L'ultimo decennio si è dimostrato poco sostenibile. Troppi squilibri ed instabilità hanno portato alla crisi finanziaria del 2008 e alla successiva recessione: la politica monetaria è stata molto rilassata e ha gonfiato i prezzi dei beni, in particolare del mercato immobiliare; la politica fiscale è stata squilibrata con problemi di deficit anche in anni economicamente "forti"; la posizione del debito estero degli Stati Uniti, rispecchiata da una corrispondente posizione di creditori esteri di molti paesi asiatici, è aumentata in modo drammatico. Il sistema finanziario mondiale era molto lontano dalla stabilità e ha aggravato la crisi che aveva scatenato. Il ciclo economico dell'ultimo decennio è stato definito una economia "bolla"
(Nota 2) e decisamente al di là della sostenibilità.
Per tutto il 2010 i paesi a economia matura si sono trovati di fronte ad una serie di dilemmi generati dalla volontà di dare impulso alla ripresa: le politiche fiscali avrebbero dovuto, da un lato, sostenere la ripresa economica e, dall'altro, avviare politiche di bilancio di riduzione dei disavanzi pubblici a medio e lungo periodo; le politiche monetarie avrebbero dovuto ripristinare condizioni di normalità sui mercati della liquidità e dei titoli pubblici e tassi d'interesse reale a breve almeno in prossimità dello zero, ma allo stesso tempo non rendere troppo oneroso il compito delle politiche di bilancio; infine i governi avrebbero dovuto garantire regole più appropriate per la gestione dei mercati finanziari, per la capitalizzazione dei sistemi bancari, per l'attività di sorveglianza e nello stesso tempo non creare ulteriori e nuovi ostacoli al finanziamento delle imprese.
Analizzando la situazione attuale, si osserva che l'economia reale sta reagendo, ma è evidente che alcune delle cause che hanno portato alla più netta recessione degli ultimi 80 anni non sono state ancora curate: la politica monetaria è ancora rilassata, i deficit pubblici sono ancora molto alti, il saldo della bilancia commerciale statunitense è ancora negativo, le regole del sistema finanziario globale sono praticamente quasi le stesse di prima della crisi. Ed infine i mercati hanno colto che il divario di produttività e competitività tra i paesi ad economia matura e quelli emergenti è profondo, così come la differenza tra Nord e Sud all'interno dell'Unione Europea è sostanziale.
A tutto ciò si è aggiunta nei primi mesi del 2011 la crisi del Nord Africa, che nel giro di poche settimane ha modificato le prospettive del ciclo economico per le possibili conseguenze dei prezzi del petrolio su crescita, inflazione e l'andamento atteso dei tassi d'interesse. Ma, al di là della mera quantificazione degli effetti macroeconomici, l'esplosione delle rivolte popolari dei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo ha riportato con forza al centro del dibattito internazionale la necessità di uno sviluppo sostenibile, legato al bisogno di libertà, democrazia, giustizia, equità nella distribuzione, in poche parole, rispettosa della qualità della vita.
L'economia internazionale
I dati del 2010 confermano la ripresa: il prodotto mondiale cresce del 5%, trascinato dalla ripresa dei flussi commerciali internazionali, +12,4%. Il recupero mostra due velocità: nelle economie avanzate la crescita resta contenuta e il tasso di disoccupazione è ancora alto, nelle economie emergenti invece l'attività è vivace.
(Figura 1.1.1) e
(Figura 1.1.2)
Se la dinamica positiva della produzione industriale è indice del rilancio complessivo dell'economia nel 2010, anche tra questi dati cogliamo il gap tra paesi emergenti ed economie mature. Lo stesso si può dire osservando la dinamica dei consumi e degli investimenti. Nel 2010 a livello globale la domanda evidenzia un ciclo relativamente robusto per i consumi, mentre il ciclo degli investimenti presenta ancora qualche esitazione. I consumi superano largamente i valori pre-crisi nell'aggregato dei paesi emergenti, e recuperano le perdite nei paesi avanzati. Gli investimenti nei paesi industrializzati sono ancora sotto ai livelli pre-crisi, mentre trainano l'economia nei paesi emergenti.
Per il 2011 il Fondo Monetario Internazionale prevede un aumento del prodotto mondiale del 4,4%.
