5. La popolazione e la famiglia

Inizio Pagina   Introduzione

La sfida demografica assume un ruolo fondamentale nel contesto della strategia di Lisbona che definisce gli obiettivi e le priorità per l’Unione europea: i cambiamenti demografici in atto sono in generale di portata tale che non si possono più ignorare, con conseguenze di ampio raggio sul piano sociale, economico e sanitario. In particolare la prosperità dell’Europa deve fare i conti con l’invecchiamento della popolazione, che potrebbe portare addirittura ad una riduzione della “crescita potenziale” annua del Pil europeo, dall’attuale 2-2,5% all’1,5% nel 2025, fino all’1,25% nel 2040.
Alla base dell’invecchiamento demografico ci sono tre fattori di grande rilievo: il persistere della bassa fecondità, il progressivo allungamento della vita media e il sempre maggiore numero di persone di età superiore ai 65 anni, in vista soprattutto della più numerosa generazione del baby-boom che andrà a incrementare la schiera di persone anziane. In molti casi solo l’apporto dell’immigrazione è riuscito a compensare fino ad ora alcuni effetti negativi dell’invecchiamento, a contrastare la denatalità e quindi sostenere la crescita della popolazione. E sempre grazie all’immigrazione, la popolazione dell’UE dovrebbe aumentare debolmente ancora fino al 2025, dopo di che iniziare a diminuire; per certi Paesi il declino demografico potrebbe verificarsi anche prima, a partire dal 2015, mentre in altre realtà è già in atto, come ad esempio in diverse regioni degli Stati entrati in Unione Europea nel 2004, a causa dell’effetto congiunto del decremento naturale e della consistente migrazione in uscita.
La situazione in Italia non è certo migliore: infatti, secondo le recenti previsioni pubblicate da Istat (nota 1), si suppone che la popolazione possa svilupparsi ancora solo per i prossimi otto anni, per poi dal 2014 iniziare a ridursi, prima a un ritmo del –1 per mille ogni anno fino al 2030 e successivamente con un’intensità più sostenuta (-2,2 per mille all’anno) nei venti anni seguenti, fino a raggiungere l’ammontare di 55,8 milioni di abitanti nel 2050, contro i circa i 58,6 milioni registrati all’inizio del 2005. La struttura per età della popolazione, ad oggi già gravemente compromessa, è destinata a invecchiare ulteriormente: fra nemmeno quattro-cinque anni la quota di persone con più di 65 anni risulterà del 20,5%, in crescita rispetto al dato del 2005 di un punto percentuale, nel 2020 sarà il 23,2%, nel 2030 il 27% e nel 2050 addirittura peserà per il 33,6%.
E’ importante, invece, che l’Unione Europea ritrovi la strada della ripresa demografica, condizione indispensabile per lo sviluppo e la crescita economica; in questo senso diviene prioritario favorire la natalità per garantire e ristabilire il rinnovamento generazionale e sostenere, dunque, la forza competitiva della società.

Inizio Pagina   5.1 La componente naturale

Proprio a causa della generale bassa natalità e dell’alto numero di persone anziane, l’incremento della popolazione europea dovuto alla componente naturale (che tiene conto delle differenze tra il numero di nascite e di decessi) è appena lo 0,4 per mille; in Italia da anni il contributo è addirittura di segno opposto e solo nel 2004 si intravede una leggera crescita naturale (0,3 per mille). Un po’ più confortante la situazione in Veneto, dove a partire dal 2000 il numero delle nascite supera quello dei decessi e, quindi, il saldo naturale risulta positivo, invertendo così il trend precedente per lungo tempo negativo.

Più che mai significativo e importante il valore del saldo naturale per la nostra regione nel 2004, pari a +5.340 unità, corrispondente ad un aumento della popolazione di 1,1 abitanti ogni mille all’anno e contribuendo a quasi il 10% della crescita della popolazione, che alla fine del 2004 ammonta a 4.699.950 abitanti. In Italia sono solo otto le regioni che vedono crescere la propria popolazione anche grazie alla componente naturale e tra queste il Veneto si colloca al quinto posto per migliore performance, dopo Campania, Trentino Alto-Adige, Puglia e Sicilia.
Si precisa che l’alto valore positivo del saldo naturale registrato nel 2004, specie se confrontato con quello dell’anno precedente, non dipende solo dal maggior numero di nascite, ma anche dalla diminuzione dei decessi rispetto a quanto si è verificato nel 2003, che ha risentito della supermortalità dei mesi estivi a causa dell’eccezionale calura che lo ha caratterizzato. E’ anche vero, comunque, che proprio nel 2004 in Veneto si ha il più alto numero di nascite degli ultimi dodici anni, ossia oltre 47.000 bambini, in aumento del 7,3% rispetto al 2003; a livello territoriale nelle province di Verona e Vicenza l’incremento è nettamente superiore a quello medio regionale e pari rispettivamente al +15,1% e +9,7%.
La presenza sempre più marcata di donne straniere, prevalentemente giovani, sicuramente ha un effetto positivo sulla natalità e quindi sulla crescita demografica del Veneto: sono, infatti, oltre 7.000 i bambini nati nel 2004 da genitori entrambi stranieri, il 15% delle nascite totali venete.

