Capitolo 1

La ripresa del ciclo economico all'insegna della razionalizzazione delle risorse (Nota 1)

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1.1 La congiuntura

L'ultimo decennio si è dimostrato poco sostenibile. Troppi squilibri ed instabilità hanno portato alla crisi finanziaria del 2008 e alla successiva recessione: la politica monetaria è stata molto rilassata e ha gonfiato i prezzi dei beni, in particolare del mercato immobiliare; la politica fiscale è stata squilibrata con problemi di deficit anche in anni economicamente "forti"; la posizione del debito estero degli Stati Uniti, rispecchiata da una corrispondente posizione di creditori esteri di molti paesi asiatici, è aumentata in modo drammatico. Il sistema finanziario mondiale era molto lontano dalla stabilità e ha aggravato la crisi che aveva scatenato. Il ciclo economico dell'ultimo decennio è stato definito una economia "bolla" (Nota 2) e decisamente al di là della sostenibilità.
Per tutto il 2010 i paesi a economia matura si sono trovati di fronte ad una serie di dilemmi generati dalla volontà di dare impulso alla ripresa: le politiche fiscali avrebbero dovuto, da un lato, sostenere la ripresa economica e, dall'altro, avviare politiche di bilancio di riduzione dei disavanzi pubblici a medio e lungo periodo; le politiche monetarie avrebbero dovuto ripristinare condizioni di normalità sui mercati della liquidità e dei titoli pubblici e tassi d'interesse reale a breve almeno in prossimità dello zero, ma allo stesso tempo non rendere troppo oneroso il compito delle politiche di bilancio; infine i governi avrebbero dovuto garantire regole più appropriate per la gestione dei mercati finanziari, per la capitalizzazione dei sistemi bancari, per l'attività di sorveglianza e nello stesso tempo non creare ulteriori e nuovi ostacoli al finanziamento delle imprese.
Analizzando la situazione attuale, si osserva che l'economia reale sta reagendo, ma è evidente che alcune delle cause che hanno portato alla più netta recessione degli ultimi 80 anni non sono state ancora curate: la politica monetaria è ancora rilassata, i deficit pubblici sono ancora molto alti, il saldo della bilancia commerciale statunitense è ancora negativo, le regole del sistema finanziario globale sono praticamente quasi le stesse di prima della crisi. Ed infine i mercati hanno colto che il divario di produttività e competitività tra i paesi ad economia matura e quelli emergenti è profondo, così come la differenza tra Nord e Sud all'interno dell'Unione Europea è sostanziale.
A tutto ciò si è aggiunta nei primi mesi del 2011 la crisi del Nord Africa, che nel giro di poche settimane ha modificato le prospettive del ciclo economico per le possibili conseguenze dei prezzi del petrolio su crescita, inflazione e l'andamento atteso dei tassi d'interesse. Ma, al di là della mera quantificazione degli effetti macroeconomici, l'esplosione delle rivolte popolari dei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo ha riportato con forza al centro del dibattito internazionale la necessità di uno sviluppo sostenibile, legato al bisogno di libertà, democrazia, giustizia, equità nella distribuzione, in poche parole, rispettosa della qualità della vita.
L'economia internazionale
I dati del 2010 confermano la ripresa: il prodotto mondiale cresce del 5%, trascinato dalla ripresa dei flussi commerciali internazionali, +12,4%. Il recupero mostra due velocità: nelle economie avanzate la crescita resta contenuta e il tasso di disoccupazione è ancora alto, nelle economie emergenti invece l'attività è vivace. (Figura 1.1.1) e (Figura 1.1.2)
Se la dinamica positiva della produzione industriale è indice del rilancio complessivo dell'economia nel 2010, anche tra questi dati cogliamo il gap tra paesi emergenti ed economie mature. Lo stesso si può dire osservando la dinamica dei consumi e degli investimenti. Nel 2010 a livello globale la domanda evidenzia un ciclo relativamente robusto per i consumi, mentre il ciclo degli investimenti presenta ancora qualche esitazione. I consumi superano largamente i valori pre-crisi nell'aggregato dei paesi emergenti, e recuperano le perdite nei paesi avanzati. Gli investimenti nei paesi industrializzati sono ancora sotto ai livelli pre-crisi, mentre trainano l'economia nei paesi emergenti.
Per il 2011 il Fondo Monetario Internazionale prevede un aumento del prodotto mondiale del 4,4%.
L'economia americana cresce, con alti e bassi, dall'estate del 2009, quando interrompeva la discesa iniziata a fine 2007. Nel 2010 il PIL statunitense aumenta del 2,9% e per il 2011 il Fondo Monetario e i principali centri studi internazionali pronosticano una crescita tra il 2,8 e il 3%. Ma la disoccupazione resta alta, confermano gli Istituti di previsione, e rimarrà a un soffio dal 10%. Il crollo dei valori immobiliari, che è stato nel 2006 del 30% medio circa, potrebbe accumulare nell'anno appena iniziato un altro 10% (Nota 3), mentre la situazione dei mutui in bancarotta continua a peggiorare. Dall'inizio del 2008, le famiglie hanno subito forti perdite tra valori immobiliari, finanza e fondi pensione. Anche se è in atto una ricostituzione di queste risorse, grazie al drastico ritorno al risparmio, le disponibilità di molti consumatori americani sono attualmente scarse.
Il Giappone chiude il 2010 a +3,9%, ma il futuro è incerto per questo paese, già provato da molte difficoltà, dopo gli eventi catastrofici di marzo 2011. Gli effetti economici delle distruzioni in seguito allo tsunami e al terremoto possono essere duplici: peggiorare la situazione o spingere verso una ripresa partendo dalla ricostruzione (Manzocchi).
I paesi emergenti e in via di sviluppo trainano l'economia mondiale registrando una crescita del 7,3% nel 2010 e una del 6,5% stimata per il 2011. Tra essi si distinguono i BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, anche se sostenere che siano "emergenti" è ormai quantomeno forzato, basta guardare al contributo al PIL globale che oggi offrono. La Cina è la seconda economia mondiale con un prodotto interno lordo nel 2010 pari al 13,6% del PIL mondiale (gli Stati Uniti, che sono al primo posto, hanno una quota del 19,7%). Mentre Brasile, Russia e India, messe insieme, contribuiscono alla ricchezza del pianeta per l'11,3%. Si tratta ormai di paesi "emersi" dal terzo mondo e da sostituire nella definizione di "emergenti" da paesi con altrettante capacità di sviluppo, come per Turchia, Messico, Indonesia e Corea del Sud. (Tabella 1.1.1) e (Tabella 1.1.2)
Le tensioni del nord Africa
L'esplosione delle rivolte popolari in Egitto, Tunisia, Libia e Siria a inizio anno e la preoccupazione che le proteste si diffondano ad altri paesi arabi, come Yemen e Bahrain, oltre ad una riflessione di tipo etico porta a interrogarci sulle possibili conseguenze sul ciclo economico, ricordando le conseguenze che ebbe un evento simile nell'89: la caduta del Muro di Berlino.
Le tensioni in questi paesi sono frutto di un diffuso malessere sociale ed economico che covava da anni sotto l'apparente immobilismo. Alcuni semplici indicatori dimostrano la condizione di squilibrio sociale ed economico, nonostante nell'ultimo decennio alcune di queste economie abbiano avuto una crescita sostanziosa. Il PIL procapite è inferiore ai 2.500 dollari nello Yemen, supera di poco i 6.000 dollari in Egitto, è sotto i 10.000 dollari in Tunisia. Uno dei problemi per questi paesi è la disoccupazione: il tasso di disoccupazione complessivo, già molto alto, arriva a superare il 30% nelle fasce d'età più giovani e ciò è particolarmente preoccupante in territori con un forte incremento demografico e una percentuale di popolazione sotto i 30 anni sopra il 50%. Ad aggravare la situazione politico-sociale di questi popoli nella seconda metà del 2010 sono intervenuti i rincari dei beni alimentari di prima necessità, spinti dall'impennata dei prezzi internazionali delle materie prime agricole. (Tabella 1.1.3)
In generale, un primo problema derivante dalla "crisi del nord Africa" riguarda l'offerta mondiale di petrolio: si potrebbe verificare una fase di scarsità di petrolio per la mancanza del greggio libico sui mercati, ma l'effetto complessivo rifletterà molto la capacità degli altri produttori di compensare tale riduzione d'offerta. Il candidato naturale sarebbe l'Arabia Saudita, che peraltro dovrebbe cercare di aumentare la produzione incentivata dai recenti aumenti del prezzo del petrolio e dal bisogno in questa fase di distribuire reddito alla popolazione. Il quadro si farebbe più complesso nella misura in cui, invece, la situazione non si normalizzasse in tempi brevi e le tensioni si dovessero estendere ad altri paesi produttori. In ogni caso l'aumento dei prezzi del petrolio comunque risulterà significativo anche perché i problemi dal lato dell'offerta di greggio si sono venuti a sovrapporre ad un contesto già in tensione per effetto della ripresa della domanda globale.
L'aumento dei prezzi del petrolio ha naturalmente effetti sull'inflazione e una fase di protratto aumento dell'inflazione attesa avrebbe anche ripercussioni sui tassi d'interesse. Nel giro di poche settimane, a febbraio/marzo di quest'anno, l'impennata delle quotazioni del greggio ha modificato lo scenario per l'inflazione e addirittura indotto a rivedere le prospettive delle politiche economiche internazionali; la BCE, in particolare, ha recentemente segnalato di volere anticipare il percorso di normalizzazione del livello dei tassi d'interesse europei per fronteggiare i rischi di aumento dell'inflazione.
L'altro fenomeno impattante sull'economia internazionale 2011 è la possibile contrazione della domanda di questi paesi. In realtà il nord Africa incide poco sul commercio mondiale come territorio importatore, circa l'1%. Per l'Italia il nord Africa rappresenta il 4% dell'export, mentre il complesso dei 5 paesi, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto pesano per il 2,5% del valore totale delle merci esportate dal Veneto.
Le materie prime e l'inflazione
La ripresa della produzione industriale nel 2010 fa registrare una forte crescita dei prezzi delle materie prime: in linea con quanto osservato dalla seconda metà degli anni duemila, l'elasticità dei prezzi delle materie prime al ciclo economico internazionale si dimostra particolarmente elevata. L'aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, iniziata nei mesi estivi del 2010, si protrae nei mesi successivi, alimentata da condizioni metereologiche eccezionali in Asia, Europa e in America. Ciò determina una condizione di scarsità, in particolare per cereali e granaglie, che continuerà ad incidere sui prezzi dei prodotti alimentari per il 2011. (Figura 1.1.3)
Gli aumenti più consistenti si verificano nei prezzi delle commodities industriali maggiormente esposte alla crescita cinese, come i metalli non ferrosi. I prezzi di rame e di alcune commodities agricole, come gomma naturale e cotone, raggiungono un massimo storico nella seconda metà del 2010. I prodotti energetici hanno una crescita sostenuta, ma più contenuta rispetto a quella delle altre materie prime destinate all'energia, riflettendo la fiacchezza dell'utilizzo finale nei Paesi Ocse, maggiori consumatori di prodotti petroliferi. Soltanto nella seconda parte del 2010, in seguito alla ripresa della domanda statunitense, il prezzo del petrolio Brent si riporta sopra i 90 dollari al barile. Le quotazioni del Brent chiudono poi l'anno con consistenti rialzi e a inizio 2011 crescono ulteriormente per problemi temporanei legati al calo di offerta interna agli USA, fino ad arrivare alla forte accelerazione delle quotazioni in corrispondenza con l'escalation delle rivolte nei paesi arabi.
I rialzi delle quotazioni delle commodities determinano una ripresa dell'inflazione rispetto ai minimi toccati nel corso del 2009. L'accelerazione della dinamica dei prezzi è relativamente rapida nei Paesi emergenti, alimentata dalla richiesta di materie prime, elevata per la loro necessità di investimenti e dagli incrementi dei prezzi per alimenti che hanno un'importanza rilevante nei panieri di spesa dei consumatori.
Parallelamente, i paesi a economia matura rimangono sostanzialmente immuni dalla ripresa dell'inflazione fino alla fine del 2010, quando i prezzi di alimenti ed energia cominciano a far sentire i propri effetti sui prezzi al consumo di USA e UEM.
I tassi di cambio
Nell'ultimo biennio la politica monetaria Usa determina un indebolimento del dollaro, divenuto la moneta di scambio dei carry trades, la pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento degli investimenti maggiore. In molti casi la tendenza alla caduta del dollaro viene contrastata attraverso politiche di accumulo di riserve da parte di paesi emergenti. La difficile situazione di finanza pubblica nei Paesi europei incide sull'evoluzione dello scenario valutario: l'euro per un po' smette infatti di rafforzarsi sul dollaro e perde posizioni. Il dollaro, non potendo più rafforzarsi sull'euro e non potendo neanche determinare un apprezzamento dello yuan cinese, per la politica di cambio fisso seguita dalle autorità cinesi, si va a scaricare su un set limitato di valute, come ad esempio lo yen giapponese o il franco svizzero, oppure alcune economie emergenti, che si trovano quindi a registrare un apprezzamento contemporaneamente contro dollaro, euro e yuan.
La situazione congiunturale a marzo 2011 vede l'euro compiere progressi sotto la spinta delle rinnovate dichiarazioni a favore dell'aumento dei tassi da parte della BCE che stanno sostenendo il recupero dell'euro nei confronti del dollaro: la moneta europea il 29 aprile 2011 e' salita fino a 1,486, il livello piu' alto dalla punta del 5 novembre scorso e superando il massimo picco raggiunto nel 2010, 1,456 dollari per 1 euro del 13 gennaio 2010. (Figura 1.1.4)
Il 2010 in Europa
L'Unione Europea chiude l'anno con una crescita dell'1,8%, così come l'Area Euro, dimostrando il consolidamento della ripresa. Negli ultimi mesi dell'anno comincia ad intensificarsi la domanda interna che si affianca al recupero delle esportazioni, favorite dal rilancio del commercio mondiale.
Nell'area dell'euro l'impulso più forte alla crescita è impresso dall'economia tedesca, grazie ai forti incrementi degli scambi internazionali e degli investimenti in macchinari e attrezzature. Altre economie dell'area tedesca, come Austria, Belgio e Olanda, ma anche la Finlandia, stanno seguendo la Germania. Si contrappone, d'altra parte, l'andamento delle economie dell'area mediterranea: oltre al trend strutturalmente debole dell'Italia e del ciclo recessivo dell'economia spagnola, si nota anche la relativa lentezza della ripresa dell'economia francese che aveva invece mostrato una migliore capacità di tenuta nel corso della crisi. Tra gli altri paesi si evidenzia la caduta dell'economia irlandese e la perdurante fase di contrazione della Grecia. I PIGS, brutto acronimo per riferirsi a Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, nonostante abbiano superato il picco negativo risalente al primo trimestre 2009, registrano ancora una diminuzione del PIL per il 2010: -0,7%. L'Unione monetaria, al netto dei PIGS, aumenta il suo PIL del 2,3% nel 2010 rispetto all'anno precedente. (Tabella 1.1.4) e (Figura 1.1.5)
L'economia italiana
In Italia l'aumento del PIL nel 2010 è pari all'1,3%, frutto di una ripresa appena accennata ad inizio anno che poi si è consolidata su tassi di crescita attorno all'1,5%. A livello settoriale, risultano trainanti l'industria in senso stretto ed i servizi relativi al commercio e trasporti. Nonostante la crescita di consumi privati e investimenti, i livelli rimangono ben al di sotto di quelli pre-crisi a causa della caduta del 2009. (Figura 1.1.6)
Nel corso del 2010 l'attività industriale ha uno sviluppo positivo: l'indice della produzione industriale ha continuato ad aumentare registrando un +6,4% rispetto all'anno precedente; l'indice del fatturato nell'anno cresce del 9,9% rispetto al 2009, sostenuto più dalla domanda estera, +15,6%, che da quella interna, +7,5%; la variazione dell'indice degli ordinativi nel 2010 è pari a +13,9%, valore anch'esso supportato principalmente degli ordini dall'estero (+21,2%). Tutti gli indici recuperano ampiamente rispetto al minimo ciclico raggiunto nella primavera 2009, ma le perdite rispetto al pre-crisi non sono ancora appianate. La produzione industriale ha un'evoluzione differenziata rispetto alla tipologia di bene: per i beni di consumo la contrazione nei livelli produttivi del 2009 è più contenuta, ma nel 2010 il recupero si dimostra meno brillante; i produttori di beni intermedi e soprattutto beni strumentali hanno manifestato una caduta più intensa nel 2009, a causa della riduzione marcata della domanda da parte delle imprese durante la crisi, ma esibiscono nel 2010 una ripresa più vivace. (Figura 1.1.7)

