Per superare la crisi e garantire piena occupazione, è necessario sostenere tutta la popolazione, soprattutto le categorie che più facilmente rischiano di rimanere escluse dal mercato del lavoro. Aumentare la partecipazione al lavoro per le donne e i giovani è un passaggio obbligato per raggiungere gli obiettivi di competitività e crescita e le riforme in atto si stanno muovendo in questa direzione. Il decreto "salva-Italia" ha previsto l'istituzione di un Fondo per giovani e donne, al fine di incrementare la loro occupazione e stabilire un maggiore riequilibrio di opportunità tra le varie fasce della popolazione, attraverso la creazione di nuove possibilità di accesso nel mondo del lavoro, a condizioni meno svantaggiate di coloro che già sono stabilmente occupati e minori rigidità a tutela di pochi.
Giovani e lavoro: sopravvivere ai cambiamenti
In Italia i giovani si trovano oggi ad affrontare sfide e problematiche nuove rispetto ai loro coetanei delle generazioni passate, in una società sempre più competitiva che si confronta con gli altri Paesi europei.
Nel 2010 gli italiani tra i 15 e i 34 anni rappresentano il 22% della popolazione, quota in calo rispetto a dieci anni prima e anche in Veneto, dove sono poco più di un milione, si assiste a questo lento processo di "de-giovanimento", o "invecchiamento dal basso" della popolazione, conseguenza della bassa natalità e di una sempre maggiore longevità.
Investono sempre più nell'istruzione anche se rimane significativo il gap con gli altri paesi europei: la percentuale di laureati tra i 30 e 34 anni sale al 18,6% in Veneto e al 19,8% in Italia, in crescita anche nell'ultimo quinquennio, ma comunque ancora al di sotto della media europea (UE27 33,6%). Tuttavia il sistema formativo, che dovrebbe essere uno dei principali strumenti di promozione sociale, in Italia, più che altrove in Europa, non riesce ancora a colmare pienamente le disuguaglianze dell'origine sociale. E' indubbio che ci sia stato un innalzamento generale del livello di istruzione, ma il percorso verso una maggiore uguaglianza delle opportunità è stato solo parziale e rimane ancora forte il condizionamento dello status socio-culturale della famiglia di origine sulla scelta del tipo di studi già dalle scuole medie superiori, sulla probabilità di accedere all'università, specie ad alcune facoltà, nonché sul successo scolastico e sui successivi esiti occupazionali.
I percorsi di studio più lunghi rispetto ai coetanei europei, gli alti costi delle case e degli affitti, nonché le più difficili condizioni del mercato del lavoro, meno flessibile e remunerativo, di certo non aiutano i nostri giovani a realizzare i propri progetti di vita autonoma e indipendente. Si rimane a lungo in famiglia, ci si sposa più tardi e anche l'età in cui si diventa genitori è tra le più alte in Europa. Se nei Paesi del Nord Europa il distacco dalla famiglia di origine avviene presto, in genere entro i 25 anni e addirittura poco dopo il raggiungimento della maggiore età nei Paesi scandinavi, in Italia vi è la tendenza a restare con i genitori fin oltre i 30 anni: nel 2011 il 59% dei 18-34enni vive ancora come figlio nella famiglia di origine e in Veneto, la percentuale è solo di poco inferiore, 57,8%. Influisce sicuramente anche un fattore culturale, perché in Italia il legame con la famiglia è particolarmente forte e si mantiene a lungo intenso, tuttavia ciò va letto congiuntamente alla specificità dei regimi di welfare, assai poco generoso nei confronti dei giovani, e della famiglia in generale.
La crisi certamente ostacola i giovani nella decisione di lasciare il nido: anche tra quelli che hanno intenzione di farlo, molti sono frenati proprio dalle difficoltà economiche. Ad esempio, il 44% dei veneti di 18-34 anni che vivono ancora con mamma e papà dichiara di non poter uscire di casa perché non trova un lavoro o perché non può permettersi le spese per l'affitto o l'acquisto della casa.
Il problema abitativo è particolarmente sentito dalla fascia più giovane della popolazione e, come evidenziato dalle ricerche del CNEL
(Nota 1) sulle condizioni abitative dei giovani, le principali cause di disagio riguardano i costi insostenibili e l'assenza delle istituzioni, che sottovalutano il problema della questione abitativa tra gli under35; inoltre la difficoltà abitativa può limitare la mobilità territoriale di chi vuole perseguire opportunità di studio o di lavoro, traducendosi a volte in una rigidità del mercato del lavoro.