Inizio Pagina   5.2 Il livello di fecondità

Il maggior numero di nascite trova conferma anche in un effettivo incremento del livello di fecondità: infatti, dopo un trend decrescente di circa trent’anni, culminato nel 1994 con il minimo storico per il Veneto di appena 1,06 figli per donna, dalla metà degli anni novanta il tasso di fecondità è lentamente in ripresa, venendo progressivamente a ridursi il gap tra i comportamenti riproduttivi del Veneto e del resto del Paese.

Anzi secondo le ultime stime, nel 2005, per la seconda volta dopo anni, il dato della nostra regione, pari a 1,37 figli per donna, si attesta ad un valore superiore a quello medio italiano (1,34); addirittura il Veneto risulta tra le prime regioni più prolifiche d’Italia a pari merito con la Lombardia e successiva al Trentino Alto Adige (1,54 figli per donna), alla Campania (1,48) e alla Sicilia (1,43). D’altra parte, il recupero della natalità negli ultimi anni in Italia si deve essenzialmente all’aumento della fecondità nelle regioni del Centro-Nord, cui si contrappone invece una diminuzione nel Sud, tradizionalmente la parte del Paese con il maggior numero di figli per donna.
Nel territorio della nostra regione la fecondità cresce in maniera generalizzata, ma l’incremento è più rapido nelle province di Venezia e di Treviso; proprio quest’ultima nel 2003, ultimo anno per cui ci sono dati disponibili, si distingue per il più alto numero di figli per donna (1,39), superando anche se di poco Vicenza e Verona, le due province che per anni hanno manifestato la maggiore prolificità. Piuttosto critica risulta, invece, la situazione di Rovigo, dove non si raggiunge nemmeno la quota di un figlio per donna.
Tuttavia, nonostante la leggera ripresa degli ultimi anni, in Italia, e quindi anche in Veneto, i tassi di fecondità continuano ad essere ancora molto bassi e lontani dal valore in grado di assicurare il livello di sostituzione delle generazioni, ossia di 2,1 figli per donna; in Italia la natalità si mantiene ad un livello tale per cui il nostro Paese si colloca tra gli ultimi posti in Europa, con un dato notevolmente inferiore alla media europea (1,5); in una situazione demografica più sfavorevole sono solo la Spagna, la Grecia e alcuni Stati dell’Europa dell’Est (Slovenia, Polonia, Repubblica Ceca, Lettonia, Slovacchia e Lituania).

A livello europeo, inoltre, la natalità è cresciuta più rapidamente che in Italia, molti Paesi sono riusciti a contenere maggiormente la riduzione della propria fecondità, mentre altri, che mostravano una situazione peggiore di quella italiana, hanno addirittura recuperato fino a sorpassare il nostro Paese.
La scelta di avere o meno dei figli resta una decisione delle singole coppie, ma senza adeguati sostegni tutto diventa più difficile, tanto che nella maggior parte dei casi il numero di figli avuti in realtà è inferiore a quello desiderato I Consigli di Lisbona e Barcellona indicano tra gli obiettivi prioritari per l’Unione Europea la necessità di sviluppare la rete dei servizi per la prima infanzia, in modo da garantire entro il 2010 accoglienza ad almeno il 33% dei bambini di età inferiore ai tre anni; ciò come sostegno alla famiglia e quale strumento indispensabile per rimuovere i disincentivi alla partecipazione femminile nel mondo del lavoro, componente ormai irrinunciabile sia sul piano strettamente economico che su quello più ampio della giustizia sociale. Anche se in Italia molto è stato fatto in questo senso, la percentuale dell’utenza infantile è ancora bassa: poco oltre l’11% se si considera la totalità dei servizi pubblici e privati, sia i nidi tradizionali che i servizi integrativi, contro il 30-40% dei Paesi europei del Centro-Nord. In Veneto la rete dei servizi per la prima infanzia è, comunque, più diffusa: nel 2005 ad esempio già solo l’offerta pubblica accoglie il 10,5% dei bambini (nota 2) sotto i tre anni; sono 472 i servizi funzionanti, il 37,7% asili nido tradizionali e il 62,3% servizi innovativi, sicuramente in crescita visto che quelli già autorizzati dalla Regione sono in totale 822, prevedendo così di raggiungere una copertura complessiva del 17,3% dei bambini.