Il clima di fiducia in Italia

La fiducia delle imprese manifatturiere continua a migliorare per tutto il 2010 raggiungendo i valori dell'indicatore dei primi mesi del 2008, ancora lontani dal manifestarsi della recessione. Tale dinamica può dar adito a qualche dubbio sull'attendibilità di questi indicatori qualitativi, visto che la produzione industriale misura nello stesso periodo ancora delle perdite in termini di volumi prodotti. Probabilmente il calo è imputabile alla cessazione di imprese, ma le industrie che hanno resistito al difficile momento, pur non riuscendo a compensare pienamente le lacune, vedono un miglioramento della propria produzione e quindi si dimostrano più fiduciose. Il risultato è un giudizio positivo da parte degli imprenditori sul livello sia degli ordini in portafoglio, soprattutto per i settori produttori di beni intermedi e strumentali, che della produzione.
L'ottimismo degli imprenditori del manifatturiero non è replicato nel settore delle costruzioni che soffre più per la costruzione di edifici, piuttosto che per i lavori di ingegneria civile e le opere di costruzione specializzate. (Figura 1.1.8)
Dal lato dei consumatori, complessivamente il clima di opinione delle famiglie rilevato dall'Isae/Istat nel 2010 è positivo, anche se, rispetto ai minimi toccati nel 2008, il recupero dell'indice prosegue fino all'estate del 2009, si stabilizza, ricade nei primi mesi del 2010, per poi risollevarsi verso la fine dell'anno; nei primi mesi del 2011 è un po' altalenante. Le famiglie, pur manifestando un certo ottimismo, rimangono incerte sul clima economico, a causa dei giudizi sul mercato del lavoro. (Figura 1.1.9)
L'economia veneta
I dati ufficiali di contabilità regionale si fermano all'anno 2009, quindi l'anno che misura l'impatto della recessione internazionale. A livello territoriale il PIL si contrae del 6% nel Nord-Ovest, del 5,6% nel Nord-Est, del 3,9% nel Centro e del 4,3% nel Mezzogiorno. Il Nord-Ovest è la ripartizione geografica dove la crisi economica si fa sentire di più. Queste differenze dipendono in misura prevalente dalla diversa composizione settoriale delle aree geografiche. Sulla peggiore dinamica del Nord influisce l'elevato peso dell'industria in senso stretto. La migliore tenuta dell'attività economica nel Mezzogiorno e al Centro è dovuta alla maggiore rilevanza del comparto dei servizi, che registrano una flessione più contenuta e alquanto omogenea tra le varie aree geografiche.
In questo contesto si può dire che il Veneto subisce un rallentamento dell'economia in linea con quella delle altre regioni fortemente industrializzate: nel 2009 Il Prodotto Interno Lordo veneto registra una diminuzione pari al 5,9%.
La crisi economico-finanziaria colpisce molto duramente le regioni più industrializzate d'Italia: la performance del valore aggiunto dell'industria risulta particolarmente negativa in Piemonte (-16%), Lombardia (-15%), Veneto (-14,1%) ed Emilia Romagna (-13,7%). Il rallentamento della ricchezza prodotta interessa anche gli altri settori dell'economia veneta: -2% nel comparto agricolo e -2,2% nei servizi. La spesa delle famiglie, che rappresenta l'8,9% della spesa italiana, subisce una riduzione in linea con l'andamento nazionale, -1,8%.
Il PIL per abitante, pari a 28.856 euro contro i 25.237 euro a livello nazionale, cala del 4,9%.
Nonostante le perdite, anche nel 2009 il Veneto si conferma la terza regione italiana nel contributo al PIL nazionale: la quota del PIL veneto sul totale nazionale è 9,3%, superata dal Lazio (11,1%) e dalla Lombardia (20,4%).
Per il 2010 l'Istituto di ricerca Prometeia stima una ripresa dell'economia veneta con un tasso pari all'1,6%, superiore all'andamento nazionale, 1,3%, ed una prospettiva di sviluppo di +1,3% per il 2011.
Il risultato del 2010 sarebbe attribuibile soprattutto al rilancio dell'industria in senso stretto, il cui valore aggiunto crescerebbe di quasi 4 punti percentuali e al recupero di 1,2 punti percentuali sia del terziario che dell'agricoltura. Il settore delle costruzioni si stima ancora in fase discendente, -0,9%.
Sicuramente nel 2010 il riattivarsi vivace dell'interscambio commerciale con l'estero ha dato un importante contributo alla crescita. Per il 2011 l'export dovrebbe continuare il suo ruolo di traino, anche se qualche incertezza sui mercati del nord Africa ed il Giappone può oscurare le prospettive. C'è da dire che il complesso dei 5 paesi, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto non pesa molto nel valore totale delle merci esportate dal Veneto (2,5%). Il Giappone detiene una quota di esportazioni venete pari all'1% del totale export veneto e privilegia la produzione del settore "moda". (Tabella 1.1.5), (Figura 1.1.10), (Figura 1.1.11) e (Figura 1.1.12)

