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7.3 - Diversità di genere, disparità di percorsi

L'eliminazione delle disparità tra uomini e donne nella vita economica, politica, civile e sociale favorisce la coesione, l'inclusione nonché la crescita economica. Nonostante i progressi compiuti negli anni, permane ancora un persistente svantaggio di genere in molti aspetti delle società europee contemporanee. Su questi temi si confrontano i Paesi dell'Unione: la Commissione europea ne ha definito le priorità fino al 2010 tramite l'adozione di una tabella di marcia per la parità tra donne e uomini, cui fa seguito l'approvazione del Patto europeo per la parità di genere nel marzo 2006 da parte del Consiglio europeo di Bruxelles. Tre sono i grandi settori di intervento evidenziati: colmare i divari e combattere gli stereotipi di genere nel mercato del lavoro, promuovere un migliore equilibrio tra vita professionale e familiare per tutti, rafforzare infine la governance tramite l'integrazione di genere e il miglior monitoraggio degli effetti delle politiche per la parità.

Inizio Pagina  Essere lavoratrici

Il divario occupazionale fra uomini e donne è andato riducendosi nella generalità dei Paesi dell'Unione, pur rimanendo significativo: per le persone di 15-64 anni a livello europeo la differenza dei tassi di occupazione è di 15 punti percentuali (dato UE25), assai maggiore è il gap di genere per l'Italia (24 punti percentuali) e per il Veneto (23,3 punti percentuali). Al di là del dato generale, comunque in costante miglioramento, permangono delle differenze strutturali a svantaggio delle donne, spesso derivanti da scelte stereotipate dei settori dell'istruzione, della formazione e dell'orientamento professionale. L'occupazione interessa quindi ancora principalmente settori di attività già tradizionalmente femminili e spesso qualifiche meno valorizzate. A ciò si aggiunge una segregazione femminile nel mercato del lavoro di tipo verticale, in quanto la presenza delle donne non riesce ad emergere ancora adeguatamente nei posti di responsabilità pubblici e privati; a fronte di uno stesso livello di preparazione, inoltre, le possibilità di carriera professionale sono più difficili e limitate, così come permane una significativa differenza nel trattamento retributivo.
Come risulta anche dalla più recente indagine sulla condizione occupazionale dei laureati svolta dal Consorzio Interuniversitario Almalaurea nel 2006, pur essendo maggiore il numero di donne laureate, l'analisi di genere rivela alcune disparità sia nella condizione di lavoro che nelle caratteristiche dell'occupazione trovata. Ad un anno dalla laurea sono più numerose le donne ancora in cerca di lavoro rispetto agli uomini, sia in Italia che nella nostra regione. Con riferimento ai laureati del vecchio ordinamento, nel 2006 in Italia lavorano non più del 49% delle neolaureate contro il 57% dei maschi che hanno completato gli studi universitari; sebbene i livelli occupazionali per entrambi i sessi siano più favorevoli in Veneto, permane comunque una certa disparità di genere con ben oltre il 64% di donne occupate contro il 67% degli uomini. Se si considerano, invece, le lauree di primo livello post-riforma, si registra tra le donne una maggiore propensione a un inserimento lavorativo immediato, mentre tra i ragazzi più diffusa è la percentuale di quanti si iscrivono alle lauree specialistiche: in Veneto il 44% dei neolaureati prosegue gli studi a tempo pieno contro il 38% delle donne. Una parziale spiegazione si può trovare nelle differenze di genere nella scelta dei tipi di corsi di laurea: ad esempio Scienze della Formazione, facoltà preferita soprattutto dalle ragazze, consente di concludere gli studi anche al conseguimento della laurea triennale, già sufficiente teoricamente per trovare un impiego; Ingegneria, invece, scelta prevalentemente dai ragazzi, risulta più efficace per trovare il lavoro desiderato solo una volta concluso l'intero ciclo di studi di cinque anni.
Tuttavia le condizioni lavorative migliorano poi con il passare degli anni: meno del 7% delle donne laureate, a tre anni dal conseguimento del titolo di studio, cerca ancora un impiego, con un gap negativo di solo un punto percentuale rispetto agli uomini, e 81 su 100 sono occupate. (Figura 7.3.1)
Ulteriormente discriminante anche la tipologia contrattuale con la quale si trovano inserite nel mercato lavorativo le neolaureate. In linea con i dati nazionali, ad un anno dalla laurea, al 46% dei laureati maschi, che risultano occupati nel mercato lavorativo veneto, hanno offerto un lavoro stabile, mentre alle donne solo nel 35% dei casi; tale divario rimane purtroppo evidente anche col passare degli anni, infatti dopo cinque anni la quota di giovani occupati stabilmente è superiore ancora di dieci punti percentuali rispetto a quella delle donne. Come in Italia, anche nella nostra regione per il gentil sesso sono di gran lunga più usate per i primi inserimenti lavorativi le forme contrattuali atipiche e flessibili (nel 52% dei casi).

