Lo svantaggio
E' ben noto a tutti come la montagna sia un ambito limitante per le attività umane. In montagna la vita quotidiana è più difficile rispetto alla pianura, i collegamenti viari sono più difficili, i servizi erogati alla collettività sono più onerosi, le attività legate al primario sono poco produttive e scarsamente meccanizzabili. La politica montana avviata dal dopoguerra, grazie soprattutto alla disposizione costituzionale dell'art. 44
(Nota 6), ha sempre cercato di "compensare" queste difficoltà fornendo un sostegno affinché il livello di vita nelle aree montane fosse paragonabile a quello della pianura.
Nelle finalità della L. 1102/71 "Nuove norme per lo sviluppo della montagna" il legislatore pone l'accento su
"la valorizzazione delle zone montane favorendo la partecipazione delle popolazioni, attraverso le Comunità montane, alla predisposizione e alla attuazione dei programmi di sviluppo e dei piani territoriali dei rispettivi comprensori montani ai fini di una politica generale di riequilibrio economico".
Questo concetto di riequilibrio viene ribadito anche nella normativa comunitaria nella quale la definizione di zona svantaggiata per i territori montani evidenzia un
gap da recuperare nei confronti dei territori di pianura.
Nella direttiva 75/268/CEE
(Nota 7) del Consiglio all'art. 3 le zone di montagna sono
"caratterizzate da una notevole limitazione delle possibilità di utilizzazione delle terre e un notevole aumento dei costi dei lavori a causa dell'esistenza di condizioni climatiche molto difficili, dovute all'altitudine, che si traducono in un periodo vegetativo nettamente abbreviato, ovvero, ad un'altitudine inferiore, a causa dell'esistenza, nella maggior parte del territorio, di forti pendii che rendono impossibile la meccanizzazione o richiedono l'impiego di materiale speciale assai oneroso."
La necessità di riequilibrare gli svantaggi della montagna sono stati recentemente rievocati nel Trattato di Lisbona nel quale al concetto di coesione economica e sociale è stato affiancato il concetto di coesione territoriale dove viene data una particolare attenzione alle zone di montagna
(Nota 8).
In effetti la montagna, pur vedendosi riconosciuto negli ultimi anni una qualifica di risorsa per tutta la collettività, indubbiamente soffre di uno svantaggio geografico permanente che determina un differenziale di costi.
Questo svantaggio dipende sia da fattori fisici, quali la morfologia e pedologia dei luoghi, le condizioni climatiche, il rischio idrogeologico e ambientale, sia da fattori antropici a carattere semi-permanente quali le limitate dimensioni delle comunità locali, la loro dispersione territoriale e il loro maggior grado di isolamento, ovvero la minore accessibilità ai principali assi territoriali dello sviluppo economico.
In una recente pubblicazione dell'EIM (Ente Italiano della Montagna
(Nota 9)) è stato affrontato in modo oggettivo il problema dei maggiori costi che presenta la montagna, intendendo con ciò gli svantaggi che le famiglie e gli operatori insediati in tali territori sopportano nell'esercizio delle loro attività, a confronto con quelli che in montagna non sono: si tratta dunque di svantaggi relativi.
Lo studio prende in esame una serie di attività suscettibili di perdita di efficienza a causa di fattori esterni: la produzione di latte, la depurazione delle acque, la raccolta dei rifiuti solidi urbani, il trasporto pubblico locale ecc. in tre aree montane quali la Valle d'Aosta, il Molise e la provincia di Trento.
Al di là della complessità dell'analisi, nella quale talvolta è difficile scindere le variabili legate alla morfologia del territorio, traspare un oggettivo svantaggio della montagna.
Nel caso della produzione del latte, per esempio, le aziende della montagna alpina presentano costi espliciti unitari superiori di circa il 34% rispetto alle aziende di collina e di pianura arrivando ad un +74% per le spese per la meccanizzazione e un +70% per le spese energetiche per l'allevamento. Nel caso delle spese di trasporto pubblico locale l'incidenza montagna intesa come incremento dei costi unitari è del +18,3%.
Questi dati confermano in modo oggettivo lo svantaggio della montagna che può giustificare l'abbandono e la marginalizzazione del territorio.