Il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori veneti

Gli indicatori congiunturali più aggiornati a livello regionale sono quelli relativi al clima di fiducia percepito sia dagli imprenditori che dai consumatori.
Il clima di fiducia del settore manifatturiero veneto, secondo l'indagine condotta dall'Isae/Istat, nei primi nove mesi del 2010 cresce con un ritmo intenso, per poi mostrare un'attenuazione nella parte finale dell'anno. Migliorano sia i giudizi sullo stato attuale del portafoglio ordini sia le attese di produzione. Si rileva particolarmente ottimista il giudizio sugli ordini dall'estero. Nei primi mesi del 2011 si blocca la fiducia dei mesi immediatamente precedenti a causa della lieve flessione delle aspettative sui prossimi ordinativi e produzione. (Figura 1.1.13)
L'indice generale di fiducia dei consumatori, che valuta l'ottimismo/pessimismo del consumatore sulla base della media di nove indicatori inerenti le situazioni economiche generali e personali, è altalenante per tutto il 2010. Sicuramente positivo rispetto ai momenti più incerti della crisi, l'indice ha un crollo a febbraio 2010 per poi migliorare nuovamente. (Figura 1.1.14)

Il valore aggiunto settoriale

Nel 2009, ultimo dato ufficiale sul Veneto, il settore dei servizi, che rappresenta il 65,4% dell'intero valore aggiunto prodotto in Veneto, subisce una riduzione del 2,2%, leggermente inferiore di quella del settore a livello nazionale, -2,6%. L'agricoltura, che dà un contributo limitato alla ricchezza regionale, ne rappresenta infatti l'1,6%, riporta nel 2009 una variazione di -2,0%, più limitata di quella dello stesso comparto a livello nazionale, -2,3%. L'industria in senso stretto, che in Veneto rappresenta oltre il 26% dell'intero valore aggiunto, nel 2009 risente pesantemente del crollo della domanda internazionale, registrando un -15,4%, diminuzione vicina a quella registrata a livello di paese, -15,6%.
Nel 2010 si stima un incremento generalizzato, più forte nel settore dell'industria in senso stretto. Soltanto il comparto delle costruzioni dovrà probabilmente aspettare un anno in più per la ripresa. Il valore aggiunto in agricoltura a livello nazionale nel 2010 sale dell'1,0%; per quello Veneto si stima una crescita dell'1,2%. Il comparto dell'industria in senso stretto in Italia nel 2010 registra un incremento pari al 4,8%, mentre è ancora in fase discendente il comparto delle costruzioni, -3,5%. In Veneto si stima un aumento del valore aggiunto per l'industria in senso stretto del 3,9% e una variazione negativa delle costruzioni, -0,9%. La ricchezza prodotta dai servizi aumenta dell'1,1% a livello nazionale; per il Veneto si ipotizza che il valore aggiunto del terziario nel 2010 cresca dell'1,2% rispetto al 2009.
Per il 2011 si prevedono variazioni positive per tutti i settori, ad eccezione dell'agricoltura. (Figura 1.1.15), (Figura 1.1.16), (Figura 1.1.17) e (Figura 1.1.18)

Gli investimenti

Nel 2010, a livello nazionale gli investimenti fissi lordi crescono di 2,5 punti percentuali, risultato di un intenso incremento degli investimenti in macchinari e attrezzature, 11,1%, di un aumento dell'8,5% in mezzi di trasporto e di una flessione in investimenti in costruzioni, -3,7%.
Particolarmente marcato risulta il rialzo nei primi trimestri dell'anno degli acquisti in mezzi di trasporti e nei mesi centrali di macchine, attrezzature e altri prodotti. La spesa per investimenti in beni strumentali quasi raggiunge i livelli pre-crisi ed ha una decelerazione solo nel quarto trimestre per la scadenza degli incentivi fiscali introdotti con la Tremonti-ter che aveva sostenuto precedentemente la domanda.
La componente "costruzioni" continua il trend negativo iniziato nel quarto trimestre 2007, peggiorato nel 2009 (-8,7%), e registra nel 2010 una variazione del -3,7%.
A livello regionale l'ultimo dato storico risale al 2007 quando gli investimenti aumentarono rispetto ai valori dell'anno precedente, +1,6%, risultato frutto di buoni investimenti nell'industria in senso stretto, +7,3%, della stagnazione nel settore primario, +0,6%, del pesante decremento nelle costruzioni, -19,6% e della variazione registrata nel terziario, 0,7%.
Si stima un calo simile a quello nazionale nel 2008, e nel 2009, mentre nel 2010 il riavvio delle esportazioni, a cui tali spese risultano strettamente legate, favorirà gli investimenti. (Figura 1.1.19)

I consumi

Dal lato degli impieghi a livello nazionale nel 2010 si evidenzia un incremento in termini reali dello 0,6% dei consumi finali nazionali, data dal +1% per la spesa delle famiglie residenti e dalla flessione dello 0,6% per la spesa delle Amministrazioni pubbliche e le Istituzioni sociali private.
La spesa per consumi privati sul territorio economico nazionale nel 2010 arresta la discesa tendenziale avviata nel 2008 e registra una lenta ripresa. La dinamica sia tendenziale che congiunturale comunque conferma un andamento fiacco e incerto. Le famiglie italiane stanno ancora soffrendo l'attuale debolezza della ripresa e l'incertezza del mercato del lavoro. Questo induce le famiglie a rinviare le spese non necessarie: si registra infatti un calo degli acquisti di beni durevoli pari a -1,9%. I consumi di beni semidurevoli hanno una buona ripresa, +4,1%, mentre le spese per beni non durevoli e servizi segnano una variazione modesta: 1% e 0,9% rispettivamente. (Figura 1.1.20), (Figura 1.1.21) e (Figura 1.1.22)
In Veneto nel 2009, ultimo dato storico disponibile, la spesa per consumi delle famiglie registra una flessione dell'1,8%. Per il 2010 si stima un aumento dello 0,7% per ipotizzare ancora una ripresa fiacca nel 2011, +0,9%. (Figura 1.1.23)

I prezzi in Veneto

In Italia l'inflazione nel 2010 si attesta sull'1,5% segnando il recupero di questa variabile dopo un 2009 in cui l'indice dei prezzi al consumo è stato il più basso degli ultimi 50 anni. L'anno che si è chiuso evidenzia un innalzamento del tasso di crescita, risultato circa doppio rispetto al precedente, ma nonostante tutto non raggiunge un valore elevato. L'inflazione media rilevata in Veneto è pari a 1,4%, leggermente inferiore a quella nazionale; i capoluoghi di provincia che si sono distinti per un tasso minore sono stati Treviso e Vicenza e Belluno.
Con riferimento ai capitoli di spesa il Veneto mostra un andamento simile a quello nazionale: i contributi alla crescita media dell'ultimo anno più rilevanti riguardano principalmente i trasporti, ma anche le bevande alcoliche e i tabacchi, gli altri servizi e l'istruzione.
Un significativo contributo al rafforzamento dell'inflazione generale è fornito dai prezzi dei trasporti, sotteso dall'evoluzione dei prezzi energetici che recuperano tra 2009 e 2010 circa 13 punti percentuali, passando dal -9% al +4% circa, contribuendo per poco meno di un punto percentuale all'accelerazione registrata nell'ultimo anno dall'inflazione. A spingere verso l'alto i prezzi di benzina e prodotti da riscaldamento è soprattutto l'aumento delle quotazioni del petrolio, che cumulano un incremento in valuta interna superiore al 30% nell'arco dell'intero anno. E' questa dinamica ad aver impattato sul rialzo dell'inflazione in un contesto di crescita economica complessivamente debole. (Figura 1.1.24)

Figura 1.1.1

Variazioni percentuali del Commercio mondiale di beni e servizi e del Prodotto Interno Lordo. Mondo - Anni 2007:2012

Figura 1.1.2

Produzione industriale di Mondo, paesi emergenti ed economie avanzate (2000=100) - Gen. 2004:Feb.2011

Tabella 1.1.1

Indicatori economici nei principali paesi industrializzati - Anni 2009:2012

Tabella 1.1.2

Indicatori economici nei Paesi BRIC - Anni 2009:2012

Tabella 1.1.3

Indicatori socio-economici di alcuni paesi del Nord Africa e Medio Oriente - Anni vari

Figura 1.1.3

Indici Economist dei prezzi in $ delle materie prime (2000=100) e prezzo del petrolio ($/barile) - Anni 2005:2011

Figura 1.1.4

Tassi di cambio dollaro-euro e yen-euro - Gen. 2007:Mar. 2011

Tabella 1.1.4

Indicatori economici nei maggiori paesi dell'area dell'euro - Anni 2009:2012

Figura 1.1.5

Variazioni percentuali tendenziali del prodotto interno lordo di alcuni paesi - Anni 2008:2010

Figura 1.1.6

Variazioni percentuali di PIL, consumi finali e investimenti sul rispettivo periodo dell'anno precedente. Italia - I trim 06:IV trim 10

Figura 1.1.7

Indici destagionalizzati della produzione industriale, del fatturato e degli ordinativi. Italia - Gen. 2008:Feb. 2011

Figura 1.1.8

Saldo mensile del clima di fiducia del comparto dell'industria manifatturiera e delle costruzioni (dati destagionalizzati, 2000=100). Italia - Gen. 2008:Apr. 2011

Figura 1.1.9

Saldo mensile del clima di fiducia dei consumatori (dati destagionalizzati, 1980=100). Italia - Gen. 2008:Apr. 2011

Tabella 1.1.5

Quadro macroeconomico (variazioni percentuali su valori concatenati con anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2008:2011

Figura 1.1.10

Stima della variazione % 2010/09 del Prodotto Interno Lordo (prezzi 2000)