Inizio Pagina   5.3 La presenza straniera

Il 91% dell’incremento della popolazione è dovuto alla componente migratoria, ossia alla forza attrattiva che la nostra regione esercita nei confronti delle altre regioni, ma soprattutto dell’estero.

Nel 2004 si contano in Veneto circa 288.000 stranieri residenti, in aumento di ben il 57% rispetto al 2002. Senza dubbio, la crescita è dovuta ancora in parte agli effetti del processo di regolarizzazione degli stranieri presenti nel Veneto, attuato dalla “sanatoria” prevista dalle leggi 189/02 e 222/02: si pensi che all’inizio del 2004, infatti, sono circa 58.300 i permessi di regolarizzazione concessi nella nostra regione in base alle suddette leggi e rappresentano il 9% dei permessi rilasciati in tutta Italia.
Ormai il Veneto è la seconda regione per presenza di stranieri, richiama il 12% degli immigrati in Italia, quota successiva solo a quella della Lombardia (25%). I cittadini stranieri sono il 6% della popolazione veneta e continuano a concentrarsi nelle province più industriali della regione, cioè Vicenza, (7,9%), Treviso (7,8%) e Verona (6,8%).
Sono 180 i gruppi nazionali rappresentati in Veneto e negli anni va aumentando la pressione da parte dei Paesi dell’Europa centro-orientale: alla fine del 2004 il Marocco resta la nazionalità maggiormente presente (14%), seguita da Romania (13%), Albania (11%), Serbia e Montenegro (6%) e Cina (5%).
L’ultima regolarizzazione, oltre ad aver aumentato in misura considerevole l’entità della presenza straniera e ridisegnato il profilo delle provenienze geografiche, ne ha modificato la distribuzione per fasce di età e stato civile: si tratta infatti di immigrati in età lavorativa, non ancora sposati e, pertanto, è facile immaginare per i prossimi quattro o cinque anni un nuovo flusso di immigrati per ricongiungimento familiare.
La popolazione straniera in Veneto è essenzialmente in età lavorativa, si concentra nella fascia di età tra i 25 e i 44 anni (53,6%), in particolar modo tra i 25 e i 34 (30%), e fra le regioni italiane risulta quella con la struttura per età più giovane, con un’età media di 29,4 anni.
La più giovane struttura per età della popolazione straniera, rispetto a quella autoctona, contribuisce allo svecchiamento della forza lavoro e più in generale della popolazione del Veneto: infatti ha cittadinanza straniera l’11,2% dei bambini sotto i sei anni, il 7,1% dei ragazzi in età scolare (tra i 6 e i 17 anni) e il 10,2% delle persone di età compresa tra i 25 e i 44 anni. L’effetto rimane tuttavia limitato e il Veneto risulta nel complesso ancora una delle regioni più vecchie d’Italia.
Infine, in base al D.P.C.M. del 15 febbraio 2006, e successiva circolare, riguardante la programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari per l’anno 2006, è fissata a 170.000 la quota massima di lavoratori da ammettere nel territorio italiano, suddivisa tra ingressi per lavoro subordinato stagionale e non stagionale e per lavoro autonomo. Della quota ripartibile tra regioni e province autonome, ossia al netto della parte riservata a livello centrale, al Veneto spettano al più 20.135 lavoratori extracomunitari, pari al 13% del totale, di cui il 60% è costituito da lavoratori non stagionali.

Inoltre, da una prima ripartizione delle quote previste a livello provinciale, basata sulle domande presentate lo scorso anno e che potrà subire modifiche alla luce delle effettive domande presentate nel 2006, si evidenzia che la quota relativa per lavoratori stagionali si concentra per il 63% nella provincia di Verona, mentre con riferimento ai lavoratori subordinati non stagionali, a Venezia è destinato il 31,3% delle “quote riservate”, ossia di lavoratori di predeterminate nazionalità; a Treviso e Padova sono, invece, assegnate le più alte percentuali dei lavoratori di “altre nazionalità” (complessivamente 42,3%). Infine, fra i lavoratori subordinati non stagionali di nazionalità non predeterminata, numerosi sono soprattutto quelli destinati al lavoro domestico e all’assistenza alla persona: il 66% a livello regionale, con un minimo del 56% a Vicenza e un massimo del 76% a Belluno.

