi dispone di un reddito basso. Viceversa, in Ungheria e in Slovacchia, nonostante un tasso di povertà relativamente contenuto o comunque inferiore alla media europea, la gran parte della popolazione è costretta a rinunce e limitazioni.
I Paesi più vulnerabili, tanto da registrare le percentuali più alte di entrambi gli indicatori, sono Lettonia, Romania e Bulgaria. (Figura 6.2.2)
Meno rinunce in Veneto
In Italia l'analisi a livello regionale evidenzia il consueto quadro di disparità territoriale, con indicatori decisamente preoccupanti nelle regioni meridionali: in particolare, risultano a rischio di povertà o esclusione sociale 4 persone su 10 in Calabria e quasi la metà in Campania e in Sicilia.
Minore è invece il disagio in Veneto, a soffrirne il 15% della popolazione (16,3% delle famiglie), percentuale in lieve aumento rispetto all'anno precedente (14,1%); sebbene l'incidenza sia al di sotto della media nazionale (24,5%) e sia una delle più basse tra le regioni italiane, dopo Trentino Alto Adige, Emilia Romagna e Valle d'Aosta, si tratta comunque di 732 mila persone (oltre 331 mila famiglie) in difficoltà, che non vivono secondo gli standard comuni della società attuale e che, nei casi più gravi, non riescono a provvedere ai bisogni fondamentali della vita. (Figura 6.2.3)
Le famiglie più fragili
Ma chi sono le persone costrette a vivere un tale disagio? Finora l'esclusione sociale è stata analizzata in termini aggregati, ma alcune categorie sono indubbiamente più esposte di altre.
Si evidenzia un leggero svantaggio per le donne, mentre l'effetto dell'età in Veneto mette in luce un rischio maggiore per bambini e anziani, contrariamente a quanto si osserva a livello nazionale ed europeo, dove l'incidenza segue un profilo decrescente con l'età. La fascia centrale, corrispondente con l'età lavorativa, è invece la meno vulnerabile perché protetta da maggiori redditi da lavoro.
Più a rischio poi le persone che vivono sole, soprattutto se anziane, le famiglie con figli a carico, specialmente quelle numerose, con tre o più figli a carico, e chi ha un basso titolo di studio. L'investimento in istruzione rappresenta infatti un'efficace strategia di contrasto, tanto che la percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale si riduce significativamente con l'aumentare del titolo di studio.
Vivere in una zona altamente o mediamente urbanizzata non determina, in Veneto e in Italia, significative differenze nella diffusione dell'esclusione sociale, mentre peggiore è la condizione di chi risiede in contesti poco urbanizzati, più isolati e meno serviti.
Il rischio di povertà e di esclusione sociale si associa frequentemente anche alla deprivazione abitativa: le famiglie che vivono in situazioni di disagio abitativo, per mancanza di spazio o per la presenza di carenze strutturali di vario genere, in genere si trovano a dover affrontare anche altre difficoltà e limitazioni nel vivere quotidiano.
Nel confronto europeo emerge soprattutto il maggior svantaggio che colpisce le famiglie con figli a carico, specie se tre o più, e delle persone anziane che vivono da sole. Mediamente, inoltre, in Europa si avverte una minore disparità tra le diverse tipologie familiari, come evidenziato dalla più bassa variabilità dell'indicatore. (Tabella 6.2.1)

Figura 6.2.1

Percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale. UE27 - Anno 2010 (*)

Figura 6.2.2

Percentuale di persone a rischio di povertà e in condizione di grave deprivazione materiale. UE27 - Anno 2010 (*)

Figura 6.2.3

Percentuale di persone e di famiglie che vivono a rischio di povertà o esclusione sociale per regione. Italia - Anno 2010 (*)

Tabella 6.2.1

Percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale, per alcune caratteristiche. Veneto, Italia, UE15 e UE27 - Anno 2010 (*)
 