Figura 1.1.11

Variazione % 2010/09 del valore aggiunto per settore di attività economica. Veneto e Italia

Figura 1.1.12

Prodotto Interno Lordo pro capite per regione (euro correnti) - Anno 2009

Figura 1.1.13

Saldo mensile del clima di fiducia del comparto dell'industria manifatturiera (dati destagionalizzati, 2005=100). Veneto - Gen. 2008:Apr. 2011

Figura 1.1.14

Saldo mensile del clima di fiducia dei consumatori (dati destagionalizzati, 1980=100). Veneto - Gen. 2008:Apr. 2011

Figura 1.1.15

Variazioni percentuali del valore aggiunto in agricoltura a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.16

Variazioni percentuali del valore aggiunto nell'industria in senso stretto a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.17

Variazioni percentuali del valore aggiunto nelle costruzioni a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.18

Variazioni percentuali del valore aggiunto nei servizi a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.19

Variazioni percentuali degli investimenti fissi lordi a valori concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.20

Variazioni % annue della spesa delle famiglie per beni durevoli. Veneto e Italia - Anni 2004:2010

Figura 1.1.21

Variazioni % annue della spesa delle famiglie per beni non durevoli e semidurevoli. Veneto e Italia - Anni 2004:2010

Figura 1.1.22

Variazioni % annue della spesa delle famiglie per servizi. Veneto e Italia - Anni 2004:2010

Figura 1.1.23

Variazioni percentuali delle spese per consumi finali a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000). Veneto e Italia - Anni 2004:2012

Figura 1.1.24

Variazione percentuale dell'indice dei prezzi al consumo per l'intera collettività. Italia e città capoluogo del Veneto - Anno 2010
 
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1.2 La sostenibilità dei conti pubblici