Inizio Pagina   5.4 L’invecchiamento

Proprio il protrarsi della bassa fecondità, assieme all’aumento della sopravvivenza, è uno dei fattori alla base dell’invecchiamento della popolazione in atto ormai da tempo e di entità tale da esser sentito come problema prioritario nella politica comunitaria europea. E’ sempre più forte lo squilibrio tra giovani e anziani, tra chi produce e chi consuma, tra chi partecipa alla vita attiva di un Paese e chi, invece, beneficia dell’attività svolta in passato.
Nella classifica dei Paesi europei l’Italia è quello maggiormente investito dal processo di invecchiamento della popolazione, con uno squilibrio, nel 2004, di circa 138 anziani con oltre 65 anni per 100 ragazzi di età inferiore ai 15 anni. E in base alle ultime previsioni demografiche, l’indice di vecchiaia, espressione appunto del peso delle due componenti estreme della popolazione, potrebbe superare la soglia di 200 attorno al 2025, quindi con un numero doppio di anziani rispetto ai giovani, fino a raggiungere nel 2050 il valore di oltre 260. Le persone con più di 85 anni che nel 2005 incidono per il 2% sul totale della popolazione, nel 2050 potrebbero rappresentare ben quasi l’8% della popolazione complessiva.
Anche altri Stati dell’Unione Europea, quali Germania, Grecia, Spagna, Lettonia, Portogallo, Slovenia e Estonia, mostrano una maggiore presenza della componente anziana rispetto a quella giovanile, ma per questi l’indice di vecchiaia rimane inferiore al valore di 130, superato invece dall’Italia da ormai tre anni. Nei Paesi dove da tempo si stanno sperimentando politiche a sostegno della famiglia e quindi di ripresa della natalità, infine, come Svezia, Francia e Danimarca, l’indice di vecchiaia è addirittura al di sotto della soglia di parità, con una prevalenza di ragazzi rispetto ad anziani.
La situazione del Veneto è allineata a quella italiana, in quanto il suo indice di vecchiaia risulta di 137,1, in crescita oltre la soglia di equilibrio ormai dai primi anni ‘90. La provincia più anziana risulta Rovigo, dove nel 2004 si contano due anziani per ogni giovane, confermando un trend iniziato nella metà degli anni ’90 quando ha superato Belluno, che fino ad allora presentava il maggior squilibrio tra vecchi e giovani; viceversa, Vicenza è la provincia meno vecchia con un indice di vecchiaia pari a 115, seguita da Treviso (123,1).
Nel mercato del lavoro ciò comporta un ridimensionamento della popolazione in età attiva; le persone in uscita dal mercato del lavoro superano infatti del 34% quelle in età 15-19 anni e quindi potenzialmente entranti. Per compensare il prevedibile calo della popolazione in età lavorativa e per garantire una base più ampia per i sistemi di previdenza sociale, l’Unione Europea favorisce l’ampliamento della forza lavoro e la maggiore partecipazione all’attività lavorativa, in particolare da parte delle donne, dei giovani e dei lavoratori anziani, anche mediante il progressivo innalzamento dell’età pensionabile. Diventa necessario anche pensare e creare nuove forme di solidarietà tra le generazioni, caratterizzate dal reciproco sostegno e dal trasferimento di competenza e di esperienza.
Invecchiano anche le strutture familiari e più in generale le reti di parentela, venendosi in parte a indebolire la capacità di sostegno reciproco dei membri che ne fanno parte: l’impegno richiesto nella cura degli individui più anziani tende a gravare su soggetti a loro volta mediamente più anziani.

Inizio Pagina   5.5 Il sostegno informale e altri tipi di aiuto alle famiglie

Nella nostra società la famiglia continua ad essere il vero e principale riferimento e sostegno nelle diverse fasi della vita, nei confronti dei soggetti più deboli e in situazioni di particolare criticità (disoccupazione, nascita di figli, malattia ecc.); proprio sulla disponibilità della famiglia si basa il modello italiano di welfare.
E’ vero, infatti, che la rete degli aiuti informali continua a fornire il supporto maggiore alle famiglie: secondo quanto risulta da un’indagine condotta da Istat, nel 2003 in Veneto il 18% delle famiglie dichiara di ricevere in modo gratuito un aiuto da familiari stretti, parenti o amici; alle volte è un aiuto di tipo economico, altre volte si tratta di assistenza ai bambini, agli adulti in difficoltà, agli anziani, di espletamento nelle normali attività della vita quotidiana o altro. Minore invece è la quota di famiglie che ricorre a servizi privati a pagamento (8%) e le istituzioni pubbliche e le amministrazioni locali riescono a venire incontro ai bisogni delle famiglie in appena il 4,9% dei casi. La percentuale di famiglie che ricorre ad una o più tipologie di aiuto, sia esso informale, pubblico o privato, risulta pari al 26%, in lieve aumento nell’arco di cinque anni, ma la crescita è dovuta esclusivamente all’incremento degli aiuti informali (dal 16,7% al 17,9%) e del settore pubblico (dal 3,5% al 4,9%), mentre calano le famiglie che si rivolgono a servizi a pagamento (dal 9,4% al 7,9%), in linea con quanto accade a livello nazionale.
Le famiglie di genitori soli con bambini, in aumento per effetto della crescente instabilità coniugale, risultano quelle più aiutate: il 67%, ossia circa 21.000 famiglie, in netta crescita rispetto al 1998 quando ammontavano a 5.000. E’ la tipologia familiare che maggiormente si appoggia alla rete informale di aiuti, che per necessità si rivolge più frequentemente anche a servizi a pagamento e la seconda per ricorso ad aiuti offerti dai servizi predisposti dalle istituzioni pubbliche. E’ inoltre una tra le categorie familiari più fragili e che più di altre si trova a dover ricorrere ad aiuti economici esterni.