L'economia americana cresce, con alti e bassi, dall'estate del 2009, quando interrompeva la discesa iniziata a fine 2007. Nel 2010 il PIL statunitense aumenta del 2,9% e per il 2011 il Fondo Monetario e i principali centri studi internazionali pronosticano una crescita tra il 2,8 e il 3%. Ma la disoccupazione resta alta, confermano gli Istituti di previsione, e rimarrà a un soffio dal 10%. Il crollo dei valori immobiliari, che è stato nel 2006 del 30% medio circa, potrebbe accumulare nell'anno appena iniziato un altro 10%
(Nota 3), mentre la situazione dei mutui in bancarotta continua a peggiorare. Dall'inizio del 2008, le famiglie hanno subito forti perdite tra valori immobiliari, finanza e fondi pensione. Anche se è in atto una ricostituzione di queste risorse, grazie al drastico ritorno al risparmio, le disponibilità di molti consumatori americani sono attualmente scarse.
Il Giappone chiude il 2010 a +3,9%, ma il futuro è incerto per questo paese, già provato da molte difficoltà, dopo gli eventi catastrofici di marzo 2011. Gli effetti economici delle distruzioni in seguito allo tsunami e al terremoto possono essere duplici: peggiorare la situazione o spingere verso una ripresa partendo dalla ricostruzione (Manzocchi).
I paesi emergenti e in via di sviluppo trainano l'economia mondiale registrando una crescita del 7,3% nel 2010 e una del 6,5% stimata per il 2011. Tra essi si distinguono i BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, anche se sostenere che siano "emergenti" è ormai quantomeno forzato, basta guardare al contributo al PIL globale che oggi offrono. La Cina è la seconda economia mondiale con un prodotto interno lordo nel 2010 pari al 13,6% del PIL mondiale (gli Stati Uniti, che sono al primo posto, hanno una quota del 19,7%). Mentre Brasile, Russia e India, messe insieme, contribuiscono alla ricchezza del pianeta per l'11,3%. Si tratta ormai di paesi "emersi" dal terzo mondo e da sostituire nella definizione di "emergenti" da paesi con altrettante capacità di sviluppo, come per Turchia, Messico, Indonesia e Corea del Sud.
(Tabella 1.1.1) e
(Tabella 1.1.2)
Le tensioni del nord Africa
L'esplosione delle rivolte popolari in Egitto, Tunisia, Libia e Siria a inizio anno e la preoccupazione che le proteste si diffondano ad altri paesi arabi, come Yemen e Bahrain, oltre ad una riflessione di tipo etico porta a interrogarci sulle possibili conseguenze sul ciclo economico, ricordando le conseguenze che ebbe un evento simile nell'89: la caduta del Muro di Berlino.
Le tensioni in questi paesi sono frutto di un diffuso malessere sociale ed economico che covava da anni sotto l'apparente immobilismo. Alcuni semplici indicatori dimostrano la condizione di squilibrio sociale ed economico, nonostante nell'ultimo decennio alcune di queste economie abbiano avuto una crescita sostanziosa. Il PIL procapite è inferiore ai 2.500 dollari nello Yemen, supera di poco i 6.000 dollari in Egitto, è sotto i 10.000 dollari in Tunisia. Uno dei problemi per questi paesi è la disoccupazione: il tasso di disoccupazione complessivo, già molto alto, arriva a superare il 30% nelle fasce d'età più giovani e ciò è particolarmente preoccupante in territori con un forte incremento demografico e una percentuale di popolazione sotto i 30 anni sopra il 50%. Ad aggravare la situazione politico-sociale di questi popoli nella seconda metà del 2010 sono intervenuti i rincari dei beni alimentari di prima necessità, spinti dall'impennata dei prezzi internazionali delle materie prime agricole.
(Tabella 1.1.3)
In generale, un primo problema derivante dalla "crisi del nord Africa" riguarda l'offerta mondiale di petrolio: si potrebbe verificare una fase di scarsità di petrolio per la mancanza del greggio libico sui mercati, ma l'effetto complessivo rifletterà molto la capacità degli altri produttori di compensare tale riduzione d'offerta. Il candidato naturale sarebbe l'Arabia Saudita, che peraltro dovrebbe cercare di aumentare la produzione incentivata dai recenti aumenti del prezzo del petrolio e dal bisogno in questa fase di distribuire reddito alla popolazione. Il quadro si farebbe più complesso nella misura in cui, invece, la situazione non si normalizzasse in tempi brevi e le tensioni si dovessero estendere ad altri paesi produttori. In ogni caso l'aumento dei prezzi del petrolio comunque risulterà significativo anche perché i problemi dal lato dell'offerta di greggio si sono venuti a sovrapporre ad un contesto già in tensione per effetto della ripresa della domanda globale.