La crisi finanziaria ha avuto un grande impatto sulle finanze pubbliche di tutte le economie sviluppate: la riduzione significativa della crescita economica reale, accompagnata dall'adozione di misure discrezionali di sostegno, ha inevitabilmente provocato una riduzione dei ricavi a fronte di un aumento della spesa pubblica.
Dall'uscita dalla contrazione a partire dalla metà del 2009 e con una ripresa apparentemente in corso, l'attenzione si volge ora verso l'eredità che la recessione ha lasciato per le finanze pubbliche e la costruzione dei consolidamenti necessari per raggiungere una posizione sostenibile.
Negli Stati Uniti il peggioramento dei conti evidenziatosi a inizio secolo si è aggravato con il credit crunch, la stagnazione e il migliaio di miliardi di spesa per il sostegno e il rilancio di Wall Street. Ad aprile 2011 il debito pubblico statunitense ha superato i 14.200 miliardi di dollari, ad un passo dal toccare il 100% del PIL, raddoppiando negli ultimi sei anni.
Una buona parte del debito pubblico statunitense è finanziato dagli stati esteri, mediante l'acquisto di titoli di stato del tesoro Usa. Alla fine di febbraio 2011, gli stati esteri detenevano titoli di stato USA per un importo totale di 4.474,3 miliardi di dollari.
Il motivo di questi acquisti, dovuti principalmente alle banche centrali estere, è legato alla "guerra delle valute". Le banche centrali degli altri paesi sono costrette a comprare dollari per cercare di contrastare l'eccessivo apprezzamento delle loro valute nei confronti del dollaro. La Cina rimane al primo posto fra gli investitori stranieri: a febbraio 2011 Pechino detiene il 26% del debito americano, seguito dal Giappone con il 20% (890 miliardi di dollari).
Nelle previsioni di Aprile 2011 del Fondo Monetario Internazionale, negli Stati Uniti il disavanzo pubblico inizierebbe a scendere già nell'anno in corso (al 10,6% del PIL), per poi ridursi fino al 7,5% nel 2012; il rapporto debito/PIL, salito di oltre 20 punti percentuali dal 2008 al 2010, crescerebbe di altri 10 punti nel prossimo biennio, portandosi al 99,5% nel 2011 e al 102,9% nel 2012.
A gennaio di quest'anno l'agenzia di rating Moody's ha minacciato di abbassare la valutazione degli Stati Uniti, ad oggi ancora premiati con l'ambita tripla A, ma in futuro, probabilmente, costretti a ricevere l'outlook negativo. Il 18 aprile 2011 l'agenzia Standard & Poors conferma il rating positivo degli Stati Uniti, tripla A, ma rivede l'outlook da stabile a negativo. Una decisione che non ha precedenti nella storia ed é stata presa a causa dell'alto deficit Usa e della mancanza di chiarezza sul percorso per la riduzione. L'agenzia abbasserà la valutazione assegnata al debito sovrano di Washington "se l'amministrazione e il congresso non troveranno entro il 2013 un accordo credibile sul bilancio". (Figura 1.2.1)
Anche in Giappone la situazione dei conti pubblici risulta preoccupante: a gennaio 2011 l'agenzia di rating Standard & Poor's ha tagliato la sua valutazione sullo stato di salute della finanza nipponica operando il primo downgrade (da "AA" a "AA-") da quasi nove anni a questa parte.
Quello del Giappone sembra il punto di arrivo di un processo che da anni caratterizza i conti pubblici. In termini relativi, il debito sovrano di Tokyo è il più elevato del mondo: un debito equivalente ad oltre il 220% del PIL e frutto di una spirale negativa avviata negli anni '90. Per far fronte alla recessione lo Stato si impegnò allora a rastrellare liquidità sul fronte del credito per poi riversarla nel mercato sotto forma di stimoli all'economia. I tassi di interesse, nonostante tutto, si sono mantenuti bassi, così come l'esposizione straniera, visto che i titoli sovrani di Tokyo, ad oggi, sono quasi interamente in mano alle banche e ai risparmiatori giapponesi. Due caratteristiche decisive che permettono alla valuta locale di mantenersi una delle monete di riferimento, impedendo al Paese, nonostante un quoziente record, di trasformarsi in un altro "caso Grecia".
Al contrario, quella parte del mondo che per decenni fu sinonimo di instabilità e alti rischi per gli investitori, oggi si colloca al di sotto del limite stabilito nel Patto di stabilità dell'Unione europea, cioè il 3% di deficit/PIL: se vogliamo usare i parametri di Maastricht come riferimento, notiamo che nelle economie emergenti resistono e sono rispettati dai governi. Nel 2010, in Cina l'indebitamento netto su PIL è pari al 2,6% e in America latina la sua media è 2,9%.
In Europa
A livello europeo, le difficoltà della Grecia, esplose nella primavera del 2010, hanno esposto l'urgenza di affrontare la sfida di bilancio nell'area dell'euro e dell'intera UE, l'elevato e crescente debito pubblico e le preoccupazioni relative alla solvibilità dei governi.
La Commissione europea nel presentare la strategia "Europa 2020" a marzo 2010, per uscire dalla crisi ed affrontare le sfide del prossimo decennio, indica come priorità immediata "...portare avanti la riforma del sistema finanziario, garantire il risanamento del bilancio ai fini di una crescita a lungo termine e intensificare il coordinamento con l'Unione economica e monetaria..." (Nota 4).
In seguito alle tensioni create attorno al "caso Grecia" e per fronteggiare il debito sovrano, il 9 maggio 2010, il Consiglio europeo ha adottato un pacchetto di misure volte a preservare la stabilità finanziaria nell'UE di un ammontare complessivo massimo pari a 500 miliardi di euro. Il pacchetto include un fondo europeo di stabilizzazione e un meccanismo per la mobilitazione di ulteriori risorse. Con tali disposizioni il Consiglio si è fortemente impegnato ad assicurare la sostenibilità fiscale e una maggiore crescita economica in tutti gli Stati membri ed ha convenuto la necessità di accelerare i piani di consolidamento fiscale e le riforme strutturali. In seguito, il Consiglio europeo il 24 e 25 marzo scorso ha recepito le proposte presentate nel 2010 dalla Commissione europea miranti ad una più stringente disciplina di bilancio e a una più efficace sorveglianza degli squilibri macroeconomici, che erano state approvate il 15 marzo dai Ministri finanziari della UE. Le proposte prevedono un rafforzamento del Patto di stabilità e una crescita sia nella fase preventiva, mediante l'introduzione di sanzioni monetarie, sia nella fase correttiva, mediante la definizione di una regola numerica che permetta di avviare la Procedura per i disavanzi eccessivi non solo quando il disavanzo superi il 3% del PIL ma anche qualora non sia ritenuta soddisfacente la diminuzione del debito pubblico verso la soglia del 60% del PIL. Allo scopo di potenziare i meccanismi di stabilità dell'area dell'euro e di sostegno finanziario agli Stati membri in difficoltà, il Consiglio ha approvato l'ampliamento della capacità effettiva di prestito dello European Financial Stability Facility (EFSF) da 250 a 440 miliardi e ha definito le caratteristiche del meccanismo permanente di gestione delle crisi (European Stability Mechanism, ESM), già in larga parte concordate il 28 novembre scorso dai Ministri finanziari dei paesi dell'area. (Figura 1.2.2)
Negli Stati europei il disavanzo e il debito pubblico sono notevolmente peggiorati dal 2007. Nel 2007, ultimo anno prima della comparsa della crisi economica e finanziaria, le finanze pubbliche nella UE si trovavano in una condizione favorevole.
La crisi, iniziata nel 2008, ha avuto l'effetto di un brusco deterioramento nei bilanci delle amministrazioni pubbliche della UE27, dovuto alla contrazione dell'economia reale e la conseguente adozione di misure di sostegno introdotte dai diversi governi e in scadenza entro il 2011 per la maggior parte: l'indebitamento netto (Nota 5), corrispondente a 0,9 punti percentuali di PIL nel 2007, ha avuto un pesante peggioramento nel 2009, 6,8%, pesa il 6,4% del PIL nel 2010 e si stima un valore di 6,5% nel 2011 (Nota 6).
Il debito pubblico (Nota 7), che nel 2007 rappresentava il 59% del PIL per la UE27 è arrivato a raggiungere i 74,4 punti percentuali di PIL nel 2009, l'80% nel 2010 e si stima una percentuale dell'83,8% per il 2011.
L'indebitamento netto e il debito pubblico calcolati in percentuale sul PIL sono i due indicatori di riferimento per la valutazione dei conti pubblici, in particolare per la gestione di bilancio il primo, per la gestione della finanza pubblica il secondo.
Livello e andamento del rapporto tra indebitamento netto e PIL, oltre che dalle politiche di bilancio, dipendono dalla crescita economica (la quale agisce sia sul denominatore, sia sulle entrate) e dall'incidenza della spesa per interessi (quest'ultima è legata a sua volta all'evoluzione dei tassi nominali e reali attraverso la struttura per durata del debito). Se dall'indebitamento netto si tolgono le spese per interessi passivi si ottiene il saldo primario che, sempre rapportato al PIL, costituisce un indicatore dello "sforzo" di finanza pubblica (il risparmio pubblico, o l'immissione di risorse nel sistema, al netto degli oneri del debito). La relazione tra indebitamento netto e saldo primario può essere molto diversa tra singoli paesi in funzione delle differenze negli oneri del debito.
Il rapporto percentuale tra il debito delle amministrazioni pubbliche e il PIL è un indicatore di solvibilità che mette in relazione l'entità complessiva delle obbligazioni del settore pubblico consolidato - Stato ed enti locali e previdenziali - con il flusso di beni e servizi prodotti dall'economia, che rappresenta il punto di riferimento per l'imposizione fiscale e, quindi, una misura indiretta della capacità di pagamento. Un rapporto debito/PIL elevato determina un vincolo importante per le scelte di politica economica, obbligando a destinare un ammontare cospicuo di risorse pubbliche al servizio del debito per evitare un ulteriore aumento della sua incidenza; inoltre, esso spesso si riflette anche in un premio di rischio, ovvero nella necessità di corrispondere un tasso d'interesse comparativamente elevato sui titoli del debito.
Per questo motivo, gli accordi di Maastricht nel fissare i criteri per l'adesione all'Unione economica e monetaria (Uem) hanno fissato dei valori per questi due indicatori: il rapporto tra indebitamento e PIL può raggiungere al massimo il 3% e il rapporto tra debito pubblico e PIL deve essere inferiore al 60%.
Tra i vincoli europei decisi il 25 marzo scorso dal Consiglio vi è come obiettivo a medio termine il pareggio di bilancio e la cosiddetta correzione strutturale, ossia "nella maggior parte dei casi, un aggiustamento strutturale su base annua ben superiore allo 0,5% del PIL. Il risanamento dovrebbe essere accelerato negli Stati membri che versano in una situazione di forte disavanzo strutturale o di livello di debito molto alto o in rapida crescita" (Nota 8). Inoltre è stata introdotta la regola del debito: si auspica una riduzione di 1/20 nel rapporto debito/PIL a partire dal 2015. (Tabella 1.2.1)
Nel biennio 2009-2010, le posizioni di bilancio nell'area dell'euro si sono deteriorate ancor di più. Nell'area dei 16 paesi dell'euro l'indebitamento medio nel 2009 ha raggiunto il 6,3% del PIL, dallo 0,7% nel 2007 e 2,0% nel 2008. Un lieve miglioramento si legge dai dati provvisori del 2010: 6,0% rispetto al PIL. Da un'analisi della Commissione europea risulta che tale deterioramento sia stato causato da fattori congiunturali più che da un peggioramento dell'equilibrio strutturale di bilancio. (Figura 1.2.3)
All'interno dell'Area dell'Euro, nel 2009, l'anno peggiore, l'indebitamento è stato particolarmente consistente in Spagna e Irlanda, dove il disavanzo è aumentato di sette punti percentuali, ma anche in Portogallo, Belgio, Francia, Cipro, Portogallo, Slovenia e Slovacchia. Nei Paesi Bassi e in Finlandia preoccupa la conversione da una situazione di surplus ad una di deficit.