La presenza di bambini piccoli in famiglia riesce ad attivare una rete informale di aiuti più solidale, specie se la madre è occupata. Del resto le donne con figli piccoli hanno solitamente una parentela più ampia e relativamente più giovane su cui possono contare, grazie anche ad una vicinanza abitativa. Possono poi godere soprattutto dell’aiuto dei nonni, che sono chiamati a svolgere una funzione sempre più importante nella cura dei bambini, specie se di età inferiore ai due anni.
Al secondo posto nella classifica dei beneficiari di aiuti troviamo le famiglie con almeno una persona affetta da grave disabilità (circa il 57%); a fronte del 34% che riceve aiuti informali, il 13,8% si avvale di servizi a pagamento, mentre il 27,4% riceve aiuti dal sistema pubblico, il cui sostegno è andato aumentando nel tempo, cercando di andare incontro alle particolari esigenze di questa tipologia di famiglie, che il più delle volte necessita dell’intervento di figure professionali altamente specializzate, data la gravità delle persone da assistere.
Ricorrono sempre più ad aiuti esterni le famiglie con almeno un anziano, in particolare se è presente una persona di età molto avanzata: il 43,6% di quelle con almeno una persona di oltre settantacinque anni e il 48,4% delle famiglie con almeno un ottantenne. Il sostegno rivolto agli anziani proviene da una rete più articolata che in passato e vede la condivisione del carico assistenziale tra più attori, specie per coprire le aree di necessità più gravi e garantire un supporto continuo e qualificato su più dimensioni. Infatti, pur restando prevalente il ricorso all’aiuto informale, si fa sempre più forte la richiesta di aiuti privati e pubblici, specie in caso di famiglie che hanno in casa persone ultraottantenni e quindi situazioni di più grave bisogno.
Lo status sociale della persona anziana gioca un ruolo decisivo nel determinare il tipo prevalente di aiuto ricevuto, se informale o a pagamento o pubblico; inoltre, in generale, nei comuni di dimensione più piccola, dove evidentemente è più presente e sentita la rete familiare, prevalgono gli aiuti informali, al contrario nelle aree più urbanizzate e più grandi, anche a causa di una maggiore distanza abitativa con i figli, prevalgono i servizi privati; infatti il ricorso all’aiuto privato si coniuga sempre più di frequente con una rete di parentele scarsa o poco attiva.
E’ anche vero che in generale nel nostro Paese è poco frequente il ricorso all’istituzionalizzazione degli anziani non autosufficienti; i figli continuano a svolgere un ruolo fondamentale nel sostegno dei genitori in tutto il corso della vita, e solo quando le condizioni di salute degli anziani richiedono un’assistenza continua, il lavoro di cura viene alleviato rivolgendosi a personale privato, cui spesso viene richiesta la presenza stabile nell’abitazione dell’anziano.
Nel quinquennio 1998-2003 le famiglie con anziani conoscono una riduzione sia degli aiuti di natura economica sia di quelli di assistenza offerti della rete informale, il cui sostegno invece negli ultimi anni si rivolge sempre più alle famiglie con bambini piccoli.
Lo spostamento dalla rete informale tra le varie tipologie di aiuto è comunque dovuto anche ad una diversa disponibilità di tempo dei caregivers da dedicare all’assistenza dei membri della propria famiglia: aumenta l’impegno dei nonni, specie se in buona salute, nei confronti di figli e di nipoti, diminuisce invece la disponibilità da parte delle donne, da sempre impegnate nell’assistenza dei familiari, ora invece più inserite nel mercato del lavoro e più spesso fuori casa.
Il fatto che solo una quota marginale delle prestazioni di assistenza sia coperta dal sistema pubblico o dal terzo settore evidenzia il carico che la famiglia è costretta a sopportare, con la conseguenza che se questo attore dovesse indebolirsi e venir meno, o perdere il suo ruolo tradizionale nella società italiana, a rischiare non è solo la condizione di molti, ma la struttura stessa del nostro sistema del welfare. I modelli familiari, peraltro, stanno profondamente cambiando, per la scarsa natalità, l’invecchiamento della popolazione, la tendenza da parte dei giovani a posticipare, per vari motivi, la formazione di una propria famiglia, nonché per l’aumento dell’instabilità coniugale: aumentano le famiglie, ma si modificano per struttura e per dimensione, diminuisce il numero di figli, crescono le coppie senza figli, la famiglie con un solo genitore e quelle formate da una sola persona.