Accedere a una casa e sostenerne le relative spese diventa sempre più difficile, come espresso dall'indice sintetico di sostenibilità economica, che tiene conto dell'entità dei costi per la casa, di quanto incidono sul reddito e se alla famiglia rimangono risorse sufficienti da destinare ad altri consumi e per mantenere uno standard di vita accettabile. Si tratta di un indicatore compreso tra 0 e 100, dove 0 rappresenta la condizione peggiore e 100 la situazione più favorevole, cioè la massima sostenibilità. Se per la generalità delle famiglie venete l'indice, pari a 73 punti su 100, mostra un livello di sostenibilità economica dell'abitazione accettabile, per i giovani che vivono soli ne mette in evidenza invece la sofferenza, attestandosi su un valore di 43,5, in calo di quasi 10 punti rispetto a qualche anno prima.
Ciò nonostante i giovani si esprimono in genere positivamente e sono mediamente contenti della loro vita nel complesso, esprimendo un punteggio di circa 7 e mezzo su 10, in una scala che va da 0 a 10, dove 10 rappresenta la massima soddisfazione: particolarmente appagati dall'intensità delle relazioni, con familiari e amici (rispettivamente il 92% e il 90% dei giovani 15-34enni veneti), soddisfatti di ciò che riescono a fare nel proprio tempo libero, manifestano invece minore soddisfazione per la propria condizione economica (50%), soprattutto i giovani di età 25-34 anni e specie nell'ultimo periodo, e per la qualità del proprio lavoro (79%).
(Tabella 3.2.1)
Lavorare: scusate, possiamo entrare?
Sono dunque i giovani a soffrire di più della crisi. Il tasso di disoccupazione ufficiale, ossia quello calcolato sulla fascia d'età 15-24 anni, mostra un trend decisamente negativo. In Veneto, si è mantenuto al di sopra del 13% per tutti gli anni '90 per poi diminuire fino a raggiungere valori minimi nel 2002 e nel 2007 (rispettivamente 8,3% e 8,4%). La crisi ha poi sortito i suoi effetti: nel giro di pochi anni, la disoccupazione è cresciuta di oltre 11 punti percentuali e il numero di giovani veneti che cercano lavoro senza riuscire a trovarlo ha raggiunto nel 2011 le 30 mila unità; in Italia, la disoccupazione raggiunge livelli ancora più elevati segnando il 29,1% fra le forze lavoro, con picchi del 42-44% in alcune regioni del Sud come la Campania, la Sicilia e la Sardegna.
Nella classe d'età successiva, fra i 25 e i 34 anni, la condizione giovanile migliora significativamente: pur non raggiungendo i valori del resto della popolazione, il tasso di disoccupazione scende nel 2011 al 6,8% in Veneto e all'11,7% in Italia. Sono dunque gli under 25 a dover sopportare i maggiori effetti della crisi e le difficoltà le riscontrano proprio al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro: più della metà dei disoccupati, infatti, sono in cerca di prima occupazione.
Destano, poi, particolare preoccupazione i giovani che rimangono disoccupati per lunghi periodi di tempo: per circa 10 mila ragazzi, il 6,4% delle forze lavoro, lo status di disoccupato perdura per 12 mesi o più. La disoccupazione di lunga durata genera effetti molto negativi, soprattutto per i più giovani: da un lato, infatti, può portare a fenomeni di scoraggiamento, che si traducono poi in una totale rinuncia di ricerca di occupazione; dall'altro, un periodo prolungato al di fuori dal mercato del lavoro proprio agli inizi della carriera impedisce la crescita professionale, lo sviluppo di nuove esperienze e l'utilizzo delle conoscenze acquisite durante il periodo di studi. È dunque un circolo vizioso: più si rimane al di fuori del mercato, più difficoltà si incontrano nel cercare di rientrarvi.