Inizio Pagina  Un lavoro soddisfacente

A distanza di un anno dal conseguimento del titolo di studio, in linea con quanto accade a livello nazionale, tra gli occupati nel mercato lavorativo veneto, tra quanti hanno concluso un corso di studi di vecchio ordinamento ad oltre il 39% dei laureati di sesso maschile hanno offerto un lavoro ad alta o media qualificazione se non già dirigenziale, contro il dato femminile che sfiora appena il 29%. Le disparità nel mercato veneto si attenuano se si considerano i neolaureati di primo livello post-riforma: ad occupare le posizioni più alte rimangono sempre gli uomini, ma la differenza fra i generi diminuisce a poco più di un punto percentuale (33% contro 32%); è pur vero, però, che in queste percentuali non rientrano quei laureati, principalmente maschi, che proseguono anche con il secondo livello di studi per poter aspirare ad impieghi altamente qualificanti, come i laureati in Ingegneria. Numerose, invece, le donne che decidono di intraprendere inizialmente la carriera dell'insegnamento, strada che nel corso degli anni viene però un po' abbandonata: spesso si inizia con delle supplenze nella speranza di ottenere col tempo la cattedra, ma dopo un po' di anni, vedendo lontana questa possibilità, si cerca un altro tipo di lavoro.
Anche a distanza di cinque anni, la crescita professionale delle donne, pur facendo leggermente diminuire il gap con gli uomini nelle posizioni lavorative più alte, non è sufficiente a colmare il divario di genere. (Figura 7.3.2)
Ma se complessivamente emerge una situazione ancora sfavorevole per le donne nel mercato del lavoro e l'effettiva esistenza di ostacoli che impediscono loro di far valere interamente il loro potenziale, in compenso risulta, comunque, piuttosto buona la valutazione espressa dalle occupate sulle proprie condizioni lavorative. Infatti, secondo l'indice di qualità del lavoro, considerato anche nel capitolo quattro del rapporto, il mercato lavorativo veneto sembra offrire alla maggior parte delle laureate condizioni lavorative adeguate e soddisfacenti: a tre anni dalla laurea nel 50% dei casi il livello della qualità espressa per le donne supera il punteggio di 77 su un massimo di 100, solo quattro punti in meno del giudizio dichiarato dagli uomini. Sebbene non siano pochi ancora gli squilibri di genere esistenti, la qualità del lavoro percepita dalle donne è ugualmente buona, segno forse di aspettative limitate e di una mentalità che vede ancora la realizzazione della donna imprescindibile dal ruolo familiare.