Nella grande maggioranza degli Stati membri della zona euro il disavanzo nel 2009 ha superato il 3% del PIL citato dal Trattato, anzi nessun singolo paese ha registrato un surplus.
In media, al di fuori dell'Area Euro, l'impatto è stato ancora più negativo, infatti rispetto all'anno precedente la posizione di bilancio è ancora più indebolita: l'indebitamento è al 6,8% del PIL. In particolare, nel Regno Unito il disavanzo è aumentato drammaticamente di oltre sette punti percentuali.
Nelle stime della Commissione europea, ci si attende per l'Area Euro un 2011 in leggero miglioramento rispetto al 2009. Naturalmente queste previsioni sono legate alla velocità della ripresa economica: con la prospettiva di un aumento dell'1,7% nel 2011, l'indebitamento dell'Area Euro dovrebbe raggiungere il 6,1% del PIL nel 2011.
Il debito pubblico nel 2009 nell'Area Euro è arrivato a misurare il 79,4% del PIL, registrando un aumento di 9,4 punti percentuali rispetto al 2008. Tale situazione è dovuta soprattutto alla crescita del debito di Spagna e Irlanda, anche se quest'ultima partiva da un livello relativamente basso. Nel 2010 l'indicatore passa addirittura all'85,3%. Si prevede un ulteriore aumento al 88,5% del PIL entro il 2011 nella zona euro, quando al deficit primario si accompagnerà un debole contributo alla crescita economica e l'effetto aggiuntivo di spesa per interessi in aumento.
Le previsioni scontano una leggera ripresa dell'economia e l'adozione di decise misure di consolidamento, soprattutto dal lato della spesa.
In Italia
L'Italia è sempre stato un paese con un debito pubblico elevato. Uno studio condotto da Banca d'Italia (Nota 9) nel 2008 e curato da Maura Francese e Angelo Pace ricostruisce la serie storica del debito pubblico italiano dall'Unità d'Italia al 2007 e dimostra che gli anni in cui il debito è stato superiore al PIL non sono casi isolati. Su 147 anni, il rapporto debito delle Amministrazioni pubbliche sul PIL è stato superiore al 100% in 53 anni e ha superato il 60% in 108 anni. Si deve invece considerare come una singolarità il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, caratterizzato dal miracolo economico e da un peso del debito in media ben al di sotto del 35%. L'analisi parte dal 1861, quando dopo l'unificazione del Paese, venne istituito il Gran libro del debito pubblico dove vennero fatte confluire le passività degli Stati che avevano formato lo Stato unitario ed evidenzia quattro fasi di accumulo del debito. La prima caratterizza tutta la seconda parte del 1800, con un massimo assoluto nella seconda metà degli anni novanta; la seconda e la terza (i cui massimi sono raggiunti nel 1920 e nel 1943) sono connesse con le due guerre mondiali. La scomposizione del debito fra interno ed estero aiuta a chiarire la dinamica sottostante i due rilevanti episodi di repentino aggiustamento seguiti ai conflitti mondiali. Mentre nel caso degli anni che seguirono la prima guerra mondiale, il venir meno del debito estero prebellico (che fu in parte condonato) spiega in parte rilevante il crollo osservato negli anni venti e nei primi anni trenta, la drastica riduzione del peso del debito (quasi integralmente interno) realizzata alla fine della seconda guerra mondiale è invece attribuibile principalmente all'elevatissima inflazione.
La quarta fase di forte accumulazione di debito pubblico parte dopo il minimo registrato nel 1963-1964, quando l'incidenza del debito riprende a salire rapidamente. Negli anni ottanta l'incidenza del debito pubblico si riporta su livelli simili a quelli della fine degli anni novanta dell'ottocento (massimo storico fino a quel momento escludendo il debito estero connesso alla prima guerra mondiale). Il punto di massimo viene raggiunto nel 1994, quando l'incidenza del debito sul prodotto sale al 121,8%. Negli anni successivi, in connessione con l'adesione all'Unione monetaria europea, viene avviato un processo di progressivo aggiustamento degli squilibri dei conti pubblici. Alla fine del 2007 il debito pubblico era pari a 1.599,0 miliardi di euro, il 104,1% del PIL. (Figura 1.2.4)
Nel 2009, ultimo dato consolidato, il rapporto debito su PIL si è attestato al 116,1%, valore inferiore solamente a quello della Grecia, all'interno dell'Unione Europea. Nello stesso anno il saldo primario nazionale è risultato negativo, per la prima volta dal 1991, e pari a -0,7% del PIL, mentre l'indebitamento è più che raddoppiato rispetto al 2008 attestandosi a 5,4 punti percentuali in rapporto al PIL.
Osservando la dinamica del conto trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, nei primi sei mesi del 2010 l'indebitamento netto in rapporto al PIL è migliorato rispetto allo stesso periodo del 2009; alla fine del 2010 esso risulta pari al 4,6% del PIL (Nota 10). Il saldo primario in rapporto al PIL nel 2010 è risultato negativo e pari allo 0,1% del PIL, in miglioramento di 0,6 punti percentuali rispetto all'anno precedente.
Secondo le previsioni contenute nel Documento di Economia e Finanza del governo e riportate anche nelle tavole della Notifica sull'indebitamento netto e sul debito delle Amministrazioni Pubbliche di Istat, per il 2011, l'indebitamento netto e il saldo primario dovrebbero collocarsi rispettivamente al -3,9% e a +0,9% del PIL, mentre il debito si attesterebbe al 120% del PIL.
Per il triennio 2010-12, anche la Commissione Europea prevede per l'Italia un disavanzo in graduale miglioramento (al 3,5% del PIL) e un rapporto tra il debito e PIL in lieve aumento (al 119,9%); nel confronto internazionale, l'andamento dei conti pubblici italiani negli anni più recenti ha beneficiato del fatto che nel nostro paese non è stato necessario impegnare fondi pubblici per effettuare salvataggi bancari. (Figura 1.2.5)
Il timore è che l'Italia possa essere assimilata ai Paesi oggi "sotto osservazione", denominati, con un brutto acronimo, PIGS: Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo. E' pur vero che questi territori non stanno solamente subendo un aumento del rischio sul debito pubblico, ma anche una crisi economica "strutturale" che sta attanagliando il settore privato. La Grecia ha avuto l'aggravante della pesante revisione dei conti di finanza pubblica, in un Paese già gravato da un fardello del debito assai elevato e il fenomeno in atto si spiega con una correzione dei pesanti squilibri che si sono accumulati nel primo decennio di esistenza della zona euro. Infatti, per tutto quel periodo, i Paesi periferici hanno accumulato eccessi di domanda rispetto all'offerta via via crescenti e di portata spesso significativa. Ciò è stato possibile principalmente sfruttando la leva di un indebitamento in aumento, reso possibile da un facile accesso al credito e dal rilevante calo dei tassi di interesse conseguente all'ingresso nella zona euro, il che ha consentito (accanto a un "normale" processo di "convergenza") ritmi di crescita assai più sostenuti rispetto alla media dell'eurozona (Nota 11).
Tali Paesi sono divenuti importatori netti di capitali, che nel caso dell'Irlanda si sono riversati in particolare sul settore finanziario, favorito da una legislazione fiscale particolarmente favorevole. Dall'altra parte, paesi come Germania, Belgio e Olanda erano nella situazione opposta, esportando capitali.
Tali considerazioni portano alla riflessione che fare una valutazione complessiva della sostenibilità finanziaria di un paese basandosi solamente sui due indicatori sopracitati sul debito pubblico sarebbe riduttivo. E' utile infatti considerare anche la posizione netta estera del Paese, ossia il saldo delle attività e passività finanziarie verso il resto del mondo.
In Italia la posizione netta estera, pur peggiorando nel corso del tempo, calcolata in percentuale sul PIL è pari a -19,3%. L'Italia mostra dunque un "debito" netto sull'estero in linea con quello medio europeo e assai inferiore a quello di Portogallo, Grecia, Spagna e Irlanda. (Figura 1.2.6)
Molti economisti ultimamente sostengono che il debito di un paese debba essere considerato in una sorta di forma aggregata che comprenda, oltre al settore pubblico, quello privato non finanziario. Se si considera il debito pubblico italiano congiuntamente a quello del settore privato non finanziario in rapporto al PIL, la situazione italiana appare più favorevole di quella dell'Area Euro: l'esposizione debitoria di famiglie (Nota 12) e imprese ha una dimensione relativamente piccola in Italia rispetto a quella di molti altri paesi europei. (Figura 1.2.7) e (Figura 1.2.8)
Incrociando la posizione finanziaria netta, letto come indice di vulnerabilità finanziaria, con il livello del debito delle famiglie in rapporto al PIL, letto come indice di capacità di copertura del debito, si ottiene una sorta di "matrice di stabilità finanziaria" ovverosia una mappatura dei Paesi in base a tali indici di vulnerabilità. Ne risulta che i Paesi più "esposti" sono quelli non solo con una posizione finanziaria debole, ma anche con un alto indebitamento privato. Si tratta, non a caso, di Portogallo, Grecia, Spagna e Irlanda. L'Italia si colloca in una posizione caratterizzata sì da un elevato indebitamento, ma da una posizione finanziaria relativamente forte o quantomeno, assai meno debole rispetto agli altri Paesi e dall'indebitamento privato più basso tra quello di tutti i paesi considerati. La Francia sembra presentare caratteristiche simili all'Italia, anche come dinamica, mentre assai meglio posizionata, quanto a posizione finanziaria, appare la Germania.
La situazione dell'Italia nel contesto europeo è ancora migliore in termini di ricchezza finanziaria netta del settore privato: nello periodo 2000-2009 la ricchezza in rapporto al PIL si pone ampiamente al di sopra della media dell'Area Euro. Il maggior punto di forza dell'Italia è la solida situazione finanziaria delle famiglie: nella media del periodo la loro ricchezza finanziaria netta è circa il doppio del PIL. Nel 2009 Il rapporto tra disponibilità finanziaria netta delle famiglie e PIL è pari a quasi il 180% in Italia, contro il 130% dell'Area Euro e ampiamente superiore al dato di Francia, 131,5% e Germania, 131%. (Figura 1.2.9)
Un altro indicatore relativo allo stato dei conti pubblici è proposto da Banca d'Italia con il nome di indicatore di sostenibilità: è l'aumento del rapporto tra avanzo primario e PIL necessario a stabilizzare il rapporto debito su PIL (Nota 13). Rispetto a tale indicatore l'Italia risulta in una posizione privilegiata rispetto al gruppo di paesi considerati: a fronte di un 6,8% per l'Area Euro, per l'Italia si calcola un 2,6%. Le situazioni più problematiche sono rappresentate ancora una volta da Grecia, Spagna, Irlanda a cui si aggiungono, secondo questo indicatore, Gran Bretagna e USA. (Figura 1.2.10)
Il mercato finanziario, ad oggi, sembra dare una valutazione positiva all'Italia nella fase di crisi. I tassi dei titoli di stato italiani decennali sono rimasti stabilmente all'interno di una fascia, tra il 4 e il 5%, un livello del tutto naturale per titoli a lungo termine e sostenibile nel tempo. Inoltre, come afferma il Direttore Generale della Banca d'Italia, Fabrizio Saccomanni, la valutazione del mercato riflette anche il basso livello del debito privato dell'Italia, la solidità del suo sistema bancario, l'alto livello della ricchezza, reale e finanziaria, delle famiglie e, infine, l'ampiezza e l'articolazione della sua industria manifatturiera, operante in tutti i principali settori. Infine, si tiene conto del fatto che, in base al programma pluriennale di stabilizzazione finanziaria già approvato dal Parlamento e confermato nel Documento di economia e finanza 2011, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2011, il rapporto deficit/PIL scenda sotto il 3% nel 2012 e si avvicini al 2,6% nel 2014, in linea con l'obiettivo di portare il bilancio in pareggio negli anni successivi.
Sembra, in sintesi, che il mercato giudichi l'Italia in grado di affrontare i problemi strutturali che la affliggono.