(Figura 3.2.1)
Ancora più preoccupante la situazione di quei giovani che non lavorano, non studiano e non si formano, ossia i NEET, acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training. Dal 2007 al 2010 in Veneto sono passati da circa 35 mila a più di 65 mila, in termini percentuali dal 7,9% al 14,4% dei giovani in età 15-24 anni. In Italia la situazione è ancora più critica e, nell'ultimo anno per cui si hanno a disposizione i dati, superano il 19%. Si tratta soprattutto di giovani inattivi che non cercano attivamente lavoro, ma l'incremento nel tempo è legato piuttosto all'aumento dei disoccupati: nel 2007, anno in cui la quota di NEET ha registrato il valore più basso, in Veneto su 100 giovani in condizione di NEET, 32 erano disoccupati e 68 inattivi, nel 2010 si contano 42 disoccupati e 58 inattivi. In particolare è cresciuto il peso dei giovani in cerca di prima occupazione, passati da 5 a 15 mila, e quello degli ex occupati, ossia i giovani che hanno perso il lavoro e che sono alla ricerca di una nuova occupazione.
(Tabella 3.2.2)
I primi passi nel mercato del lavoro
Queste prime analisi hanno evidenziato come la crisi abbia peggiorato la situazione giovanile, aumentando soprattutto gli ostacoli e le barriere di accesso al mercato del lavoro. Ma all'uscita del sistema scolastico, quali sono gli strumenti a disposizioni dei giovani? Che difficoltà incontrano nel loro primo inserimento lavorativo?
Il 54% dei giovani veneti in età 15-34 che hanno concluso il percorso formativo si affaccia al mercato del lavoro con un diploma di scuola superiore, mentre il 14% con una laurea o un titolo superiore. Il rimanente 32% non ha raggiunto neanche il diploma e si appresta ad affrontare le prime esperienze lavorative con la sola licenza media. Fra questi ragazzi con basso titolo di studio, una quota significativa (29%) aveva iniziato a frequentare una scuola superiore, in seguito abbandonata a causa delle difficoltà incontrate negli studi. Se questi studenti non avessero lasciato gli studi, la quota di giovani con basso titolo di studio scenderebbe al 23%, mentre se i diplomati che hanno abbandonato un corso universitario avessero ottenuto la laurea, la quota di giovani con alto titolo di studio salirebbe al 19%. Si può quindi affermare che se ai giovani fossero dati più strumenti di sostegno durante il percorso scolastico, anche in termini di qualità e quantità di orientamento, il livello medio del capitale umano aumenterebbe velocemente.
Inoltre, l'85% dei 15-34enni usciti dal sistema scolastico ha avuto un'esperienza di lavoro superiore ai 3 mesi, valore che varia dal 79% dei giovani con basso titolo di studio all'88% di quelli con il diploma di scuola superiore. La laurea influenza i tempi di ingresso: il 55% dei laureati ha avuto la prima esperienza di lavoro significativa entro un anno dal conseguimento del titolo, mentre la stessa percentuale di giovani con titolo di studio basso l'ha trovato dopo un anno.
(Tabella 3.2.3)
Su 100 giovani che attualmente lavorano, 29 sono alla prima esperienza lavorativa e 71 si trovano almeno alla seconda. Per questo secondo gruppo di persone è possibile confrontare il primo lavoro con quello attuale, per analizzare i cambiamenti intercorsi. Ne emerge così che il 61% dei 15-34enni, pur avendo cambiato lavoro, continuano a svolgere la medesima professione, mentre il 20% ha migliorato la propria posizione. In questo contesto, i laureati cambiano lavoro in percentuale maggiore rispetto agli altri, ma soprattutto hanno più possibilità di miglioramento: per il 25% dei laureati veneti, l'attuale lavoro è migliore del primo, situazione che si verifica solo per il 15% dei giovani con solo la licenza media. Va, comunque, sottolineato che i laureati devono guadagnarsi il miglioramento della propria posizione professionale: devono, infatti, attendere mediamente cinque anni dal conseguimento del titolo per avere più probabilità di avanzamento.
In Italia, si osserva una situazione diversa: i laureati nel 70% dei casi mantengono la stessa professione e la laurea ha più un effetto protettivo contro la possibilità di peggiorare la propria carriera.
Per quanto riguarda, invece, le differenze di genere, sono le donne che più spesso migliorano il proprio lavoro: in Veneto, il gap uomo-donna sulla quota di persone che hanno avuto avanzamenti di carriera è di 7 punti percentuali a favore delle donne.
(Tabella 3.2.4)
Ma il cambiamento non si registra solamente in termini di aumentata professionalità, è necessario considerare anche la stabilità del posto di lavoro. Poco più della metà degli occupati ha iniziato il proprio percorso lavorativo con un tempo indeterminato e continua tuttora a mantenere tale tipologia contrattuale. Accanto a questa situazione considerata ottimale dalla maggior parte dei lavoratori, circa il 15% dei 15-34 enni è rimasto con un contratto a termine (tempi determinati, collaborazioni e prestazioni occasionali), mentre un ulteriore 14% è passato da un contratto a termine ad un tempo indeterminato.