L'abbandono
Uno dei principali effetti dello svantaggio della montagna è l'abbandono che ha assunto dal dopoguerra livelli preoccupanti.
Lo spopolamento delle aree montane è ormai un fenomeno noto, come descritto in precedenza, che ha determinato l'avvio di una politica montana. Meno nota è l'entità dello spopolamento nel suo complesso nonché la sua diffusione territoriale e la sua dinamica.
Le aree montane
(Nota 10) hanno subito, dal censimento della popolazione del 1951, una continua riduzione della popolazione, molto evidente fino agli anni 70, ma che nell'ultimo censimento del 2001 ha invertito la tendenza evidenziando un lieve incremento.
Se articoliamo questa analisi in base alle località abitate (centri urbani, nuclei abitati e case sparse) appare subito evidente come il fenomeno dello spopolamento all'interno delle aree montane non sia per nulla omogeneo. Nei centri urbani, infatti, non c'è mai stato spopolamento (almeno per i centri più grossi); anzi essi hanno agito da poli attrattori nei confronti dei nuclei abitati e delle case sparse facendo apparire il fenomeno dell'abbandono delle frazioni meno grave di quanto possa apparire da un'analisi generale.
Dal 1971, a fronte di un incremento della popolazione dei centri urbani del 12%, si registra un esodo dai nuclei abitati pari al 74%. E' proprio nel decennio 1971-1981 che nelle aree montane si assiste ad un massiccio abbandono delle aree più marginali con una spiccata concentrazione nei centri urbani. Questo ha comportato un forte abbandono delle attività agricole, se consideriamo che i nuclei abitati rappresentano le località più rurali, evidenziato da una riduzione della S.A.U. (Superficie Agricola Utilizzata) di oltre il 36% nel periodo 1970-2000.
(Figura 14.2.1)
L'abbandono dei nuclei abitati non è comunque uniforme in tutto il territorio montano, ci sono vari parametri che intervengono nel rendere tale fenomeno disomogeneo, legati prevalentemente alla morfologia del territorio o alla vicinanza di grossi agglomerati urbani. Nell'alto bellunese (confrontando i dati degli ultimi due censimenti: 1991 e 2001) si riscontrano, in effetti, le situazioni più critiche, dove l'altitudine e le asperità del territorio rendono difficile vivere nelle aree periferiche del territorio comunale; dall'altra parte, le aree montane confinanti con la pianura vedono invece un graduale e timido ripopolamento dei nuclei abitati legato prevalentemente ad un allargamento delle corone urbane che vanno ad occupare i primi rilievi urbani.
Questa situazione è in sintonia con l'andamento demografico dell'intero arco alpino per il quale, per un periodo di tempo molto più lungo (1870-1991), si ha la seguente suddivisione:
- il 43% di tutti i comuni alpini ha perso in media la metà dei propri abitanti;
- il 10% dei comuni ha conservato la popolazione censita nel secolo scorso;
- il 47% di tutti i comuni alpini, nello stesso periodo, ha visto aumentare più del doppio il proprio numero di abitanti.
Anche a livello europeo si assiste a questa dicotomia: da un lato i comuni in cui la popolazione ha subito un calo drastico, con un vero e proprio esodo degli abitanti, e dall'altra quelli in cui la popolazione ha fatto segnare una crescita esplosiva.
(Tabella 14.2.1)
I dati mostrano in maniera evidente l'esiguità della popolazione nei nuclei abitati, soprattutto se viene messa in relazione con la loro numerosità dalla quale risulta che il numero medio di abitanti per nucleo abitato è di appena 33 unità, ma oltre la metà non arriva a 25 abitanti.
Si tratta di comunità estremamente piccole destinate molto probabilmente a scomparire nel volgere di qualche decennio anche perché sono costitute da popolazione prevalentemente anziana (nella provincia di Belluno il 30% degli abitanti nei nuclei abitati ha un'età media superiore a 60 anni).