Figura 1.2.1

Paesi possessori dei titoli del tesoro USA (percentuale) - Febbraio 2011

Figura 1.2.2

Evoluzione dell'indebitamento netto e del debito pubblico in rapporto al Pil dal 2005 al 2010

Tabella 1.2.1

Debito pubblico e indebitamento netto in rapporto al PIL di alcuni Paesi - Anno 2010

Figura 1.2.3

Variazione dell'indebitamento netto e sue componenti in rapporto al PIL. Area Euro - Anni 2007-2011

Figura 1.2.4

Debito delle Amministrazioni pubbliche (in percentuale del PIL). Italia - Anni 1861:2007

Figura 1.2.5

Indebitamento netto e saldo primario (% del PIL). Italia - Anni 1987:2011

Figura 1.2.6

Posizione netta sull'estero di alcuni Paesi in percentuale del PIL - Anno 2009

Figura 1.2.7

Debito privato di famiglie e imprese non finanziarie in percentuale del PIL - I trim. 2010

Figura 1.2.8

Debito privato delle famiglie in rapporto al PIL e posizione netta sull'estero su PIL di alcuni Paesi - Anno 2009

Figura 1.2.9

Disponibilità finanziaria netta delle famiglie in percentuale del PIL di alcuni Paesi - Anno 2009

Figura 1.2.10

Debito pubblico in rapporto al PIL e indicatore per la stabilizzazione del rapporto debito/PIL di alcuni Paesi - Anno 2009
 
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1.3 La sostenibilità a lungo termine della spesa sociale

Nel rapporto 2010 sulle finanze pubbliche dell'Unione monetaria europea, pubblicato dal Direttorato Affari economici e finanziari della Commissione, si evidenzia la preoccupazione per la vulnerabilità dei conti pubblici statali in relazione all'invecchiamento della popolazione.
Nei prossimi decenni, fattori quali i bassi tassi di fecondità, il prolungarsi delle aspettative di vita, una pesante contrazione della popolazione in età lavorativa solo parzialmente controbilanciata dall'aumento atteso dei flussi migratori, modificheranno in maniera radicale la struttura per età della popolazione europea e tutto ciò produrrà conseguenze non irrilevanti sulla finanza pubblica e sull'assetto socio-economico.
Per affrontare questa sfida e tenendo conto della centralità del tema della sostenibilità a lungo termine nella riforma del Patto di stabilità e crescita operata nel 2005, la Commissione europea (Nota 14) ha elaborato proiezioni di bilancio a lungo termine a livello di UE, considerando l'impatto della cosiddetta spesa "age-related", ossia la spesa pubblica legata all'età che include quella per pensioni, sanità, cure di lungo termine e sussidi di disoccupazione.
Le stime recepiscono le ipotesi demografiche e macroeconomiche dello scenario di base per la stima delle componenti della spesa age-related contenute nell'Ageing Report, pubblicato ad aprile dello scorso anno (Nota 15). Sono simulazioni che rappresentano un'estensione meccanica degli elementi contenuti negli aggiornamenti del Programma di Convergenza e stabilità 2009-2010, che nel 2010, 2011 e 2012 vedono una crescita del PIL dell'1%, 2% e 2,3% e del debito/PIL all'84%, 87% e 87% per i paesi della Zona Euro. Tali cifre puntano a illustrare l'ampiezza dei rischi e delle sfide legate al consolidamento futuro dei conti pubblici, ma non devono essere scambiate per previsioni.
Secondo queste proiezioni, nell'ipotesi che vengano mantenute le attuali politiche, la spesa legata all'invecchiamento, aumenterà nei prossimi cinquant'anni di 4,6 punti percentuali di PIL per l'intera Unione europea, del 5,1% nell'Unione monetaria, dell'1,6% per l'Italia.
L'aumento della spesa legata all'età rischia di essere molto significativa in nove Stati membri dell'UE, dove provocherebbe un aumento di 7 punti percentuali del PIL o più: Lussemburgo, Grecia, Slovenia, Cipro, Malta, Paesi Bassi, Romania, Spagna e Irlanda. Per un secondo gruppo di paesi, Belgio, Finlandia, Repubblica Ceca, Lituania, Slovacchia, Regno Unito e Germania, il costo dell'invecchiamento è più limitato, ma ancora molto elevato, tra i 4 e i 7 punti percentuali del PIL. Infine, l'incremento è più moderato, 4 punti percentuali del PIL, o meno, in Bulgaria, Svezia, Portogallo, Austria, Francia, Danimarca, Italia, Lettonia, Estonia, Ungheria e Polonia. La maggior parte di questi paesi ha attuato riforme delle pensioni sostanziali, come Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia e Svezia. (Figura 1.3.1) e (Tabella 1.3.1)
Il Ministero dell'Economia e delle Finanze (Nota 16) italiano ha calcolato per l'Italia un analogo impatto dell'invecchiamento della popolazione sulla spesa pubblica. Le ipotesi utilizzate sono le stesse considerate dalla Commissione europea, con l'aggiornamento dello scenario sulla base degli effetti della crisi e del quadro normativo in vigore ad aprile 2011, in particolare delle modifiche di legge sui requisiti di accesso al pensionamento di vecchiaia delle donne nel pubblico impiego (Nota 17). (Figura 1.3.2)
Le stime del governo italiano indicano che, nel periodo 2005-2060, la spesa dovuta all'invecchiamento in rapporto al PIL dovrebbe aumentare di 2,1 punti percentuali, a fronte di una diminuzione della spesa totale di 3,2 punti percentuali di PIL. La maggior parte dell'aumento della spesa age-related sarebbe concentrata nel biennio 2008-2009 ed è principalmente imputabile alla contrazione del prodotto interno lordo dovuta alla crisi. Negli anni successivi al 2010, dovrebbe calare lievemente per poi aumentare di nuovo a partire dal 2027 fino al 2040-2046, in corrispondenza del pensionamento della generazione del cosiddetto baby boom, fino a sfiorare il 30% del PIL negli anni intorno al 2045. Dal 2055 si assisterebbe ad una riduzione fino a convergere, in rapporto al PIL, a livelli addirittura inferiori rispetto a quelli sperimentati nel 2010. (Figura 1.3.3)
La spesa per pensioni in rapporto al PIL, dopo una fase iniziale di leggera crescita, assume un profilo decrescente fino al 2027; ricomincia a crescere fino a raggiungere, attorno al 2040, il livello massimo del 15,7% del PIL, ma negli anni seguenti la spesa si riduce fino a raggiungere, nel 2060, il 13,9% in rapporto al PIL.
La proiezione della spesa sanitaria (Nota 18), che presenta un profilo crescente in rapporto al PIL lungo gran parte dell'orizzonte di previsione, si stabilizza intorno al livello dell'8,8% cento del PIL nel corso dell'ultimo decennio.
Le componenti socio-assistenziali per assistenza agli anziani (Nota 19) in rapporto al PIL presentano un profilo crescente per l'intero periodo di previsione assestandosi all'1,7% nel 2060.
La spesa per istruzione (Nota 20) in rapporto al PIL, al 4,2% nel 2010, includendo gli effetti della riforma della scuola pubblica, decresce nei successivi trenta anni per poi risalire lievemente intorno alla fine del periodo di previsione, attestandosi intorno al 3,4% nel 2060.
La previsione della spesa per ammortizzatori sociali in rapporto al PIL passa dallo 0,4% del 2008 allo 0,7% del triennio 2009-2011, anche per effetto della maggiore spesa dovuta alle conseguenze occupazionali della crisi economica. Nel periodo successivo, in linea con la cessazione del rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga, previsto a legislazione vigente nel 2011, si registra un riallineamento del rapporto spesa/PIL sul livello dello 0,4%, valore che risulta sostanzialmente stabile per tutto il periodo di previsione.