L'aumento dei prezzi del petrolio ha naturalmente effetti sull'inflazione e una fase di protratto aumento dell'inflazione attesa avrebbe anche ripercussioni sui tassi d'interesse. Nel giro di poche settimane, a febbraio/marzo di quest'anno, l'impennata delle quotazioni del greggio ha modificato lo scenario per l'inflazione e addirittura indotto a rivedere le prospettive delle politiche economiche internazionali; la BCE, in particolare, ha recentemente segnalato di volere anticipare il percorso di normalizzazione del livello dei tassi d'interesse europei per fronteggiare i rischi di aumento dell'inflazione.
L'altro fenomeno impattante sull'economia internazionale 2011 è la possibile contrazione della domanda di questi paesi. In realtà il nord Africa incide poco sul commercio mondiale come territorio importatore, circa l'1%. Per l'Italia il nord Africa rappresenta il 4% dell'export, mentre il complesso dei 5 paesi, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto pesano per il 2,5% del valore totale delle merci esportate dal Veneto.
Le materie prime e l'inflazione
La ripresa della produzione industriale nel 2010 fa registrare una forte crescita dei prezzi delle materie prime: in linea con quanto osservato dalla seconda metà degli anni duemila, l'elasticità dei prezzi delle materie prime al ciclo economico internazionale si dimostra particolarmente elevata. L'aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, iniziata nei mesi estivi del 2010, si protrae nei mesi successivi, alimentata da condizioni metereologiche eccezionali in Asia, Europa e in America. Ciò determina una condizione di scarsità, in particolare per cereali e granaglie, che continuerà ad incidere sui prezzi dei prodotti alimentari per il 2011.
(Figura 1.1.3)
Gli aumenti più consistenti si verificano nei prezzi delle commodities industriali maggiormente esposte alla crescita cinese, come i metalli non ferrosi. I prezzi di rame e di alcune commodities agricole, come gomma naturale e cotone, raggiungono un massimo storico nella seconda metà del 2010. I prodotti energetici hanno una crescita sostenuta, ma più contenuta rispetto a quella delle altre materie prime destinate all'energia, riflettendo la fiacchezza dell'utilizzo finale nei Paesi Ocse, maggiori consumatori di prodotti petroliferi. Soltanto nella seconda parte del 2010, in seguito alla ripresa della domanda statunitense, il prezzo del petrolio Brent si riporta sopra i 90 dollari al barile. Le quotazioni del Brent chiudono poi l'anno con consistenti rialzi e a inizio 2011 crescono ulteriormente per problemi temporanei legati al calo di offerta interna agli USA, fino ad arrivare alla forte accelerazione delle quotazioni in corrispondenza con l'escalation delle rivolte nei paesi arabi.
I rialzi delle quotazioni delle commodities determinano una ripresa dell'inflazione rispetto ai minimi toccati nel corso del 2009. L'accelerazione della dinamica dei prezzi è relativamente rapida nei Paesi emergenti, alimentata dalla richiesta di materie prime, elevata per la loro necessità di investimenti e dagli incrementi dei prezzi per alimenti che hanno un'importanza rilevante nei panieri di spesa dei consumatori.
Parallelamente, i paesi a economia matura rimangono sostanzialmente immuni dalla ripresa dell'inflazione fino alla fine del 2010, quando i prezzi di alimenti ed energia cominciano a far sentire i propri effetti sui prezzi al consumo di USA e UEM.