Analizzando poi la distribuzione territoriale dei nuclei abitati si nota una concentrazione solo in determinate aree. Nell'alto bellunese, per esempio, considerando le Comunità montane di Comelico e Sappada, della Valle del Boite, e del Centro Cadore si arriva ad appena 39 nuclei abitati a fronte di alcune Comunità montane, come quella della Lessinia, dove il numero di queste località è di 239. E' facile ipotizzare che queste differenze siano dovute prevalentemente ad un diverso contesto territoriale in cui le quote più elevate e le pendenze più accentuate rendono difficile la vita. Dall'altro lato, però, si evidenzia come in determinati contesti, come la Lessinia, vi sia ancora un territorio ancora vitale.
Facendo una ulteriore analisi in relazione all'altimetria dei nuclei abitati risulta che 553 località (poco meno della metà) si trovano ad una quota superiore a 600 m, per un totale di oltre 15.000 abitanti. Questo dato mette in evidenza, pur nella sua esiguità, che a quote relativamente elevate permane tuttavia una discreta vitalità.
Le difficoltà di individuare delle strategie
Questa sintetica analisi della situazione delle frazioni nelle aree montane fa emergere una realtà poco conosciuta o, comunque, delle sfaccettature di un fenomeno, quale lo spopolamento e l'abbandono delle aree montane, ritenuto quasi ormai insito nella realtà territoriale montana.
La montagna è invece una realtà complessa e articolata, una realtà a "macchia di leopardo" come è stata definita dal rapporto Censis-Uncem del 2002,
"una montagna molto più difficile da descrivere e da interpretare come area "a sé stante", anche perché gli attuali criteri di classificazione, conferendo ad un numero di comuni particolarmente elevato lo status di "comune montano" o "parzialmente montano", finiscono per individuare un macroaggregato così ampio da appiattire molte delle differenze e specificità della montagna." (Censis-Uncem 2002).
L'analisi mette in evidenza come il fenomeno dell'abbandono della montagna sia un processo per nulla omogeneo ma articolato e complesso, in cui i centri abitati hanno avuto il ruolo di poli attrattori per le aree più marginali e periferiche del territorio montano.
Lo spopolamento non avviene solo tra montagna e pianura, tra aree deboli e aree forti, ma avviene anche all'interno del territorio montano, tra aree periferiche e marginali, quali appunto i nuclei abitati, e i centri urbani, costituiti prevalentemente dal capoluogo del comune.
Questo processo ha determinato conseguentemente una contrazione delle attività agricole tradizionali e con esse una perdita dei valori e dei saperi che rappresentano una importante risorsa per l'ambiente montano.
Lo scenario fa emergere degli interrogativi sulle strategie di intervento, sulle possibilità di garantire un futuro a queste piccole realtà di frazione oppure sulla presa d'atto della loro inevitabile e fisiologica estinzione.
Si tratta di questioni molto attuali, dove la progressiva riduzione dei trasferimenti erariali spingono gli enti locali verso strategie di intervento molto puntuali e localizzate dove la conoscenza della realtà territoriale diventa requisito fondamentale per una adeguata pianificazione delle risorse finanziarie.
Pertanto, "un approccio politico unificato e indiscriminato ai problemi delle Alpi, tanto nell'incentivazione economica quanto nella salvaguardia ambientale, nella politica culturale o nella politica locale, sarebbe sicuramente inefficace, poiché non potrebbe tener conto di queste differenze reali"
(Nota 11).
Individuare delle strategie per affrontare questo problema appare complesso anche perché fin dal dopoguerra si è cercato di arginare lo spopolamento montano senza ottenere risultati soddisfacenti.
Le azioni poste in essere dalla politica montana negli ultimi decenni hanno avuto come obiettivo lo sviluppo economico; provvedere ad un riequilibrio economico e sociale con i territori di pianura. In sostanza l'intervento è sempre stato finalizzato a garantire e sostenere servizi e attività economiche avendo come modello realtà territoriali ricche. La montagna per sua natura è invece limitante sia per l'insediamento umano e sia per lo svolgimento di attività economiche divenendo una sorta di paradigma per lo sviluppo sostenibile.