L'analisi per titolo di studio segnala alcuni aspetti contrastanti. Da un lato, infatti, la percentuale di laureati che migliorano la propria stabilità lavorativa è superiore a quella dei giovani con titoli di studio inferiori, ma è superiore anche la quota di laureati che rimangono in condizioni di precariato e questo si verifica sia in Veneto che in Italia.
Come già visto per le posizioni professionali, anche per la stabilità del posto di lavoro i giovani devono attendere almeno cinque anni prima di vedere miglioramenti sostanziali: la percentuale di 15-34 enni che passano da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato è pari al 5% fra i giovani che hanno concluso gli studi da meno di tre anni, sale al 13% fra quanti sono usciti dal sistema scolastico da 3 a 5 anni, per raggiungere, poi, il 16% nel gruppo di quanti sono nel mercato del lavoro da più di cinque anni. Parallelamente la quota di giovani che rimangono in situazioni di precariato scende dal 44% per chi è uscito da poco dal sistema scolastico al 10% per chi è uscito da più di 5 anni.
(Figura 3.2.2)
Le donne, tra casa e lavoro
Conciliare famiglia-lavoro, come fare?
La condizione della donna nella società italiana è ancora contraddittoria: se da un lato assistiamo al crescere del livello di scolarizzazione femminile, già superiore a quello maschile, dall'altro persistono segnali di ritardo e situazioni di disuguaglianza di genere.
La scarsa presenza femminile nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di rilievo, unitamente a un tasso di fecondità tra i più bassi in Europa, evidenziano come la mancanza di adeguati servizi finalizzati alla conciliazione dei compiti di gestione della famiglia con il lavoro e con gli stili di vita, ricade ancora oggi prevalentemente sulle donne.
Le donne residenti in Veneto nel 2010 sono oltre due milioni e mezzo e circa il 64% è la quota di quelle in età lavorativa. A loro si chiede di lavorare, senza rinunciare ai figli. Divise tra lavoro, casa, cura dei figli ed eventualmente anche dei familiari anziani o disabili, le donne lavoratrici faticano perché impegnate su più fronti e non di rado risentono della mancanza di un aiuto all'interno della famiglia, ma anche di un sostegno esterno da parte del sistema pubblico di welfare.
La politica italiana di sviluppo regionale (QSN 2007-2013
(Nota 2)) attribuisce un ruolo chiave al miglioramento dei servizi essenziali, ponendosi tra gli obiettivi proprio quello di aumentare la diffusione dei servizi di cura all'infanzia e per l'assistenza agli anziani nel proprio domicilio per alleggerire i carichi familiari ed innalzare quindi la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni del Sud dove il problema è più sentito. Anche se cresce la presenza nel territorio di servizi pubblici per la prima infanzia, come asili nido, micronidi e servizi integrativi, tanto che nel 2009 il 78% dei comuni in Veneto è dotato del servizio (57% in Italia), i bambini che riescono ad accedervi sono ancora pochi, il 12,5% dei bambini sotto i tre anni. E limitata è anche la quota di anziani trattati in assistenza domiciliare, neanche il 6% della popolazione di 65 anni e oltre, pertanto è la donna che in molti casi deve sostenere l'onere della cura dei figli e dei familiari anziani o disabili, prevedendo per il futuro una situazione di faticosa sostenibilità.
Infine, persiste una forte disuguaglianza di genere anche nella divisione dei carichi di lavoro all'interno della famiglia. Nel 2008-09, nelle coppie in cui la donna ha tra i 25 e i 44 anni, ovvero si trova nella fase di vita in cui in genere si lavora e si diventa mamme, il 71% degli impegni familiari grava sulle donne. Seppur in costante diminuzione negli ultimi anni, si tratta comunque di un disagio diffuso e trasversale a tutto il Paese anche se al Nord si mantiene su livelli più contenuti (69%). In Italia, anche per ragioni culturali, l'uomo è poco partecipe nelle attività domestiche: le lavoratrici italiane, infatti, dedicano alla casa (per cucinare, pulire, badare ai figli, ecc...) quasi 4 ore al giorno, molto più di quanto non facciano le donne negli altri Paesi europei.