I tassi di cambio
Nell'ultimo biennio la politica monetaria Usa determina un indebolimento del dollaro, divenuto la moneta di scambio dei
carry trades, la pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento degli investimenti maggiore. In molti casi la tendenza alla caduta del dollaro viene contrastata attraverso politiche di accumulo di riserve da parte di paesi emergenti. La difficile situazione di finanza pubblica nei Paesi europei incide sull'evoluzione dello scenario valutario: l'euro per un po' smette infatti di rafforzarsi sul dollaro e perde posizioni. Il dollaro, non potendo più rafforzarsi sull'euro e non potendo neanche determinare un apprezzamento dello yuan cinese, per la politica di cambio fisso seguita dalle autorità cinesi, si va a scaricare su un set limitato di valute, come ad esempio lo yen giapponese o il franco svizzero, oppure alcune economie emergenti, che si trovano quindi a registrare un apprezzamento contemporaneamente contro dollaro, euro e yuan.
La situazione congiunturale a marzo 2011 vede l'euro compiere progressi sotto la spinta delle rinnovate dichiarazioni a favore dell'aumento dei tassi da parte della BCE che stanno sostenendo il recupero dell'euro nei confronti del dollaro: la moneta europea il 29 aprile 2011 e' salita fino a 1,486, il livello piu' alto dalla punta del 5 novembre scorso e superando il massimo picco raggiunto nel 2010, 1,456 dollari per 1 euro del 13 gennaio 2010.
(Figura 1.1.4)
Il 2010 in Europa
L'Unione Europea chiude l'anno con una crescita dell'1,8%, così come l'Area Euro, dimostrando il consolidamento della ripresa. Negli ultimi mesi dell'anno comincia ad intensificarsi la domanda interna che si affianca al recupero delle esportazioni, favorite dal rilancio del commercio mondiale.
Nell'area dell'euro l'impulso più forte alla crescita è impresso dall'economia tedesca, grazie ai forti incrementi degli scambi internazionali e degli investimenti in macchinari e attrezzature. Altre economie dell'area tedesca, come Austria, Belgio e Olanda, ma anche la Finlandia, stanno seguendo la Germania. Si contrappone, d'altra parte, l'andamento delle economie dell'area mediterranea: oltre al trend strutturalmente debole dell'Italia e del ciclo recessivo dell'economia spagnola, si nota anche la relativa lentezza della ripresa dell'economia francese che aveva invece mostrato una migliore capacità di tenuta nel corso della crisi. Tra gli altri paesi si evidenzia la caduta dell'economia irlandese e la perdurante fase di contrazione della Grecia. I PIGS, brutto acronimo per riferirsi a Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, nonostante abbiano superato il picco negativo risalente al primo trimestre 2009, registrano ancora una diminuzione del PIL per il 2010: -0,7%. L'Unione monetaria, al netto dei PIGS, aumenta il suo PIL del 2,3% nel 2010 rispetto all'anno precedente.
(Tabella 1.1.4) e
(Figura 1.1.5)
L'economia italiana
In Italia l'aumento del PIL nel 2010 è pari all'1,3%, frutto di una ripresa appena accennata ad inizio anno che poi si è consolidata su tassi di crescita attorno all'1,5%. A livello settoriale, risultano trainanti l'industria in senso stretto ed i servizi relativi al commercio e trasporti. Nonostante la crescita di consumi privati e investimenti, i livelli rimangono ben al di sotto di quelli pre-crisi a causa della caduta del 2009.
(Figura 1.1.6)
Nel corso del 2010 l'attività industriale ha uno sviluppo positivo: l'indice della produzione industriale ha continuato ad aumentare registrando un +6,4% rispetto all'anno precedente; l'indice del fatturato nell'anno cresce del 9,9% rispetto al 2009, sostenuto più dalla domanda estera, +15,6%, che da quella interna, +7,5%; la variazione dell'indice degli ordinativi nel 2010 è pari a +13,9%, valore anch'esso supportato principalmente degli ordini dall'estero (+21,2%). Tutti gli indici recuperano ampiamente rispetto al minimo ciclico raggiunto nella primavera 2009, ma le perdite rispetto al pre-crisi non sono ancora appianate. La produzione industriale ha un'evoluzione differenziata rispetto alla tipologia di bene: per i beni di consumo la contrazione nei livelli produttivi del 2009 è più contenuta, ma nel 2010 il recupero si dimostra meno brillante; i produttori di beni intermedi e soprattutto beni strumentali hanno manifestato una caduta più intensa nel 2009, a causa della riduzione marcata della domanda da parte delle imprese durante la crisi, ma esibiscono nel 2010 una ripresa più vivace.