Gli usi civici. Una gestione sostenibile della montagna
Le problematiche legate all'individuazione di strategie per garantire uno sviluppo al territorio montano sono espresse dalla difficoltà di rendere concrete le specificità della montagna. Il riconoscimento identitario delle popolazioni locali rappresenta sicuramente un elemento fondamentale che può trovare una concreta applicazione nella gestione delle terre collettive.
L'attaccamento al territorio, più di ogni altra tradizione è considerato elemento caratterizzante della cultura della società di montagna. Porre l'accento sull'aspetto rurale non significa un semplice ritorno al passato oppure una glorificazione romantica dell'ingegnosità popolare ma rappresenta un punto di partenza importantissimo al fine di identificare le potenzialità e i limiti dell'ambiente naturale.
I terreni di uso civico sono tutti quei terreni che i componenti di una collettività delimitata territorialmente hanno il diritto di utilizzare per il soddisfacimento dei loro bisogni essenziali.
I terreni di uso civico possono essere costituiti da terre appartenenti alla collettività medesima ovvero a terzi (privati).
Il godimento di tali terreni da parte della collettività interessata si esplica attraverso l'esercizio di usi civici quali il pascolo, il legnatico, la semina, il vagantivo (consistente nel diritto di vagare per terreni paludosi al fine di raccogliere canne, erbe e paglie, nonchè di cacciare e pescare), lo stramatico (consistente nel diritto di raccogliere erba secca e foglie per la lettiera degli animali).
L'accertamento dell'esistenza e della consistenza delle terre assoggettate al regime giuridico degli usi civici viene effettuato, a seguito di ricerche storiche, giuridiche e catastali, con provvedimento amministrativo o giurisdizionale.
I provvedimenti di accertamento delle terre di uso civico individuano tali terreni su base catastale.
Sul totale dei 581 Comuni del Veneto, per 270 è stata accertata l'inesistenza di terreni di uso civico. Per i rimanenti 311 Comuni la situazione relativa all'accertamento delle terre di uso civico è la seguente:
- 46 Comuni hanno completato le operazioni di verifica e accertamento
- 99 Comuni hanno attivato le operazioni di verifica o accertamento
- 156 Comuni che non hanno ancora promosso alcuna operazione
- 10 Comuni per i quali è stato effettuato un aggiornamento catastale dei terreni elencati in Decreti Commissariali.
Per i 46 comuni per i quali sono state completate le operazioni di verifica e accertamento la superficie soggetta ad uso civico è di 57.992 ha. Gran parte di questi comuni sono montani o parzialmente montani (35) e mediamente la loro superficie soggetta ad uso civico è del 34% rispetto alla superficie comunale con punte di quasi il 90% (ad esempio per il comune di Enego) contro una percentuale media di appena il 4% per i rimanenti 11 comuni di pianura.
Appare evidente come la diffusione di superfici soggette agli usi civici sia prettamente radicata nelle aree montane.
L'insegnamento che la montagna offre è duplice. Da una parte un "criterio fondato su postulati etici di solidarietà sincrona con la generazione presente e di solidarietà diacronica con le generazioni future. Il primo postulato rinvia alla problematica dell'equo accesso alle risorse; il secondo obbliga ad allungare la prospettiva temporale delle decisioni oltre i tempi previsti da una razionalità strettamente produttivista che spinge le imprese ad internalizzare il profitto e ad esternalizzare i costi sociali ed ecologici della produzione. In secondo luogo, l'insegnamento della montagna è un principio di solidarietà, nel senso che l'ambiente montano va inteso come potenziale di risorse che possono essere costantemente al servizio dell'umanità."
(Nota 12)
Altre forme di sostenibilità montana
Ad oggi la superficie boscata veneta ha superato valori di 400 mila ettari, pari al 4,3% dell'intera macchia boscata nazionale. Nonostante la maggior parte di essa, nella nostra regione, sia destinata ad arboricoltura da legno vale la pena sottolineare l'importanza nell'economia montana apportata dai castagneti, nonostante occupino solo il 4% della superficie forestale, sia per il settore alimentare che per quello energetico, oltre che per la costruzione di manufatti impiegati nell'attività agricola, come botti, pali, travi.