Inizio Pagina   5.6 Le famiglie

In Veneto nel 2003 si contano 1.813.210 famiglie, il 15,3% in più rispetto a dieci anni prima, ma nel contempo si riduce la dimensione familiare che si attesta a 2,5 componenti per famiglia, in linea ora con il valore medio nazionale, quando nel 1993 era leggermente più alto il valore del Veneto (2,8 contro 2,7 dell’Italia).
La composizione per numero di componenti evidenzia anche negli ultimi anni la diminuzione non solo della famiglie più numerose, ossia con cinque o più componenti che rappresentano nel 2003 appena il 7,2% delle famiglie venete, ma anche di quelle formate da tre o quattro persone; viceversa crescono le famiglie di due componenti e soprattutto le persone che vivono da sole. Più di un quinto delle famiglie è ormai formata da una sola persona, oltre 2,4 punti percentuali in più rispetto a cinque anni prima, quale effetto soprattutto dell’allungamento della sopravvivenza, con una speranza di vita alla nascita in Veneto di circa 80 anni per i maschi e di 84 per le femmine, e del conseguente invecchiamento della popolazione. Infatti il 59% delle persone sole ha almeno 60 anni e addirittura circa il 30% ha già compiuto i 75 anni; fra gli anziani soli, inoltre, l’80% sono donne data la differente longevità di genere.
Se si allunga la sopravvivenza e cresce quindi il numero delle generazioni contemporaneamente in vita, diminuisce la compresenza di più generazioni all’interno della stessa famiglia: una proporzione piuttosto esigua delle famiglie, appena il 6,4%, ha una struttura “complessa”, ossia risulta formata da più nuclei familiari. I genitori anziani, in genere, non vivono in casa con i figli, ma abitano comunque vicino ad essi, per lo meno nello stesso comune di residenza se non addirittura a neanche un chilometro di distanza, mantenendo con loro frequenti contatti. La tendenza dei figli a vivere nelle vicinanze dei propri genitori è una realtà veneta, ma anche più in generale delle famiglie italiane, come di altri Paesi europei mediterranei, in contrapposizione con il resto d’Europa.
Ma oltre ad aumentare il numero di anziani soli, in particolare modo dei grandi vecchi (di 75 anni e oltre), negli anni va crescendo anche la quota dei “single” adulti non anziani, per lo più di età compresa tra i 35 e i 54 anni, che scelgono intenzionalmente di vivere per conto proprio oppure che si ritrovano in uno stato di solitudine, in conseguenza di una separazione o di un divorzio, magari solo per un periodo temporaneo prima di rifarsi una seconda famiglia. Sono per la maggior parte uomini, anche perché in casi di separazione o di divorzio i figli di solito vengono affidati alla madre: nel Veneto, come in Italia, tra l’85% e l’88% del totale dei genitori soli con figli è donna, una caratteristica costante nel tempo, sia per le modalità di affido dei figli, sia per la più elevata incidenza della vedovanza tra le donne.
Tra i nuclei familiari (coppie con o senza figli e nuclei monogenitore), stimati in Veneto in oltre 1.300.000 nel 2003, le coppie con figli continuano ad essere la quota più rilevante, pari al 58%, anche se in calo; prevale il modello del figlio unico, e infatti quasi il 47% delle coppie ha un solo figlio, il 43% ne ha due e appena il 10% tre o più. Aumenta infine anche il numero di coppie senza figli, che in soli cinque anni passa dal 28,3% dei nuclei familiari al 31,3% nel 2003.

Inizio Pagina   5.7 Le famiglie in difficoltà

Uno degli obiettivi prefissati dall’Unione Europea nell’ambito del Consiglio di Lisbona è di contrastare la povertà e l’esclusione sociale delle famiglie, intendendo tali fenomeni come multidimensionali, da considerare sotto diversi punti di vista, non solo quello della povertà economica, ma anche della disuguaglianza della distribuzione dei redditi, della partecipazione all’occupazione, delle condizioni di vita e di salute.
E’ anche vero, però, che quando si parla di povertà si associa tale fenomeno principalmente alla mancanza di benessere economico. In questo senso, l’indicatore più aggiornato a livello nazionale e regionale misura il livello di povertà sulla base della spesa per consumi, indicatore che concettualmente è anche più stabile rispetto a quello calcolato a livello comunitario sul reddito, che invece può risentire di eventi di natura temporanea (ad esempio perdita del posto di lavoro) e di distorsioni dovute alla possibile reticenza delle famiglie nel dichiarare il reddito realmente posseduto.
Le condizioni di povertà delle famiglie sono desumibili in base ad una soglia (nota 3) di spesa pro capite che per il 2004 è pari a 919,98 euro. Tale soglia è superiore rispetto all’anno precedente (+5,2%) per effetti inflazionistici e variazione dei comportamenti di consumo.
I valori soglia sono differenti a seconda dell’ampiezza della famiglia, in quanto tengono conto delle economie di scala che è possibile realizzare all’aumentare del numero di componenti.
Tra il 2002 e il 2004 la situazione di povertà delle famiglie italiane resta pressoché stabile: nel complesso l’11,7% delle famiglie è da ritenersi povera, in crescita di 0,7 punti percentuali rispetto al 2002. La principale caratteristica della povertà italiana è quella di essere territorialmente concentrata: nel Mezzogiorno il tasso di povertà è più del doppio di quello nazionale e cinque volte di più rispetto a quello registrato nel Nord. Infatti il 4,7% delle famiglie residenti al Nord si trova in condizioni di povertà relativa, mentre al Centro e in particolar modo al Sud tale percentuale aumenta rispettivamente al 7,3% e al 25%. Inoltre, se al Nord e al Centro non si evidenziano sostanziali variazioni rispetto al 2002, nel Mezzogiorno la situazione peggiora di 2,6 punti percentuali.