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6.3 - I sintomi del disagio

Un focus sui tre indicatori separati, rischio di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro, consente di distinguere le diverse situazioni di disagio, anche per meglio orientare le politiche di contrasto all'esclusione sociale. Nell'ambito della strategia di Europa 2020, infatti, ogni Stato può scegliere come intervenire, su quale forma di disagio concentrarsi per raggiungere il proprio obiettivo. In quest'ottica l'Italia intende contribuire con una riduzione di circa 2,2 milioni di persone a rischio povertà o esclusione sociale, segnalando di voler concentrare l'attenzione sulle persone in condizioni di deprivazione materiale e su quelle appartenenti a famiglie a bassa intensità di lavoro, su cui più forte è l'impatto della crisi (Nota 9).
L'Italia si discosta dalla media europea soprattutto per la maggiore presenza di persone a rischio povertà (il 18% della popolazione anziché il 16% dell'UE27), mentre in termini di deprivazione materiale (6,9%) la situazione è più favorevole se il confronto è esteso alla totalità dei 27 Paesi europei (8,1%), non così se limitato ai soli Stati dell'UE15 (5,2%). Non si osservano invece differenze significative nella quota di persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa, che si attesta sia per l'Italia che per l'Europa attorno al 10%.
Per il Veneto tutti gli indicatori evidenziano una situazione relativamente meno preoccupante rispetto al contesto italiano ed europeo, sia per diffusione che per gravità del disagio: se a livello nazionale il 27,3% delle persone a rischio povertà o esclusione sociale concentra almeno due delle tre condizioni di disagio considerate, tale percentuale scende al 21,5% per il Veneto. Il sintomo più diffuso è il rischio di povertà che in generale non si associa a nessuno degli altri due. Tuttavia, se tale confronto è positivo, non va trascurata la portata del fenomeno in termini di cittadini coinvolti: il rischio di povertà coinvolge il 10,5% dei residenti in Veneto, la grave deprivazione materiale il 3,9% e la bassa intensità lavorativa il 6% della popolazione under 60.
Come a livello nazionale, sia il rischio di povertà che il tasso di grave deprivazione materiale rimangono sostanzialmente stabili negli ultimi due anni, mentre è in aumento il numero di coloro che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (4% in Veneto e 8,8% in Italia nel 2009). (Figura 6.3.1)
I bisogni dell'uomo e la deprivazione materiale
La qualità della vita è un fenomeno complesso e multidimensionale, che riguarda diversi ambiti di benessere: si riferisce alla soddisfazione dei bisogni fisici ma anche di quelli socio-culturali; inoltre, in una società avanzata accanto alle esigenze di base, che garantiscono una vita dignitosa, acquistano valore anche bisogni di livello superiore. Proteggersi dalle intemperie, dalla fame e dalle malattie sono da sempre bisogni vitali per l'uomo, ma non solo, primario è anche non provare paura rispetto alla violenza fisica, psicologica, materiale, che può essere inferta o non sentirsi sopraffare dall'incertezza per il futuro, dalla preoccupazione di non riuscire a vivere almeno secondo livelli di vita minimi con una previdenza e un'assistenza adeguata. Inoltre, difendersi dall'affaticamento e dall'ignoranza sono altrettanto bisogni fondamentali, nonché diritti che vanno garantiti; non godere di tempo libero di qualità e di istruzione e formazione adeguate limita la libertà della persona e può innescare meccanismi di esclusione e isolamento.
Anche se l'indicatore Eurostat non considera per il momento tutte le dimensioni della vita, tralasciandone alcune molto importanti, come ad esempio l'istruzione, nello schema seguente si è cercato di ricondurre le 9 deprivazioni adottate da Eurostat alle aree dei bisogni della qualità di vita sopraccitati. Va notato che non sempre il rapporto tra tipo di necessità e voce dell'indice è 1 a 1. Ad esempio, poter pagare le bollette per le utenze domestiche, l'affitto e il mutuo riguardano in modo generico l'intera area dei bisogni fisici: è vero che per lo più si riferisce alla casa, quindi si può far rientrare nel bisogno di difendersi dalle intemperie, ma si può associare anche agli altri bisogni di sopravvivenza come difendersi dalla fame e difendersi dalle malattie. Se si pensa all'acqua, essa è alla base della nostra nutrizione ma è fondamentale anche per mantenere buone condizioni igieniche, evitando eventuali effetti negativi sullo stato di salute e sul benessere fisico della persona. Allo stesso modo riuscire a mantenere la casa adeguatamente calda non soddisfa solo il bisogno di difendersi dalle intemperie, ma anche quello di prevenire malattie. Mentre poter mangiare regolarmente cibi proteici oltre a riferirsi all'esigenza di sfamarsi consente di restare in buona salute.