Inizio Pagina  Il differenziale retributivo

La differenza di trattamento retributivo è il riflesso di una moltitudine di disuguaglianze fra i sessi, quali la segregazione occupazionale e settoriale, la differenze nella formazione e i meccanismi retributivi. L'esistenza di tali differenze è presente in maniera più o meno evidente in tutti i mercati europei del lavoro e con questa consapevolezza uno degli obiettivi della strategia occupazionale europea è appunto quello di ridurre questo divario entro il 2010. Al 2005 in Europa le donne occupate vengono pagate il 15% in meno degli uomini, appena due punti percentuali in meno di dieci anni prima. L'Italia registra un divario fra i più contenuti, il 9%, a fronte di nazioni che raggiungono e anche superano il 20% (ad esempio Germania, Regno Unito, Slovacchia, Finlandia, Estonia e Cipro). Il nostro Paese quindi sembra mostrare una maggiore equità nelle retribuzioni: tuttavia il mercato del lavoro italiano occupa relativamente poche donne e, come in altri Stati dell'Unione con questo contesto occupazionale, si osserva come bassi salari potenziali spesso scoraggino nelle donne la scelta di lavorare, in favore di una maggiore presenza in famiglia, vista la scarsa convenienza economica.
Un confronto fra le regioni italiane si può effettuare mediante l'indagine sul reddito e le condizioni di vita condotta dall'Istat presso le famiglie, mettendo in opportuna evidenza che, per le definizioni e le metodologie adottate, i risultati non sono direttamente paragonabili all'indicatore Eurostat prima riportato. In base ai redditi individuali netti da lavoro, così come dichiarati dai soggetti intervistati, in Veneto nel 2003 una donna prende in media all'anno il 31% in meno di un uomo, con un divario superiore a quanto si osserva a livello nazionale (27%). Anche la Lombardia, l'Emilia-Romagna e la Toscana presentano divari analoghi o leggermente superiori.
E certo non può essere diversa la situazione retributiva anche tra i lavoratori più giovani e laureati: come a livello nazionale, anche nel Veneto le donne ricevono complessivamente meno soldi degli uomini. A dodici mesi dalla laurea, il guadagno mensile netto delle laureate del vecchio ordinamento, che in questo periodo sono riuscite a trovare un lavoro nella nostra regione, è al di sotto dei 1.000 euro, più di duecento euro in meno del primo stipendio di un ragazzo da poco laureato. E la differenza di retribuzione si mantiene anche con il passare del tempo, tanto cha a cinque anni dalla laurea le donne non solo guadagnano mediamente oltre quattrocento euro in meno, ma la rapidità di crescita della loro paga è anche ben più lenta di quella degli uomini. Discriminazione nella discriminazione: rispetto ad altri Paesi europei, il livello degli stipendi italiani è piuttosto basso, soprattutto nel contesto più generale degli obiettivi di Lisbona che mirano tra l'altro a creare quel personale, uomini e donne che siano, aperto alle nuove esigenze del mercato lavorativo, altamente qualificato e in grado di creare e utilizzare efficacemente le nuove tecnologie. (Figura 7.3.3)