(Figura 1.1.7)
Il clima di fiducia in Italia
La fiducia delle imprese manifatturiere continua a migliorare per tutto il 2010 raggiungendo i valori dell'indicatore dei primi mesi del 2008, ancora lontani dal manifestarsi della recessione. Tale dinamica può dar adito a qualche dubbio sull'attendibilità di questi indicatori qualitativi, visto che la produzione industriale misura nello stesso periodo ancora delle perdite in termini di volumi prodotti. Probabilmente il calo è imputabile alla cessazione di imprese, ma le industrie che hanno resistito al difficile momento, pur non riuscendo a compensare pienamente le lacune, vedono un miglioramento della propria produzione e quindi si dimostrano più fiduciose. Il risultato è un giudizio positivo da parte degli imprenditori sul livello sia degli ordini in portafoglio, soprattutto per i settori produttori di beni intermedi e strumentali, che della produzione.
L'ottimismo degli imprenditori del manifatturiero non è replicato nel settore delle costruzioni che soffre più per la costruzione di edifici, piuttosto che per i lavori di ingegneria civile e le opere di costruzione specializzate.
(Figura 1.1.8)
Dal lato dei consumatori, complessivamente il clima di opinione delle famiglie rilevato dall'Isae/Istat nel 2010 è positivo, anche se, rispetto ai minimi toccati nel 2008, il recupero dell'indice prosegue fino all'estate del 2009, si stabilizza, ricade nei primi mesi del 2010, per poi risollevarsi verso la fine dell'anno; nei primi mesi del 2011 è un po' altalenante. Le famiglie, pur manifestando un certo ottimismo, rimangono incerte sul clima economico, a causa dei giudizi sul mercato del lavoro.
(Figura 1.1.9)
L'economia veneta
I dati ufficiali di contabilità regionale si fermano all'anno 2009, quindi l'anno che misura l'impatto della recessione internazionale. A livello territoriale il PIL si contrae del 6% nel Nord-Ovest, del 5,6% nel Nord-Est, del 3,9% nel Centro e del 4,3% nel Mezzogiorno. Il Nord-Ovest è la ripartizione geografica dove la crisi economica si fa sentire di più. Queste differenze dipendono in misura prevalente dalla diversa composizione settoriale delle aree geografiche. Sulla peggiore dinamica del Nord influisce l'elevato peso dell'industria in senso stretto. La migliore tenuta dell'attività economica nel Mezzogiorno e al Centro è dovuta alla maggiore rilevanza del comparto dei servizi, che registrano una flessione più contenuta e alquanto omogenea tra le varie aree geografiche.
In questo contesto si può dire che il Veneto subisce un rallentamento dell'economia in linea con quella delle altre regioni fortemente industrializzate: nel 2009 Il Prodotto Interno Lordo veneto registra una diminuzione pari al 5,9%.
La crisi economico-finanziaria colpisce molto duramente le regioni più industrializzate d'Italia: la performance del valore aggiunto dell'industria risulta particolarmente negativa in Piemonte (-16%), Lombardia (-15%), Veneto (-14,1%) ed Emilia Romagna (-13,7%). Il rallentamento della ricchezza prodotta interessa anche gli altri settori dell'economia veneta: -2% nel comparto agricolo e -2,2% nei servizi. La spesa delle famiglie, che rappresenta l'8,9% della spesa italiana, subisce una riduzione in linea con l'andamento nazionale, -1,8%.
Il PIL per abitante, pari a 28.856 euro contro i 25.237 euro a livello nazionale, cala del 4,9%.
Nonostante le perdite, anche nel 2009 il Veneto si conferma la terza regione italiana nel contributo al PIL nazionale: la quota del PIL veneto sul totale nazionale è 9,3%, superata dal Lazio (11,1%) e dalla Lombardia (20,4%).
Per il 2010 l'Istituto di ricerca Prometeia stima una ripresa dell'economia veneta con un tasso pari all'1,6%, superiore all'andamento nazionale, 1,3%, ed una prospettiva di sviluppo di +1,3% per il 2011.
Il risultato del 2010 sarebbe attribuibile soprattutto al rilancio dell'industria in senso stretto, il cui valore aggiunto crescerebbe di quasi 4 punti percentuali e al recupero di 1,2 punti percentuali sia del terziario che dell'agricoltura. Il settore delle costruzioni si stima ancora in fase discendente, -0,9%.