Nella graduatoria delle regioni il Veneto risulta tra le meno povere con un’incidenza di povertà del 4,6%, per un totale di oltre 83.000 famiglie, dopo Emilia Romagna (3,6%) e Lombardia (3,7%); in linea con quanto accade in Italia la nostra regione non subisce cambiamenti significativi rispetto al 2002 e all’anno precedente.

Dal confronto tra la spesa mensile e la linea di povertà si individua il deficit della spesa che indica di quanto, in termini economici, necessita una famiglia per poter uscire dalla condizione di povertà; nel Veneto, tale valore si attesta nel 2004 a 181 euro contro i 252 a livello nazionale. Il 37,3% delle famiglie povere ha un deficit inferiore a 100, il 27,5% tra 100 e 200 euro mensili, mentre il 35,1% ha un deficit superiore a 200 euro mensili. Rispetto al 2002 diminuisce, inoltre, la percentuale di famiglie con le difficoltà maggiori, ossia con un deficit di oltre 200 euro mensili, contrariamente a quanto accade a livello italiano.

In situazioni meno disagevoli, ma comunque non facili, si trovano le famiglie giudicate a “rischio di povertà”, ossia le famiglie per cui la spesa media mensile risulta superiore, ma sempre piuttosto contenuta e limitata, in quanto non superiore al 20% del valore individuato dal livello standard di povertà; ad esempio per una famiglia di due persone il valore di riferimento risulta 1.103,98 euro.

In Veneto lo stato di quasi povertà interessa circa 84.000 famiglie, ossia il 4,6%, la stessa percentuale stimata per le famiglie povere; solo il Trentino-Alto Adige mostra un’incidenza percentuale più bassa (4,1%). In Italia l’incidenza è pari al 7,9%, con una distribuzione territoriale che evidenzia situazioni di maggior disagio passando dal Nord verso il Sud, dove il 12,5% delle famiglie sono a rischio di povertà.
Quanto al numero di persone coinvolte, si stima che circa 230.000 veneti, ossia il 5% dei residenti, vivano sotto la soglia di povertà, uno dei valori più bassi a livello regionale, e circa 225.000 siano a rischio povertà.

Inizio Pagina   5.8 La spesa per consumi delle famiglie

Nel corso del 2004, la spesa mensile sostenuta in media dalla famiglia veneta è di 2.716 euro, 335 euro in più rispetto a quella media nazionale, terzo posto tra le regioni italiane dopo la Lombardia e l’Emilia Romagna, 96 euro in più rispetto all’anno precedente.