Inizio Pagina  Essere imprenditrici

La lotta alla discriminazione risulta ancora più necessaria quando si analizza la situazione femminile nei posti di responsabilità, ove si osserva una minore rappresentanza delle donne nei vari settori decisionali siano essi economici o politici. La promozione dell'emancipazione delle donne nella vita politica ed economica e dell'imprenditorialità femminile sono fra le priorità del Patto europeo per la parità di genere.
In una recente indagine europea (Nota 1) condotta dall'Eurostat sulle nuove attività imprenditoriali di successo, ovvero quelle imprese nate nel 2002 e ancora attive nel 2005 sotto la guida del proprio fondatore, il 28,1% delle 337.919 imprese analizzate nei quindici Paesi aderenti all'indagine sono fondate e guidate da donne. La media italiana è del 25,2%, collocando l'Italia al 9° posto in una graduatoria che vede primeggiare proprio Bulgaria e Romania, i due Paesi di più recente acquisizione nell'Unione europea; nel Veneto solo il 17,5% è guidato da una donna, penultima fra le regioni italiane e seguita solo dalle Marche.
Sono comunque imprenditori di successo, visto che dopo tre anni dalla fondazione sono ancora alla guida delle proprie imprese. Fra i fattori ritenuti strategici per il successo, oltre a caratteristiche personali e professionali, un ruolo importante va riconosciuto alle motivazioni che hanno spinto ad intraprendere l'avventura imprenditoriale. Sia per gli uomini che per le donne prevale il desiderio di lavorare in proprio, per gli italiani più sentito rispetto alla media dei colleghi europei. Tale divario è particolarmente forte nelle donne: infatti il desiderio di lavorare in proprio è presente nell'83,2% delle imprenditrici italiane, contro il 73,6% delle colleghe europee. Le donne italiane risultano molto motivate dalla prospettiva di ulteriori guadagni, anche più di quanto lo siano gli uomini e le imprenditrici europee. Ma le donne che decidono di fondare un'impresa frequentemente compiono una vera e propria scelta strategica e l'attività imprenditoriale viene intrapresa anche come un modo per evitare situazioni di disoccupazione (55% contro il 47,9% degli uomini), peraltro in generale più diffuse tra le donne. Inoltre le imprenditrici, e più spesso le europee rispetto alle italiane, ritengono che l'impresa sia anche una strada funzionale per la conciliazione del lavoro e della vita privata, non solo familiare, ma anche nel senso di tramutare un hobby in una professione. Maggiormente sentita dagli imprenditori italiani, invece, la voglia di realizzare un'idea innovativa e sono più le donne che si lanciano in questa avventura (43,4% contro il 41,6% degli uomini). Nella media dei Paesi europei succede invece l'inverso. L'impresa come prosecuzione di una tradizione familiare, infine, è una motivazione non differenziata per genere ed è più sentita dagli imprenditori italiani rispetto alla media dei Paesi europei aderenti all'indagine. (Figura 7.3.4)
A livello regionale non sono disponibili dati disaggregati per genere; tuttavia, è interessante notare alcune differenze nelle principali motivazioni degli imprenditori veneti che sentono in misura maggiore rispetto alla media nazionale il desiderio di lavorare in proprio (83,2%), di percepire ulteriori guadagni (75,8%) e di sfuggire ad un lavoro insoddisfacente (49,4%). Molto meno sentite, invece, sono la spinta a realizzare un'idea innovativa (37%) e il cercare nell'impresa un salvagente contro la disoccupazione (28,5%), peraltro in Veneto a livelli minimi.
Il quadro offerto dall'analisi del registro ditte delle Camere di Commercio non è certo confortante per l'imprenditoria femminile italiana e, in particolare, veneta. Sono 97.441 nel 2006 le imprese femminili (Nota 2) attive nel Veneto, il 21,2% del totale, mentre in Italia la quota è un po' più alta, il 23,9%. Rispetto alla totalità delle imprese, risultano di più recente costituzione: nella nostra regione quasi il 40% di esse è nato dopo il 1999 mentre si scende al 37,3% se si considera l'insieme di tutte le imprese; percentuali simili si osservano a livello nazionale. Vi sono segnali poi che le imprese femminili hanno una vita mediamente più breve: se si considerano i dati delle imprese che hanno cessato la loro attività nel 2006, quelle femminili risultano di più recente costituzione con il 44,8% nato dopo il 1999 contro il 41,8% del totale. (Figura 7.3.5)
La conduzione e dirigenza delle imprese mostra come il divario di genere nella copertura di cariche societarie sia piuttosto elevato. Pur essendo il Veneto fra le prime regioni italiane come quota di imprese (8,9%) sul totale nazionale, poco diffusa risulta la presenza femminile nella dirigenza imprenditoriale locale, collocando il Veneto al 17° posto fra le regioni italiane. Infatti l'insieme delle cariche societarie, espresse dal quasi mezzo milione di imprese venete attive al 2006, è ricoperto solo per il 25,2% da donne. Divario ancora più evidente per la Lombardia, prima come tessuto imprenditoriale e 19a come quota femminile. La media nazionale non è comunque molto più elevata (26,6%). (Figura 7.3.6)
Focalizzando l'attenzione sui titolari d'impresa, il divario di genere risulta più significativo: le 63.377 titolari venete rappresentano il 22% della totalità regionale, contro il 25,5% della media italiana; in Lombardia la quota è ancora più esigua (21,4%). Una parziale determinante di tale quota sembra essere la struttura del settore produttivo. Le donne titolari d'impresa in Italia si concentrano nel commercio (34%), nell'agricoltura (30%), e nei servizi alla persona (11%), principalmente attività tradizionali femminili, quali lavanderie, saloni di parrucchiere e centri estetici, o attività ricreative, culturali e sportive; gli uomini si distribuiscono più eterogeneamente, con quote importanti oltre che nel commercio (28%) e nell'agricoltura (23%), anche nelle costruzioni (20%) e nelle attività manifatturiere (10%).
Scendendo nel dettaglio regionale, tuttavia, non necessariamente la forte presenza di imprese agricole o commerciali conduce a una importante quota femminile nella titolarità delle imprese. Vi sono regioni nelle quali la forte vocazione all'agricoltura (è il caso del Molise e della Basilicata, con il 39% delle imprese) o al commercio (come la Campania con il 37% delle imprese) si traduce in un'alta presenza di donne imprenditrici, anche superiore al 30%. Diversamente, altre realtà quali la Sicilia, la Calabria e particolarmente la Puglia, pur con una struttura produttiva fortemente orientata a questi settori, risultano meno permeabili alla femminilizzazione dell'imprenditoria. D'altro canto, in Veneto, in Emilia Romagna e particolarmente in Lombardia, l'agricoltura e il commercio non rappresentano settori preponderanti e ciò parzialmente può spiegare la più scarsa presenza femminile. (Figura 7.3.7)