Sicuramente nel 2010 il riattivarsi vivace dell'interscambio commerciale con l'estero ha dato un importante contributo alla crescita. Per il 2011 l'export dovrebbe continuare il suo ruolo di traino, anche se qualche incertezza sui mercati del nord Africa ed il Giappone può oscurare le prospettive. C'è da dire che il complesso dei 5 paesi, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto non pesa molto nel valore totale delle merci esportate dal Veneto (2,5%). Il Giappone detiene una quota di esportazioni venete pari all'1% del totale export veneto e privilegia la produzione del settore "moda".
(Tabella 1.1.5),
(Figura 1.1.10),
(Figura 1.1.11) e
(Figura 1.1.12)
Il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori veneti
Gli indicatori congiunturali più aggiornati a livello regionale sono quelli relativi al clima di fiducia percepito sia dagli imprenditori che dai consumatori.
Il clima di fiducia del settore manifatturiero veneto, secondo l'indagine condotta dall'Isae/Istat, nei primi nove mesi del 2010 cresce con un ritmo intenso, per poi mostrare un'attenuazione nella parte finale dell'anno. Migliorano sia i giudizi sullo stato attuale del portafoglio ordini sia le attese di produzione. Si rileva particolarmente ottimista il giudizio sugli ordini dall'estero. Nei primi mesi del 2011 si blocca la fiducia dei mesi immediatamente precedenti a causa della lieve flessione delle aspettative sui prossimi ordinativi e produzione.
(Figura 1.1.13)
L'indice generale di fiducia dei consumatori, che valuta l'ottimismo/pessimismo del consumatore sulla base della media di nove indicatori inerenti le situazioni economiche generali e personali, è altalenante per tutto il 2010. Sicuramente positivo rispetto ai momenti più incerti della crisi, l'indice ha un crollo a febbraio 2010 per poi migliorare nuovamente.
(Figura 1.1.14)
Il valore aggiunto settoriale
Nel 2009, ultimo dato ufficiale sul Veneto, il settore dei servizi, che rappresenta il 65,4% dell'intero valore aggiunto prodotto in Veneto, subisce una riduzione del 2,2%, leggermente inferiore di quella del settore a livello nazionale, -2,6%. L'agricoltura, che dà un contributo limitato alla ricchezza regionale, ne rappresenta infatti l'1,6%, riporta nel 2009 una variazione di -2,0%, più limitata di quella dello stesso comparto a livello nazionale, -2,3%. L'industria in senso stretto, che in Veneto rappresenta oltre il 26% dell'intero valore aggiunto, nel 2009 risente pesantemente del crollo della domanda internazionale, registrando un -15,4%, diminuzione vicina a quella registrata a livello di paese, -15,6%.
Nel 2010 si stima un incremento generalizzato, più forte nel settore dell'industria in senso stretto. Soltanto il comparto delle costruzioni dovrà probabilmente aspettare un anno in più per la ripresa. Il valore aggiunto in agricoltura a livello nazionale nel 2010 sale dell'1,0%; per quello Veneto si stima una crescita dell'1,2%. Il comparto dell'industria in senso stretto in Italia nel 2010 registra un incremento pari al 4,8%, mentre è ancora in fase discendente il comparto delle costruzioni, -3,5%. In Veneto si stima un aumento del valore aggiunto per l'industria in senso stretto del 3,9% e una variazione negativa delle costruzioni, -0,9%. La ricchezza prodotta dai servizi aumenta dell'1,1% a livello nazionale; per il Veneto si ipotizza che il valore aggiunto del terziario nel 2010 cresca dell'1,2% rispetto al 2009.
Per il 2011 si prevedono variazioni positive per tutti i settori, ad eccezione dell'agricoltura.
(Figura 1.1.15),
(Figura 1.1.16),
(Figura 1.1.17) e
(Figura 1.1.18)
Gli investimenti
Nel 2010, a livello nazionale gli investimenti fissi lordi crescono di 2,5 punti percentuali, risultato di un intenso incremento degli investimenti in macchinari e attrezzature, 11,1%, di un aumento dell'8,5% in mezzi di trasporto e di una flessione in investimenti in costruzioni, -3,7%.