Il maggior benessere di cui possono godere le famiglie venete consente loro di destinare una quota maggiore di reddito all’acquisto di beni non alimentari rispetto al resto delle famiglie italiane. La spesa per alimenti e bevande comunque continua ad assorbire una quota rilevante del bilancio familiare, il 16,2% della spesa totale, ma nettamente inferiore alla quota media nazionale (19%) e a quella registrata dalle famiglie residenti nel Mezzogiorno, che vi destinano addirittura circa il 24% del loro budget, fino a raggiungere un massimo di circa il 26% in Campania. Tra le regioni del Centro-Nord solo la Liguria e le Marche presentano quote di spesa per generi alimentari piuttosto elevate e pari circa al 20%, la prima essenzialmente perché caratterizzata da una popolazione molta anziana, la seconda per la presenza di famiglie numerose.
Le spese relative all’abitazione continuano ad essere le più rilevanti: l’affitto, il condominio, la manutenzione assorbono nel loro complesso un quarto della spesa complessiva delle famiglie venete. Proprio le spese sostenute per l’abitazione restano uno dei problemi più sentiti dalle famiglie venete: quasi il 69% nel 2003 dichiara di sostenere spese troppo elevate per l’abitazione in cui vive, che ormai nel 75% dei casi risulta di proprietà.
Tra le altre tipologie di spesa aumentano nell’ultimo anno, in particolar modo, quella per l’abbigliamento e le calzature (+19,8%), per i servizi sanitari (+14,6%), per i combustibili e l’energia (+7,1%) e quella per i trasporti (+ 5,7%), mentre cala essenzialmente la spesa per l’istruzione (-12,1%).
Nonostante alcuni elementi negativi della congiuntura rilevata negli ultimi anni, i comportamenti di consumo, in generale, non si sono modificati in modo sostanziale. Ciò che sembra invece essere diminuita è la propensione al risparmio delle famiglie, e non solo per cause strettamente finanziarie e di sfiducia nei confronti dei mercati. Infatti, per cercare di mantenere inalterato il proprio tenore di vita, le famiglie spendono in parte o totalmente le proprie entrate, senza riuscire a risparmiare, anzi in alcuni casi mettono mano ai propri risparmi e addirittura ricorrono a prestiti.
Rilevante è anche l’impatto della componente demografica straniera, sempre più diffusa nel nostro territorio, portatrice di particolari bisogni e servizi, diversi anche per la varietà di culture presenti. Gli stili di vita e i comportamenti di consumo sono altamente segmentati a seconda della provenienza degli immigrati, della disponibilità di reddito, ma anche del tempo di permanenza in Italia. Gli stranieri presenti solo da pochi anni nel nostro Paese sono condizionati dalla scarsa disponibilità di reddito, quindi costretti ad adottare comportamenti a basso tenore di consumo: le scelte di acquisto sono guidate essenzialmente dal fattore prezzo, si indirizzano verso i prodotti meno costosi e necessariamente di qualità inferiore, spendono quasi tutto lo stipendio per beni di prima necessità, senza poter programmare spese per beni durevoli. Quando, invece, la permanenza è di più lunga durata, e soprattutto vi è il progetto familiare di rimanere a lungo nel nostro Paese, grazie alla stabilità lavorativa e anche ad una maggiore integrazione sociale, i comportamenti di spesa iniziano ad essere più evoluti, più selettivi e per lo più orientati alla dotazione di beni durevoli, articoli di arredamento, nuovi elettrodomestici, ma anche prodotti elettronici e tecnologici, in una prospettiva di miglioramento della vita quotidiana. Inoltre, sono sempre di più le famiglie straniere che vogliono comprare casa e che si impegnano sottoscrivendo un mutuo: l’11,2% dichiara di aver attivato un mutuo per l’acquisto di una casa.
Secondo quanto emerge da una indagine campionaria condotta dal Censis nel 2005 sugli stili di consumo e l’accesso al credito degli immigrati residenti in Italia, anche per gli stranieri il budget familiare è destinato per buona parte alle spese di prima necessità (il 47%), ossia vitto e alloggio, e il 24% per spese correnti come il vestiario, i trasporti e le spese scolastiche. Rispetto alle famiglie italiane risulta più forte, invece, la propensione al risparmio (15% del budget familiare), cui si aggiungono le rimesse nei propri Paesi di origine (14%): il 67% degli intervistati dichiara di inviare regolarmente denaro nel proprio Paese e si stima che complessivamente si tratti di una cifra non inferiore ai 5 miliardi di euro nel 2004 (stima Caritas), se si considerano i flussi di denaro trasmessi attraverso i canali ufficiali e quelli non ufficiali.




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Note

  1. Le previsioni demografiche si basano sull’ipotesi di un ulteriore miglioramento dei livelli di sopravvivenza, anche se inferiori a quelli registrati nel più recente passato, e nel contempo su un aumento della fecondità, nel quadro di un processo di convergenza della fecondità nazionale con quella media dei Paesi dell’UE. Per quanto riguarda l’immigrazione si ipotizza l’apporto di circa 150.000 nuovi ingressi all’anno.
  2. I dati sono stati forniti dall’Osservatorio regionale per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Veneto.
  3. L’indagine sulla spesa familiare per consumi consente anche di individuare le famiglie particolarmente in difficoltà, povere o maggiormente a rischio di povertà. A livello regionale, infatti, l’Istat fornisce una stima della povertà tra le famiglie secondo la definizione di povertà relativa, basata sull’utilizzo di una linea di povertà (valore soglia utilizzato per discriminare le famiglie povere da quelle non povere), nota come International Standard of Poverty Line (ISPL), che individua come povera una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o pari alla spesa media per consumi procapite.

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Figura 5.2
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Figura 5.3
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Figura 5.5
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Figura 5.6
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Tabella 5.1
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Tabella 5.2
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Figura 5.7
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Figura 5.8
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Figura 5.9
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Tabella 5.3
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Tabella 5.8
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Figura 5.10
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Figura 5.12
Popolazione e famiglie - Figura 5.12
Figura 5.13
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