Inizio Pagina  Fare politica

La maggiore presenza delle donne nella vita politica e, quindi, nella rappresentanza e nelle cariche governative è un passo per una democrazia europea più compiuta; essa va incoraggiata e sostenuta, non essendo ancora molto diffusa in molti Paesi dell'Unione. Secondo i dati della Direzione generale occupazione e affari sociali della Commissione europea, le deputate europee sono il 30,4% e, fra i membri della Commissione europea, il 29,6% sono donne. Le massime cariche politiche dei Paesi appartenenti all'Unione europea sono ricoperte quasi nella totalità da uomini: si contano solo tre donne capi di Stato (Finlandia, Irlanda e Lettonia), un solo primo ministro (Germania) e cinque presidenti delle camere (Belgio, Olanda, Regno Unito, Grecia, Ungheria). La percentuale di donne nei parlamenti e nei governi nazionali è molto eterogenea fra i Paesi: nella grande maggioranza degli Stati europei la presenza delle donne nei rispettivi governi e parlamenti è inferiore al 30%, con una media europea del 21,8% di donne nei rispettivi parlamenti nazionali e del 23% di membri dei governi (ovvero l'insieme dei ministri e degli altri membri non facenti parte del Consiglio). Sono presenti eccezioni: la situazione è generalmente più favorevole alla partecipazione politica femminile nei Paesi scandinavi, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria e in Spagna. Spetta alla Svezia il primato della più alta percentuale di donne in parlamento (47,4%) e alla Spagna quello della parità di genere fra i membri del governo. (Figura 7.3.8)
I modi con cui sono state raggiunte tali proporzioni sono i più diversi. Le ragioni del successo scandinavo vanno ricercate in una cultura tradizionalmente più aperta alla partecipazione femminile: si pensi anche alla precocità del suffragio femminile (il diritto di voto alle donne è stato infatti ottenuto fra il 1906 e il 1919) che ha portato a una forte presenza delle donne nella vita pubblica, nelle sedi istituzionali, nelle organizzazioni sindacali e nei partiti. Ciò ha stimolato la costruzione di un sistema di welfare che ha preso in carico alcune delle funzioni familiari tradizionalmente femminili e ha consentito alle donne di inserirsi in funzioni pubbliche tradizionalmente maschili, portando a un riequilibrio delle opportunità dei sessi. Da notare che non sono presenti norme legislative che impongano le quote elettorali per genere, ma queste costituiscono una scelta autonoma di alcuni partiti e non di tutti. E' comunque presente, in ogni partito politico, una strategia di promozione delle donne, vista anche come strumento per la conquista dell'elettorato femminile.
In Francia, invece, la situazione è completamente diversa: nella rappresentanza al parlamento europeo e nei consigli regionali, dove le norme prevedono la stretta alternanza uomo-donna nelle candidature, le donne sono il 42,3% dei parlamentari francesi a Strasburgo e il 47,6% dei consiglieri regionali. Per le elezioni nazionali francesi è invece prevista una diminuzione del finanziamento pubblico per le liste che non rispettino la parità nelle candidature: nonostante ciò, il risultato, alle elezioni del 2002, è quello di una presenza femminile scarsa (14,7% di donne sul totale dei parlamentari), anche inferiore a quella italiana, segno di un contesto politico e culturale poco permeabile all'ingresso delle donne in politica, se non tramite forzature legislative.
La rappresentanza politica italiana è fra le meno femminili: solo il 16% dei parlamentari sono donne, mentre un po' più equilibrata è la situazione degli incarichi di governo con il 21,6% di donne. In due leggi del 1993 furono introdotte disposizioni volte a favorire una maggiore presenza di donne negli organi politici elettivi, tramite la determinazione di tetti massimi per le candidature dei due sessi nelle elezioni comunali e provinciali e l'alternanza uomo-donna nelle elezioni alla Camera dei Deputati. Una decisione della Corte Costituzionale (n.422 del 1995) (Nota 3) dichiarò l'incostituzionalità di tali norme ritenendole inammissibili in quanto discriminatorie. L'effetto di tale passaggio normativo è comunque ravvisabile nella dodicesima legislatura (anno 1994) quando le deputate occupano il 14,7% dei seggi della Camera; ma anche nella quota di donne amministratrici comunali e provinciali che, sia per l'Italia che per il Veneto, in corrispondenza del 1995, prima consistente tornata elettorale utile dopo le suddette leggi, si impenna oltre il 17%, per poi ricominciare a scendere dopo il parere della Corte costituzionale. Si nota comunque che la quota di donne non ritorna più ai livelli antecedenti alle leggi del 1993, segno che la forzatura di una normativa ha comunque lasciato un effetto di più lungo periodo, tanto che negli ultimi sei anni la quota ricomincia lentamente a crescere, portandosi nuovamente intorno al 17%. Fra gli amministratori regionali, ove non è intervenuto l'effetto normativo sopra descritto, l'andamento risulta più altalenante. (Figura 7.3.9)
Rispetto alla dimensione demografica dei comuni, si nota una maggior presenza di donne nella vita politica locale nei comuni piccoli (1.000-3.000 abitanti) e piccolissimi; dove è più probabile la conoscenza personale del candidato sembra diminuire il divario di genere. Nel 2006 la quota di amministratrici locali in Veneto sfiora il 19% nei centri tra i 1.000 e i 3.000 residenti e a livello nazionale supera anche il 20% nei comuni di minore dimensione demografica. La presenza femminile è minore negli ambiti di media dimensione, ovvero fino ai 100.000 abitanti, mentre è massima nei quattro più popolosi capoluoghi veneti (sopra il 19%). Lo stesso trend si osserva a livello nazionale, anche se con differenze meno marcate.
Analizzando per tipologia di carica, il Veneto presenta, rispetto alla media italiana, una maggiore quota di donne negli esecutivi locali: sono di più le donne sindaco, presidenti di provincia e componenti di giunte provinciali e regionali. Le donne elette nei consigli risultano più consistenti a livello di consiglio provinciale. (Figura 7.3.10)