Le prime fonti che parlano della coltivazione del castagno risalgono addirittura al periodo medievale; nel corso dei secoli si sono alternate fasi di abbandono a fasi di intenso utilizzo della risorsa bosco. Storicamente infatti ettari di castagneti venivano goduti comunitariamente dalla popolazione ma, dal Settecento e nel secolo successivo, con il passaggio da boschi comuni a patrimonio dello Stato, si è assistito ad un lento abbandono della castanicoltura.
L'area geografica di produzione delle castagne e marroni si rifà alle zone pedemontane del Trevigiano e Veronese dove la pianta del castagno trova il suo habitat ideale. Sono stati riconosciuti due prodotti a marchio I.G.P.: Marrone del Monfenera e Marrone di Combai, e addirittura uno a marchio D.O.P.: il Marrone di San Zeno.
I castagneti veneti sono utilizzati principalmente per la produzione di massa legnosa da destinare all'industria del legno od ad uso energetico e solo il 10% dell'ettarato sembra essere destinato all'alimentazione.
La produzione veneta di marroni I.G.P. negli ultimi tempi è seriamente minacciata dalla vespa Dryocosmus Kuriphilus (cinipide galligeno). L'attacco è partito nel 2006 nell'area boschiva della destra Piave allargandosi, due anni dopo, anche all'area della sinistra Piave provocando gravi danni alla produzione. Anche quest'anno si prevede un calo del 60% della produzione dovuto sostanzialmente all'attacco di quest'insetto.
Attraverso il Servizio Fitosanitario della Regione Veneto sono state avviate le metodologie di lotta biologica mediante l'utilizzo di predatori naturali. Si calcola che l'attività dell'insetto antagonista entrerà a regime nel giro di cinque anni, consentendo di salvaguardare in seguito gran parte della produzione.
Non solo marroni però: la montagna è sempre stato un territorio considerato depresso per le sue scomodità nei servizi, ma allo stesso tempo in grado di fornire specialità agro-alimentari dal peso rilevante, molti delle quali rientranti nell'elenco dei prodotti DOP o Presidii Slow Food.
I marchi DOP e Slow Food sul territorio testimoniano la presenza sia di fattori naturali caratteristici, quali clima, suolo, caratteristiche ambientali, sia di tecniche produttive tradizionali; l'insieme dei fattori naturali e delle tecniche produttive permette di ottenere prodotti che, al di fuori dell'area di produzione evidenziata, risultano inimitabili. Quest'anno il Veneto è arrivato a quota 17 prodotti DOP; di essi ben il 40% sono prodotti in zona montana, mentre dei 13 prodotti regionali rientranti nell'elenco Presidii Slow Food ben 7 sono caratteristici dei territori scoscesi.
Considerando che la superficie in quota rappresenta solo il 29% dell'intera superficie regionale, si capisce quanto sia elevato il potenziale qualitativo di queste aree.
(Tabella 14.2.2)
L'elenco DOP regionale è stato recentemente aggiornato con l'inserimento di due prodotti tipici d'alta quota: il miele delle Dolomiti bellunesi ed il formaggio Piave.
Il miele delle Dolomiti bellunesi viene prodotto nell'intero territorio della provincia di Belluno in sei tipologie di nettare, a seconda delle specie floristiche utilizzate. L'apicoltura ha sempre caratterizzato la montagna bellunese grazie alla presenza di una flora alpina ricca di specie dall'elevato interesse apistico. A garanzia della qualità di questo prodotto sta l'adesione di molti apicoltori residenti nell'area del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi al circuito "Carta di Qualità".
Il miele delle Dolomiti bellunesi ha ricevuto la DOP l'11 marzo di quest'anno. Questo riconoscimento non fa altro che testimoniare la presenza di un legame indissolubile tra l'attività agricola ed il territorio.
Il 21 maggio dell'anno scorso ha ottenuto la DOP anche uno dei formaggi più rappresentativi della Regione Veneto: il Piave. Il nome deriva dall'omonimo fiume che nasce nella parte settentrionale della provincia di Belluno ed arriva all'incontro con la pianura in provincia di Treviso dopo un tortuoso attraversamento del territorio provinciale. Nessun altro nome potrebbe meglio indicare il più importante formaggio dell'area bellunese.