Figura 1.3.1

Stima della spesa pubblica legata all'età in percentuale del PIL e differenza 2060/10. Paesi dell'UE27

Tabella 1.3.1

Differenza 2060/10 della spesa pubblica legata all'età in percentuale del PIL per tipologia di spesa di alcuni paesi dell'UE27

Figura 1.3.2

Spesa pubblica totale e spesa pubblica legata all'età (% del PIL). Italia- Anni 2005-2060

Figura 1.3.3

Spesa pubblica per tipologia (% del PIL). Italia - Anni 2005:2060
 
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1.4 Il federalismo

(Nota 21) In Italia, accanto alle misure di consolidamento della finanza pubblica, ci si attende un miglioramento dei conti pubblici dall'attuazione del federalismo fiscale. Esso dovrebbe rappresentare un volano nella razionalizzazione della spesa attraverso l'applicazione dei costi standard e prevedendo l'avvio di uno snellimento degli apparati burocratici locali, l'attuazione del decentramento funzionale per talune regioni e provincie autonome. Dovrebbe inoltre migliorare le entrate attivando un contrasto all'evasione fiscale tramite la compartecipazione-cointeressenza dei governi locali.
In questa parte di capitolo, dopo aver delineato le ragioni di efficienza economica che la letteratura sul federalismo fiscale ha individuato a sostegno dei processi di decentramento fiscale, si analizzerà il ruolo che l'efficienza nell'allocazione delle risorse svolge nella sostenibilità dei conti pubblici. Successivamente, con l'ausilio di alcuni indicatori, si proporrà una fotografia della situazione del Veneto nel quadro nazionale di finanza pubblica alla vigilia della riforma prevista dalla Legge Delega 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale. Infine, si individueranno nei provvedimenti recenti di riforma dell'assetto finanziario degli enti pubblici italiani i principi finalizzati al perseguimento della sostenibilità della finanza pubblica.
Il federalismo fiscale: strumento per l'efficienza delle amministrazioni pubbliche
La letteratura economica, a partire dagli anni '50 del XX secolo, ha sviluppato una serie di argomentazioni a sostegno dei processi di decentramento fiscale. L'attenzione degli studiosi si è concentrata maggiormente sulle ragioni per le quali il federalismo fiscale costituisce lo strumento per migliorare l'efficienza nell'allocazione delle risorse.
Un assetto fiscale di tipo federale sarebbe infatti in grado di incentivare l'efficienza economica per una serie di motivazioni:
  • i governi locali, in virtù della loro maggiore vicinanza ai cittadini, sono in grado di rispettare meglio le preferenze degli stessi per i beni e i servizi pubblici locali rispetto ad una soluzione centralizzata;
  • se il costo dei servizi pubblici è sopportato a livello locale, aumenta il potere di controllo dei cittadini nei confronti dell'operato degli amministratori locali accrescendo il loro senso di responsabilità (o accountability);
  • se gli individui hanno una certa mobilità, le differenze nelle politiche locali di bilancio (ossia diverse combinazioni di servizi pubblici e imposte) possono introdurre qualche forma di concorrenza tra i governi locali e contribuire ad aumentare l'efficienza. Il decentramento, riducendo l'asimmetria informativa tra politici e cittadini, consente a questi ultimi di valutare le scelte dei diversi governi locali e discriminare tra governi buoni e governi cattivi (si tratta della cosiddetta yardstick competition). Questo permette anche ai governi locali di confrontare il loro operato con quello degli altri e identificare le best practices;
  • il decentramento rappresenta un contesto adatto per la sperimentazione di politiche pubbliche a livello locale, in modo da accrescere l'efficienza del settore pubblico e di introdurvi qualche elemento di progresso tecnico. Progetti sperimentali da parte di un governo locale, se coronati dal successo, potrebbero essere attuati anche da parte di altri governi locali o dello stesso Governo centrale;
  • infine, per tutte queste ragioni, il decentramento fiscale sembra essere in grado di promuovere anche la crescita economica, un'affermazione questa che trova qualche sostegno nella letteratura empirica più recente (Nota 22).
Dall'efficienza economica alla sostenibilità dei conti pubblici
Rispetto al tema della sostenibilità delle finanze pubbliche, il federalismo fiscale, pur non perseguendo direttamente tale obiettivo, si configura nel dibattito politico degli ultimi due decenni come strumento che, attraverso l'efficientamento della pubblica amministrazione, concorre a mantenere l'equilibrio dei conti pubblici. Un assetto istituzionale di tipo federale favorisce la sostenibilità finanziaria attraverso le sue caratteristiche distintive:
  • l'autonomia finanziaria degli enti territoriali, che assicura la possibilità di adeguare le entrate ai bisogni effettivi di spesa in modo da non incidere negativamente sul percorso di rientro nei parametri del Patto di stabilità e crescita;
  • la programmabilità delle entrate, che consente agli enti territoriali di prevedere in anticipo la dinamica delle componenti principali, comprese eventuali fluttuazioni negative;
  • l'esistenza di incentivi per un uso efficiente ed efficace delle risorse da parte delle amministrazioni territoriali;
  • la valorizzazione dell'autonomia di gestione del bilancio, che permette di ottenere, dagli enti territoriali, un contributo più fattivo al risanamento della finanza pubblica.
Finanza pubblica e federalismo oggi: la situazione del Veneto
Con la crisi finanziaria e politica del 1992 l'Italia ha intrapreso un percorso più deciso nella direzione del decentramento fiscale, responsabilizzando maggiormente i governi locali sul proprio bilancio, ricostruendo una maggiore autonomia tributaria e offrendo più spazi di manovra dal lato delle spese.
Alla vigilia della riforma prevista dalla Legge Delega 42/2009, l'autonomia finanziaria misurata dall'indice di decentramento fiscale, determinato come quota di tributi propri detenuta rispettivamente da Amministrazioni regionali e locali, ammonta a circa il 16%. Per un approfondimento si veda: "Federalismo fiscale: temi e quadro attuale" a questo indirizzo.
Nell'anno 2008, i tributi propri delle Amministrazioni Pubbliche (Stato, Regioni, Province e Comuni) ammontano complessivamente a 503,7 miliardi di euro, pari al 32,1% del Prodotto Interno Lordo nazionale. Lo Stato detiene l'84% dei tributi propri; il restante 16% è ripartito tra Regioni a statuto ordinario (8,4%), Regioni a statuto speciale (1,2%) e Amministrazioni locali (6,3%).
D'altra parte, la spesa complessiva della Pubblica Amministrazione gestita a livello territoriale raggiunge il 31%, principalmente per effetto della spesa sanitaria amministrata dalle Regioni che da sola rappresenta il 13,8% della spesa pubblica totale. (Figura 1.4.1) e (Figura 1.4.2)
Lo Stato effettua una redistribuzione di risorse a favore delle Regioni meno ricche e di quelle a statuto speciale. Tale metodo è legato anche alla cristallizzazione di criteri ispirati alla spesa storica, mai complessivamente rivisitati per tendere verso i criteri più razionali della capacità fiscale e del fabbisogno di spesa definiti dal legislatore costituzionale con la riforma del Titolo V.
È utile, a tale proposito, proporre un'analisi della spesa statale regionalizzata, a partire dalle informazioni contenute nei lavori della Ragioneria Generale dello Stato. I dati utilizzati riguardano le spese effettuate dal bilancio dello Stato nelle circoscrizioni territoriali regionali (dirette o trasferite ad altre Amministrazioni Pubbliche della Regione) relativamente all'anno 2009. Se si calcola la spesa per abitante, si osserva che il Veneto si colloca all'ultimo posto in graduatoria delle regioni: lo Stato spende in Veneto 3.139 euro per abitante, a fronte di una media delle Regioni a Statuto Ordinario di 3.900 euro e di 5.399 euro delle Regioni a Statuto Speciale. La presenza di tali differenze interregionali nei valori pro capite di intervento statale suggerisce l'opportunità di ricalcolare i fabbisogni oggettivi regionali di spesa per riportarli a valori più congrui all'esercizio adeguato delle funzioni. (Figura 1.4.3)
Anche sul versante delle entrate delle Regioni insistono criteri perequativi che determinano una redistribuzione delle risorse. Le prime esperienze di federalismo fiscale introdotte nel nostro Paese a partire dalla fine degli anni Novanta non hanno modificato sostanzialmente la situazione ex ante. Il D.lgs. 56/2000 ha tentato di realizzare una perequazione interregionale delle risorse fondata su criteri più razionali rispetto a quello della spesa storica; esso ha definito, prima della riforma costituzionale del 2001, un nuovo sistema di finanziamento delle Regioni a Statuto Ordinario, con il duplice obiettivo di ampliarne l'autonomia finanziaria e di rafforzarne la responsabilizzazione sul fronte della spesa e del prelievo fiscale.
In realtà, il Decreto 56 presentava il limite di aver introdotto un sistema perequativo che attuava essenzialmente una redistribuzione operata per la massima parte sulle risorse sanitarie, intervenendo così sulle risorse già negoziate tra Stato e Regioni. Il D.lgs. 56/2000 si è arenato nel 2004 a seguito dei ricorsi al Tar e alla Corte Costituzionale contro il DPCM di applicazione per l'anno 2002 da parte di alcune Regioni penalizzate dall'applicazione del Decreto stesso.
Nonostante la direzione degli effetti redistributivi fosse nota sin dall'emanazione della riforma, le Regioni penalizzate dalla nuova ripartizione delle risorse hanno chiesto la sospensione o la correzione dei nuovi criteri previsti dal D.lgs. 56/2000, dichiarando l'insostenibilità delle minori entrate per i propri equilibri di bilancio e la non copertura dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, tutelati dall'articolo 117, comma 2 lettera m della Costituzione. La conflittualità interregionale sugli esiti perequativi ha condotto a partire dal 2005 ad un restyling del D.lgs. 56 in un'ottica più "solidaristica".
Nel 2008 la Regione Veneto ha riversato alle Regioni meno ricche 824 milioni di euro, quasi un decimo delle proprie entrate di bilancio e un quarto dell'IVA lorda attribuita. (Figura 1.4.4)
La redistribuzione territoriale tra Regioni non è solamente dovuta alla perequazione del D.lgs. 56/2000. Esiste anche quella implicita nei molteplici riparti dei trasferimenti statali, con cui le Regioni finanziano settori di spesa extrasanitaria quali il sociale, l'istruzione e la cultura, le politiche abitative, i trasporti, il sostegno economico e la finanza locale.
I criteri di riparto di tali fondi sono diversificati, ma complessivamente le scelte perequative sono nette e consolidate nel tempo. Fatta 100 la media dei trasferimenti erariali di parte corrente alle Regioni a Statuto Ordinario, ogni cittadino veneto riceve mediamente risorse per 68.
La sottodotazione del Veneto nella graduatoria dei trasferimenti erariali non caratterizza il solo anno esaminato, il 2007. Essa rappresenta il frutto di scelte perequative determinate a partire dagli anni Settanta, e che nel corso degli anni si sono consolidate.
Per questi motivi, il lungo e tortuoso cammino verso un'attuazione piena e coerente del federalismo fiscale passa anche attraverso un'attività di analisi e revisione dei criteri perequativi che stanno alla base dei programmi di riparto, volta a superare definitivamente il concetto di spesa storica. Si potrà salvaguardare il valore storico delle quote regionali di riparto solo nei casi in cui il programma di trasferimento soppresso è frutto dell'espressione di esplicite scelte di valenza socioeconomica che giustificano, anche alla luce del nuovo dettato costituzionale, il merito dell'intervento redistributivo. (Tabella 1.4.1)
Infine, anche sul fronte dei trasferimenti agli Enti Locali, il Veneto si caratterizza per una strutturale sottodotazione di risorse correnti trasferite dallo Stato.
Per quanto riguarda l'assetto di finanziamento, la struttura delle entrate correnti si presenta profondamente differenziata se si confrontano i valori medi a livello regionale.
In particolare, per quanto riguarda i Comuni, il grado di autonomia tributaria, misurato come rapporto tra il totale delle entrate tributarie (al netto della compartecipazione all'Irpef) ed il complesso delle entrate correnti, si attesta mediamente al 37%, presentando tuttavia una distribuzione fortemente sperequata nel territorio. I contributi e i trasferimenti coprono, invece, mediamente il 36% delle risorse acquisite nella gestione ordinaria; tali risorse assicurano alle regioni del Nord una quota complessiva di finanziamento inferiore rispetto alla media nazionale, mentre per alcune regioni del Sud costituiscono anche il 50% delle entrate correnti. In tale contesto, i Comuni del Veneto, pur ricevendo trasferimenti per una quota inferiore rispetto alla media nazionale, riescono a finanziare la spesa corrente senza attivare nella misura massima la pressione fiscale, che risulta inferiore a quella di Lombardia ed Emilia Romagna. (Figura 1.4.5)
La sostenibilità nella riforma del federalismo fiscale
L'approvazione della legge delega sul federalismo fiscale (L. 5 maggio 2009, n. 42) ha rappresentato l'avvio di un processo di rilevante riassetto e riforma della struttura finanziaria del nostro Paese. Sull'attuazione della delega contenuta in tale provvedimento si concentrano infatti grandi speranze, al Nord come nel Mezzogiorno d'Italia: un'amministrazione pubblica più vicina ai cittadini e maggiormente efficiente, l'eliminazione degli sprechi nei programmi di spesa e, di conseguenza, il controllo della pressione fiscale complessiva. Per il Veneto, ancor di più, l'attuazione della legge delega dovrebbe garantire una maggiore autonomia fiscale, un riequilibrio favorevole di condizioni finanziarie storicamente penalizzanti, la possibilità di fare scelte più adatte al proprio territorio nell'ambito del rafforzamento della trasparenza e della responsabilità.
Sono molteplici, nella L. 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale e nella L. 196/2009 di riforma della contabilità pubblica, le opportunità finalizzate a perseguire la sostenibilità della finanza pubblica italiana attraverso una maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione:
  • superamento della spesa storica e applicazione dei costi standard: tra gli obiettivi principali della legge delega 42/2009 vi è il passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello dell'attribuzione di risorse basate sull'individuazione dei costi e dei fabbisogni standard necessari a garantire sull'intero territorio nazionale il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni per la sanità, l'assistenza sociale, l'istruzione e il trasporto pubblico locale in conto capitale. Si dovranno distinguere i fattori strutturali ed oggettivi di costo dalle spese dovute ad inefficienze nella fornitura dei servizi. Solo i primi sono finanziabili dalla solidarietà interregionale, mentre le seconde dovranno trovare copertura attraverso lo sforzo fiscale autonomo o attraverso la riduzione delle risorse destinate alle altre funzioni di spesa;
  • accrescimento dell'autonomia finanziaria: per le altre funzioni il legislatore ha riconosciuto che l'uniformità nei livelli o nelle caratteristiche dell'offerta dei servizi sul territorio non solo non è necessaria, ma può essere perfino controproducente rispetto all'esigenza di differenziare le politiche per tener conto di interessi specifici locali. La possibilità di soddisfare le preferenze locali e di disporre di risorse maggiormente riferibili al proprio territorio costituisce una delle ragioni per l'esistenza di diversi livelli di governo. Dunque, per questa tipologia di funzioni sono previsti sistemi di finanziamento fondati sulla capacità di gettito regionale con l'applicazione di una perequazione meno garantista e più adatta a consentire l'esercizio pieno dell'autonomia a livello locale e la responsabilizzazione dei governi;
  • maggiore flessibilità fiscale: l'attribuzione di ampi spazi di flessibilità fiscale in materia di IRAP e addizionale IRPEF (maggiore manovrabilità delle aliquote in aumento e in diminuzione, possibilità di introdurre deduzioni IRAP e detrazioni sull'addizionale IRPEF) permetterà alle Regioni di esercitare una politica fiscale attiva, in grado di incidere maggiormente sul tessuto economico e sociale regionale e di valorizzare maggiormente la sussidiarietà orizzontale;
  • incentivi a comportamenti virtuosi: la legge delega 42/2009 prefigura una serie di incentivi premiali a favore degli Enti che adottano azioni e comportamenti virtuosi. In particolare, saranno premiate le Regioni che adottano azioni per il contrasto all'evasione fiscale (è prevista l'attribuzione e il riversamento diretto alle Regioni, sulla base del principio di territorialità, del gettito derivante dall'attività di recupero fiscale riferita ai tributi propri derivati, alle addizionali e alle compartecipazioni a tributi erariali, in proporzione all'aliquota di compartecipazione attribuita) nonché le Regioni che annualmente rispettano il Patto per la Salute ed il Patto di Stabilità Interno;
  • misure sanzionatorie: contestualmente, la legge delega 42/2009 prevede una serie di sanzioni e misure stringenti a carico delle Regioni inadempienti. Il mancato mantenimento dell'equilibrio delle gestioni sanitarie condizionerà l'erogazione dei finanziamenti integrativi statali in materia sanitaria e attiverà un processo di diffida nei confronti della Regione che potrà portare alla rimodulazione automatica delle aliquote dell'IRAP e dell'addizionale regionale all'IRPEF nella misura massima prevista dalla normativa vigente, il blocco automatico del turn over del personale del Servizio Sanitario Regionale fino al 31 dicembre del secondo anno successivo, nonché il divieto di effettuare spese non obbligatorie nel medesimo periodo. Tale meccanismo sanzionatorio potrà inoltre condurre al "fallimento politico", con lo scioglimento del Consiglio regionale;
  • misure di coordinamento della finanza pubblica: infine, la legge 196/2009 definisce un nuovo ciclo di programmazione finanziaria all'interno del quale viene esplicitata la ripartizione dei principali obiettivi di finanza pubblica (indebitamento netto, saldo di cassa, debito e pressione fiscale) tra i sottosettori del conto delle amministrazioni pubbliche. In tal modo si rende esplicito il concorso di ciascun livello di governo alla manovra necessaria per il conseguimento degli obiettivi di risanamento dei conti pubblici.

Figura 1.4.1

Distribuzione percentuale per livelli di governo dei tributi propri. Italia - Anno 2008

Figura 1.4.2

Distribuzione percentuale per livelli di governo del totale spese consolidate. Italia - Anno 2008

Figura 1.4.3

Spesa del Bilancio dello Stato regionalizzata per abitante (euro) - Anno 2009

Figura 1.4.4

La perequazione del D.lgs. 56/2000 (valori in milioni di euro) - Anno 2008

Tabella 1.4.1

I trasferimenti statali di parte corrente alle Regioni (numeri indice: media nazionale=100) - Anno 2007

Figura 1.4.5

Composizione delle entrate correnti dei Comuni delle regioni a statuto ordinario (media regioni a statuto ordinario =100) - Anno 2008
 

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