Inizio Pagina  Professione e cura della famiglia

Fondamentale per migliorare la partecipazione e la crescita professionale delle donne nel mondo del lavoro è la possibilità di conciliare le scelte lavorative con la formazione e la cura della famiglia. Infatti la nascita di un figlio si ripercuote in maniera evidente sul livello di occupazione delle donne italiane. Se si considera la fascia di età tra i 25 e i 44 anni, ossia l'età in cui più frequentemente si compiono le principali scelte familiari e lavorative, il tasso di occupazione sia per le donne sole che per quelle in coppia diminuisce a seguito della presenza di figli. Infatti nel 2005 fra le donne in età compresa tra i 35 e i 44 anni e che vivono in coppia, risultano occupate 77 donne senza figli su 100 e solo 55 nel caso in cui in famiglia ci siano figli, con un calo del 29% del tasso di occupazione. Il divario risulta anche maggiore, 39%, per le donne più giovani, ossia tra i 25 e i 34 anni. La rilevazione dell'Istat sulle forze di lavoro non fornisce stime a livello regionale sul livello di occupazione per sesso e numero di figli, mentre sono disponibili a livello di ripartizione geografica. Osservando la situazione del Nord-Est, questa risulta decisamente più favorevole: i livelli occupazionali delle donne sono più alti e le maggiori differenze con il dato nazionale si registrano proprio per le donne che hanno figli. Per quante vivono in coppia e non hanno figli il tasso di occupazione è dell'84% e dell'82,2% rispettivamente per le classi di età 25-34 anni e 35-44 anni e si riduce del 23,6% per le donne più giovani e del 14% per le altre in presenza di figli. La forte riduzione osservata fra le donne occupate più giovani fa pensare anche alla volontà di rimandare ad un momento successivo della propria vita la carriera lavorativa; per le donne tra i 35 e i 44 anni, invece, il minore livello occupazionale potrebbe essere attribuibile ad un ruolo più definitivo nella cura familiare, sia esso una scelta o una rinuncia.
Sia a livello nazionale che nel Nord-Est le donne sole lavorano di più e ciò vale anche per quelle con figli, come è ovvio anche per ragioni di necessità. Ad esempio nel Nord-Est la presenza di figli comporta una riduzione del tasso di occupazione di appena del 6-7% a seconda dell'età.
Naturalmente anche il numero di figli condiziona l'occupazione femminile: nel Nord-Est si passa da un tasso del 76,9% per le donne con un figlio solo al 53,6% per quelle con tre o più, mantenendosi comunque superiore ai relativi livelli nazionali. (Figura 7.3.11)
La minore occupazione delle donne italiane rispetto alla media europea si riflette anche nei tassi a parità di numero di figli. In particolare, considerando le donne tra i 20 e i 49 anni e che hanno almeno un figlio minore di dodici anni, l'Italia presenta livelli di occupazione tra i più bassi dei Paesi dell'Unione, seguita solo da Malta e, quando i figli piccoli sono più di due, da Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. La partecipazione al lavoro da parte delle donne anche in presenza di figli piccoli è maggiore in Paesi quali Slovenia, Danimarca, Lituania e Portogallo, dove fra l'altro il divario occupazionale rispetto alle donne senza figli è più ridotto.
Ma la presenza o meno di figli non è l'unico fattore che influenza la scelta di restare al lavoro, gioca un ruolo importante anche il livello di istruzione, strettamente legato al tipo di occupazione e di posizione economica raggiunta: in Italia, come in altri Paese europei, le donne con un più alto titolo continuano a restare al lavoro in misura decisamente maggiore rispetto a quelle meno qualificate. Lavora l'80% delle donne italiane laureate e con uno o due figli (la stessa media europea) contro il 61% delle diplomate e addirittura il 34% delle meno istruite. (Figura 7.3.12)