Particolarmente marcato risulta il rialzo nei primi trimestri dell'anno degli acquisti in mezzi di trasporti e nei mesi centrali di macchine, attrezzature e altri prodotti. La spesa per investimenti in beni strumentali quasi raggiunge i livelli pre-crisi ed ha una decelerazione solo nel quarto trimestre per la scadenza degli incentivi fiscali introdotti con la Tremonti-ter che aveva sostenuto precedentemente la domanda.
La componente "costruzioni" continua il trend negativo iniziato nel quarto trimestre 2007, peggiorato nel 2009 (-8,7%), e registra nel 2010 una variazione del -3,7%.
A livello regionale l'ultimo dato storico risale al 2007 quando gli investimenti aumentarono rispetto ai valori dell'anno precedente, +1,6%, risultato frutto di buoni investimenti nell'industria in senso stretto, +7,3%, della stagnazione nel settore primario, +0,6%, del pesante decremento nelle costruzioni, -19,6% e della variazione registrata nel terziario, 0,7%.
Si stima un calo simile a quello nazionale nel 2008, e nel 2009, mentre nel 2010 il riavvio delle esportazioni, a cui tali spese risultano strettamente legate, favorirà gli investimenti.
(Figura 1.1.19)
I consumi
Dal lato degli impieghi a livello nazionale nel 2010 si evidenzia un incremento in termini reali dello 0,6% dei consumi finali nazionali, data dal +1% per la spesa delle famiglie residenti e dalla flessione dello 0,6% per la spesa delle Amministrazioni pubbliche e le Istituzioni sociali private.
La spesa per consumi privati sul territorio economico nazionale nel 2010 arresta la discesa tendenziale avviata nel 2008 e registra una lenta ripresa. La dinamica sia tendenziale che congiunturale comunque conferma un andamento fiacco e incerto. Le famiglie italiane stanno ancora soffrendo l'attuale debolezza della ripresa e l'incertezza del mercato del lavoro. Questo induce le famiglie a rinviare le spese non necessarie: si registra infatti un calo degli acquisti di beni durevoli pari a -1,9%. I consumi di beni semidurevoli hanno una buona ripresa, +4,1%, mentre le spese per beni non durevoli e servizi segnano una variazione modesta: 1% e 0,9% rispettivamente.
(Figura 1.1.20),
(Figura 1.1.21) e
(Figura 1.1.22)
In Veneto nel 2009, ultimo dato storico disponibile, la spesa per consumi delle famiglie registra una flessione dell'1,8%. Per il 2010 si stima un aumento dello 0,7% per ipotizzare ancora una ripresa fiacca nel 2011, +0,9%.
(Figura 1.1.23)
I prezzi in Veneto
In Italia l'inflazione nel 2010 si attesta sull'1,5% segnando il recupero di questa variabile dopo un 2009 in cui l'indice dei prezzi al consumo è stato il più basso degli ultimi 50 anni. L'anno che si è chiuso evidenzia un innalzamento del tasso di crescita, risultato circa doppio rispetto al precedente, ma nonostante tutto non raggiunge un valore elevato. L'inflazione media rilevata in Veneto è pari a 1,4%, leggermente inferiore a quella nazionale; i capoluoghi di provincia che si sono distinti per un tasso minore sono stati Treviso e Vicenza e Belluno.
Con riferimento ai capitoli di spesa il Veneto mostra un andamento simile a quello nazionale: i contributi alla crescita media dell'ultimo anno più rilevanti riguardano principalmente i trasporti, ma anche le bevande alcoliche e i tabacchi, gli altri servizi e l'istruzione.
Un significativo contributo al rafforzamento dell'inflazione generale è fornito dai prezzi dei trasporti, sotteso dall'evoluzione dei prezzi energetici che recuperano tra 2009 e 2010 circa 13 punti percentuali, passando dal -9% al +4% circa, contribuendo per poco meno di un punto percentuale all'accelerazione registrata nell'ultimo anno dall'inflazione. A spingere verso l'alto i prezzi di benzina e prodotti da riscaldamento è soprattutto l'aumento delle quotazioni del petrolio, che cumulano un incremento in valuta interna superiore al 30% nell'arco dell'intero anno. E' questa dinamica ad aver impattato sul rialzo dell'inflazione in un contesto di crescita economica complessivamente debole.
(Figura 1.1.24)