All'interno di ciascuna area ci sono bisogni considerati primari perché legati alla sopravvivenza e bisogni di livello superiore, che possono anche essere diversi in base alla società in cui si vive e ai livelli di vita mediamente raggiunti. Ad esempio possedere certi beni durevoli, come lavatrice e lavastoviglie, non necessari alla sopravvivenza ma considerati ormai importanti e quasi indispensabili per il vivere quotidiano secondo certi standard riconosciuti come normali, può rientrare tra i bisogni di livello superiore.
Potersi permettere una vacanza di almeno una settimana in un anno aiuta a rigenerarsi e a liberarsi della fatica, mentre poter affrontare spese impreviste fa riferimento alla capacità di risparmiare, come garanzia e tranquillità per il futuro. (Figura 6.3.2)
Esplorando le singoli privazioni che costituiscono l'indicatore Eurostat, si osservano interessanti differenze, segnali di condizioni di vita meno favorevoli in alcune aree.
Possedere beni durevoli, come televisore, lavatrice, telefono e auto, è condizione ormai diffusa, anche se la macchina non è sempre scontata in tutti i Paesi dell'Unione. In generale, maggiori sono le difficoltà di natura economica: il 12,5% degli italiani accumula arretrati nel pagamento dell'affitto, della rata del mutuo o delle bollette, l'11% non riesce a scaldare adeguatamente la casa e il 7% non può permettersi regolarmente un pasto proteico. Passando ai bisogni di livello superiore, non strettamente necessari alla sopravvivenza ma comunque importanti per uno stile di vita accettabile, il 40% non è in grado di far fronte adeguatamente alla necessità di "difendersi dall'affaticamento", permettendosi di andare in vacanza almeno una settimana l'anno, e un terzo dichiara di non poter affrontare spese impreviste, trovandosi così anche nell'insicurezza di non riuscire ad assicurare un futuro certo ai propri figli. Al Sud, poi, si evidenzia un più accentuato disagio legato alla casa, per l'impossibilità di riuscire a riscaldare adeguatamente l'abitazione o essere in grado di sostenerne con tranquillità le spese, ma soprattutto la difficoltà di disporre di risorse aggiuntive rispetto a quelle necessarie per le spese ordinarie e quotidiane.
Per i veneti le rinunce sono minori, anche se alcune appaiono comunque diffuse e segnalano condizioni di vita sotto gli standard: il 5% è in difficoltà nel riscaldare la casa e nel fare un pasto regolare di carne o proteine, il 10% fatica a pagare con regolarità bollette e spese per la casa, il 27% pensa di non riuscire a far fronte a spese impreviste e il 32% non può andare in vacanza almeno una volta l'anno. (Tabella 6.3.1)
Inferiori in Europa i singoli livelli di deprivazione, fatta eccezione per le difficoltà nel provvedere a una alimentazione adeguata o affrontare spese impreviste, ma risulta maggiore la quota di chi cumula più tipi di disagio, tre o anche più. Ad esempio, nel nostro Paese la percentuale di persone in condizione di deprivazione materiale, ovvero costretta ad almeno tre privazione, è pari al 16%, contro un dato medio europeo di 17,5%. Tra chi sopporta i disagi maggiori il divario è di 6,9 contro 8,1.
A livello territoriale, oltre alla diffusione del problema, diversa è anche la sua intensità, come risulta dall'esame del numero medio di carenze sofferto dalle famiglie nelle varie regioni. In Sicilia, ad esempio, quasi un terzo della popolazione vive in stato di deprivazione materiale e il 16% presenta quattro o più carenze, ossia le situazioni più svantaggiate tra quelle già gravi. Nelle regioni del Nord quest'area di disagio maggiore si riduce notevolmente e nel Veneto interessa meno del 4% dei residenti. (Figura 6.3.3)
Quando si lavora poco