Un miglior equilibrio fra attività professionale e vita familiare può essere favorito da una maggiore flessibilità delle forme e dei tempi di lavoro, da un migliore supporto da parte dei servizi alla famiglia, per la custodia dei bambini ma anche per l'accudimento delle persone non autonome, disabili e anziani, da una diversa distribuzione dei ruoli e dei carichi all'interno della famiglia. Secondo la strategia europea, occorre un impegno rinnovato al fine di fornire servizi integrati, accessibili, economici e di qualità a sostegno della famiglia, rivolto alle giovani coppie ma anche alle famiglie più mature, spesso in difficoltà nell'occuparsi di figli non ancora grandi e nello stesso tempo dei genitori molto anziani e non più pienamente sufficienti. Il Consiglio europeo di Barcellona indica tra gli obiettivi prioritari per l'Unione europea la necessità di sviluppare la rete dei servizi per la prima infanzia, in modo da garantire entro il 2010 accoglienza ad almeno il 33% dei bambini di età inferiore ai tre anni. In Veneto nel 2006 trova accoglienza nei servizi pubblici il 10,8% (Nota 4) dei bambini sotto i tre anni, riuscendo a soddisfare circa il 10% di utenza in più rispetto all'anno precedente. Il numero dei servizi funzionanti, comprendenti gli asili nido tradizionali e i servizi innovativi, cresce in un solo anno dell' 11,4%: sono 526 distribuiti nel 49% dei comuni del territorio veneto.
Anche l'utilizzo di modi innovativi di organizzazione del lavoro e di flessibilità nei tempi e negli orari rendono possibile una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia. Tra l'altro non solo risultano favorevoli per il lavoratore, ma possono rivelarsi come strumenti a vantaggio anche dell'azienda stessa, in quanto il maggior benessere del dipendente influisce positivamente sulla produttività e sul clima aziendale. In quest'ottica sarebbe auspicabile un ripensamento innovativo delle organizzazioni aziendali, che devono vedere nel part-time, nel telelavoro e in genere nelle diverse forme di flessibilità un'occasione di competitività. E' quanto emerge anche dai primi risultati di monitoraggio e valutazione di alcuni progetti finanziati dalla Regione Veneto, volti a promuovere azioni positive per la conciliazioni delle responsabilità familiari e professionali (art.9 della L. 53/2000).
Il ricorso al part-time in Veneto nel 2005 riguarda il 29,2% delle donne occupate, una percentuale superiore a quella nazionale (25,6%) e tra le più alte tra tutte quelle delle regioni italiane. E' un dato importante, che però comprende anche quella quota di contratti part-time non volontariamente scelti ma dettati da politiche aziendali, frequenti ad esempio nella grande distribuzione. Ricorre al part-time, invece, solo il 3,7% dei lavoratori veneti e il 4,6% di quelli italiani. Anche i congedi parentali sono al momento utilizzati quasi esclusivamente dalle donne: tra quanti risultano occupati nel 2005 e che hanno un bambino di circa due anni, ne ha usufruito il 74% delle donne in Italia (nel Nord-Est un po' di più, l'80%), mentre solo l'8% dei padri.
Il fatto che siano soprattutto le donne ad allontanarsi anche parzialmente dal lavoro per occuparsi della famiglia è soprattutto frutto di una mentalità ancora molto diffusa che vede nella cura dei figli e dei familiari un ruolo tipicamente femminile. A ciò si aggiunge l'effetto di una cultura aziendale diffusa, che richiede prolungati orari di lavoro, specialmente a chi occupa posizioni apicali, che sono generalmente ricoperte da uomini. E' un circolo vizioso che vede penalizzate le donne, per più ragioni così escluse dalle migliori opportunità di carriera. E' necessario un cambiamento culturale importante, un lungo percorso che riveda il ruolo sociale della maternità e della paternità e che riconosca il diritto dei figli alla presenza effettiva ed equilibrata di entrambi i genitori.