Il formaggio Piave ha storia antica: l'8 gennaio del 1972 nasce il primo caseificio per opera del parroco del paese. L'obiettivo prefissato era quello di lavorare il latte presso un unico impianto, sottraendolo alla speculazione, per essere venduto ai soci ed ai consumatori come prodotto di qualità.
Le materie prime impiegate ed i processi di lavorazione adottati sono fondamentali per ottenere un buon prodotto dal punto di vista nutrizionale ed organolettico. La materia prima è sicuramente il latte prodotto nelle malghe bellunesi dove predomina la razza bovina Bruna che presenta caratteri di rusticità, per cui è molto adatta ad un ambiente non ottimale come quello montano, e che produce un latte di qualità particolarmente favorevole alla caseificazione.
Come per le materie prime, anche il processo di lavorazione e stagionatura segue metodologie tradizionali.
La valenza delle tipicità legate ad un determinato territorio fanno si che questo ne risulti valorizzato, creando effetti positivi su chi lo abita tanto da riuscire ad invertire l'esodo della popolazione. I marchi assumono quindi importanza fondamentale per quei territori marginali, quali quelli montani, da sempre soggetti più di altri allo spopolamento. È il caso anche del fagiolo di Lamon: proprio lo scorso marzo si sono presentati al Consorzio di Tutela due nuovi coltivatori del Trentino Alto Adige, attirati dalle potenzialità del legume dopo essere stati rimasti estasiati dal suo indice di qualità.
I fagioli, originari del Messico, sono stati importati nel territorio bellunese attorno al 1530 per merito del frate bellunese Giovan Pietro Dalle Fosse, funzionario del Papa. La sua introduzione non fu da subito facile in Italia per le credenze legate alla sua scarsa digeribilità. La leguminosa riuscì ad imporsi nelle vallate bellunesi perché permetteva agli agricoltori la consociazione con altre specie vegetali, ottenendo più redditi da uno stesso appezzamento.
È nel 1700 che il fagiolo di Lamon, a quell'epoca chiamato Feltrino, viene valorizzato identificandolo come il migliore della provincia, fino ad arrivare ai giorni nostri con l'istituzione di un Consorzio di Tutela nel 1993 che ha l'obiettivo di difenderne tipicità, quantità e qualità.
Il primo luglio del 1996 il fagiolo di Lamon ottiene il marchio di Identificazione Geografica Protetta, che ne fissa la zona di produzione nella sola provincia di Belluno.
La transumanza
Il termine transumanza indica l'antica usanza consistente nel trasportare, transumare appunto, gli animali dalla pianura verso gli alpeggi montani, e viceversa. Questo trasferimento, che avveniva all'inizio della stagione calda alla ricerca di zone fresche dove poter trovare dei pascoli verdi per il bestiame ovino, prendeva il nome di alpeggio. All'inizio della stagione fredda si transumava nuovamente, verso la pianura più calda, e ciò prendeva il nome di monticazione. Il viaggio durava giorni e si effettuavano soste in luoghi prestabiliti, noti come "stazioni di posta".
Le località tipiche della transumanza sono riconducibili a zone alpine e prealpine; tra di esse l'Altopiano di Asiago e la Lessinia.
Tale usanza condizionava pesantemente la vita del pastore, che non poteva contare sulla presenza delle strutture tipiche dell'allevamento moderno, quali la stalla e gli impianti di foraggiatura, mungitura e refrigerazione del latte. Dopo un periodo di abbandono di tale tecnica, al giorno d'oggi sta "tornando di moda", soprattutto nel settore bovino da latte. Le principali motivazioni di questo ritorno trovano spiegazione nei vantaggi legati al benessere bovino, oltre che all'economia in azienda dei foraggi. In effetti, data la difficoltà nell'organizzare le operazioni di mungitura, il più delle volte l'alpeggio viene destinato ai capi non in produzione, quali manze o vacche gravide, sfruttando la qualità del pascolo con beneficio per la crescita degli animali, e al tempo stesso facendo economia nei costi di alimentazione.
Oggi il trasferimento degli animali avviene spesso utilizzando appositi camion, almeno là dove questo è possibile ed economicamente conveniente.