Il terzo indicatore che interviene a definire il rischio di povertà o esclusione sociale fa più strettamente riferimento al mercato del lavoro e si può considerare alla stregua di un misura di deprivazione non tanto materiale quanto lavorativa. In sostanza, si considera che chi vive in una famiglia in cui sono pochi a lavorare, o sono sottoccupati o senza lavoro, sia a rischio di esclusione sociale, nonostante un reddito al di sopra della soglia di povertà e l'assenza di deprivazione materiale. E' anche vero che la condizione di bassa intensità lavorativa è un disagio che in genere si associa agli altri e quindi va ad aggravare la condizione delle famiglie. Chi subisce un'esclusione intermittente dal mercato del lavoro, magari anche alternando periodi di occupazione ad altri di inattività, o ripiegando a orari ridotti, più spesso è soggetto a rischio di povertà o esclusione sociale. Eurostat ha evidenziato inoltre quanto questa relazione sia stringente e come all'aumentare dell'intensità lavorativa il rischio di povertà o esclusione sociale diminuisca in modo più che proporzionale (Nota 10). Ad esempio, pensando di distinguere 4 fasce di intensità lavorativa, dai "quasi-jobless" che lavorano per meno del 20% del potenziale fino ai "quasi jobfull" occupati per oltre il 75% del potenziale, in Italia risulta che nel 2010, il 59% delle persone che vivono in famiglie nella fascia più bassa di intensità di lavoro è anche a rischio di povertà o esclusione sociale, mentre tra chi lavora di più, ma comunque al di sotto del 50% del potenziale, tale rischio si abbatte portandosi al 34%. E tra i "quasi jobfull" il rischio diventa del 14,6%.
Il calcolo dell'indice familiare tiene conto degli individui in età lavorativa di cui vengono conteggiate le ore di lavoro complessive svolte nell'anno precedente confrontandole con il potenziale lavorativo familiare ovvero simulando che gli individui abbiano lavorato stabilmente a tempo pieno tutto l'anno (Nota 11).
In ambito europeo il 10% della popolazione con meno di 60 anni residente nell'UE27 nel 2010 vive in famiglie a bassa intensità lavorativa, avendo lavorato nell'anno precedente meno del loro potenziale. Il risultato è praticamente identico (10,6%) prendendo in considerazione l'UE15. Vi è una discreta variabilità tra i Paesi europei, registrandosi quote superiori al 20% in Irlanda, fino al 6% di Cipro, Lussemburgo e Svezia. L'Italia si colloca in linea con la media europea, con una percentuale pari al 10,2%, vicina alle quote di Spagna, Francia, Danimarca e Germania.
Con maggior addebito alla crisi economica che ha intaccato il mercato del lavoro, occorre evidenziare che la percentuale di persone in famiglie a bassa intensità di lavoro è cresciuta in un anno dell'11% in Europa e del 16% in Italia.
Come è facile immaginare, la situazione analizzata per regione rivela un'ampia variabilità: le regioni settentrionali vivono meno intensamente il problema, con quote inferiori anche di metà alla media nazionale, mentre le regioni meridionali confermano una maggiore coesistenza col fenomeno, con percentuali molto superiori alla media (17,4% in Calabria e 17,7% in Basilicata), riflesso senz'altro degli alti livelli di disoccupazione. Il già citato aumento dell'indicatore verificatosi nell'ultimo anno per l'Italia nel suo complesso si riverbera nei dati regionali: con l'eccezione di Sardegna e Sicilia, tutte le altre regioni hanno registrato una recrudescenza del fenomeno. Il Veneto, pur conservando una situazione meno preoccupante (6%), accusa nell'ultimo anno un aumento non trascurabile del problema, registrando una variazione del 50% rispetto all'indice di "very low work intensity" del 2009 (4%). (Figura 6.3.4)

Figura 6.3.1

Percentuale di persone a rischio di povertà, in condizione di grave deprivazione materiale e che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro. Veneto, Italia, UE15 e UE27 - Anno 2010 (*)

Figura 6.3.2

I bisogni fisici e socio-culturali e la deprivazione materiale

Tabella 6.3.1

Percentuale di persone per tipo di deprivazione. Veneto, Italia, ripartizioni e UE27 - Anno 2010

Figura 6.3.3

Percentuale di persone in condizione di deprivazione materiale per numero di privazioni e regione. Italia - Anno 2010 (*)

Figura 6.3.4

Percentuale di persone che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro per regione. Italia - Anni 2009 e 2010 (*)