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Note

  1. Indagine 'Factors of Business Success' (FOBS) coordinata da Eurostat su 15 Paesi europei aderenti: Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia.
  2. Le imprese femminili sono quelle imprese dove la presenza di donne come titolare, socio o amministratore e la quota di capitale sociale detenuta da donne è prevalente (superiore al 50%). Le imprese non femminili non si possono definire automaticamente come 'imprese maschili' cioè partecipate in prevalenza da uomini, perché sul totale delle imprese giocano un ruolo significativo le imprese partecipate in prevalenza da soggetti giuridici.
  3. Secondo la sentenza 'misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate nel comma 2 dell'art. 3 Cost., dato che esse non si propongono di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso'.
  4. I dati sono stati forniti dall'Osservatorio regionale per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Veneto.


Figura 7.3.1
Distribuzione percentuale dei laureati pre-riforma residenti in Veneto rispettivamente ad uno e a tre anni dalla laurea per condizione occupazionale nel 2006 e per genere
Figura 7.3.2
Distribuzione percentuale dei laureati pre-riforma rispettivamente ad uno e a cinque anni dalla laurea che lavorano in Veneto nel 2006 per posizione nella professione e per genere
Figura 7.3.3
Guadagno mensile netto dei laureati pre-riforma ad un anno dalla laurea che lavorano in Veneto nel 2006 per i principali gruppi di corsi di laurea (*) e genere (valori medi in euro)
Figura 7.3.4
Principali motivazioni all'avvio di un'impresa per genere (valori percentuali). Italia e alcuni Paesi europei aderenti all'indagine FOBS (*) - Anno 2005
Figura 7.3.5
Imprese attive totali e femminili. Distribuzione percentuale per periodo di nascita. Veneto e Italia - Anno 2006
Figura 7.3.6
Percentuale di cariche societarie ricoperte da donne nelle imprese per regione. Valori percentuali - Anno 2006
Figura 7.3.7
Quota di imprese nei settori 'femminili' e percentuale di donne titolari d'impresa per regione. Anno 2006
Figura 7.3.8
Percentuale di donne nei parlamenti e nei governi nazionali nei Paesi dell'Unione europea. Anno 2006
Figura 7.3.9
Percentuale di donne fra gli amministratori comunali e provinciali. Veneto e Italia - Anni 1985:2006
Figura 7.3.10
Percentuale di donne nelle giunte e nei consigli locali per carica ricoperta. Veneto e Italia - Anno 2006
Figura 7.3.11
Tasso di occupazione delle donne fra i 35 e i 44 anni per numero di figli. Nord-Est e Italia. Anno 2005
Figura 7.3.12
Tasso di occupazione delle donne fra i 20 e i 49 anni senza  e con uno o due figli minori di dodici anni.  Paesi dell'Unione europea. Anno 2003
I numeri del capitolo 7
I numeri del capitolo 7

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