In tale contesto, le politiche per la conciliazione si propongono di fornire strategie che possano rendere compatibili lavoro e famiglia, consentendo a ogni individuo di vivere al meglio i diversi ruoli che ricopre nella società.
La Regione Veneto già da tempo promuove politiche per la conciliazione, attraverso la realizzazione di diversi progetti e recentemente, prima in Italia, ha introdotto un nuovo strumento internazionale denominato "Audit", già diffuso in Germania e in Austria. Si tratta di una certificazione rilasciata alle aziende che collaborano nel valorizzare il capitale intangibile, cioè le risorse umane, favorendo l'accrescimento delle competenze professionali e delle possibilità di carriera, tenendo conto della specifica fase di vita familiare vissuta da ciascun lavoratore.
Un'attenta organizzazione delle risorse umane, nella definizione di turni, orari flessibili di lavoro, telelavoro, part-time e altre facilitazioni ai dipendenti e alle loro famiglie, garantisce da un lato una gestione aziendale più efficiente e produttiva, dall'altro una riduzione dello stress, delle malattie, dell'assenteismo, della qualità di vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
(Tabella 3.2.5)
Figli e lavoro, una relazione in trasformazione
Migliori condizioni per le famiglie, maggiore attenzione ai bisogni dei minori e degli anziani e una più ampia offerta di servizi, sono tutti fattori atti a favorire il rinnovamento demografico, nonché un maggiore equilibrio tra vita e lavoro per le donne.
Fino agli anni '80, la relazione tra occupazione femminile e numero di figli era negativa, ovvero ad una fecondità alta corrispondeva una bassa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, viceversa nei paesi con un'alta proporzione di donne occupate, che sottraevano tempo e forze alla famiglia, la natalità era più bassa. In seguito, però, la relazione è cambiata: oggi sono i paesi a maggiore occupazione femminile ad avere generalmente anche un numero maggiore di figli e quelli con occupazione debole, come l'Italia, ad avere la riproduttività più bassa. Difatti, le trasformazioni degli ultimi decenni hanno spinto la donna nel mercato del lavoro per due ragioni principali: la prima è che il lavoro, e quindi l'autonomia economica che ne consegue, è un mezzo fondamentale di indipendenza e valorizzazione della donna, la seconda è che per vivere oggigiorno ad una famiglia non basta più un solo reddito, ma è necessario lavorare in due. In pratica, nei paesi in cui la conciliazione tra lavoro e vita privata è più complessa, i tassi occupazionali delle donne sono generalmente bassi e, allo stesso tempo, i tassi di natalità non sono alti poiché si ritiene di non potersi permettere di avere tanti figli. Le coppie decidono di mettere al mondo un figlio quando viene raggiunto un certo grado di sicurezza e di stabilità economica, quindi l'avere un lavoro è condizione necessaria per fare un figlio mentre non avere lavoro può essere una causa sufficiente per posporre o evitare una nascita.
Nei Paesi del Nord-Europa dove ci sono meno difficoltà a trovare lavoro e gli strumenti di conciliazione di famiglia e lavoro sono più avanzati, le donne scelgono di mettere al mondo un maggior numero di bambini, mantenendo tranquillamente la loro occupazione. E' il caso di Danimarca e Svezia che registrano sia i più alti tassi di occupazione femminili a livello europeo, nel 2010 superiori al 70%, che tra i più elevati tassi di fecondità (rispettivamente, nel 2009 un numero medio di figli per donna pari a 1,84 e 1,94). Bene anche la Francia che raggiunge l'obiettivo di Lisbona, censire il 60% delle donne occupate entro il 2010, con un numero medio di figli per donna pari a 2.
In Italia, invece, nonostante la crescita dagli anni novanta, la partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane bassa (46,1%) e in media una donna decide di avere 1,41 figli. In linea con i dati europei, nelle regioni del Nord-Italia a più elevati tassi di occupazione corrispondono più alti livelli di riproduttività, prime fra tutte Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Emilia Romagna con un'occupazione femminile intorno al 60% e tassi di fecondità superiori a 1,50. Viceversa, le regioni del Sud soffrono della difficile situazione lavorativa e conseguentemente, insicuri della loro stabilità economica, le coppie fanno meno figli.
(Figura 3.2.3)
Il Veneto è una delle regioni con la più forte propensione a crescere figli, nel 2009 1,46, ma ancora molto c'è da fare per raggiungere i livelli desiderati di occupazione: nonostante la crescita della partecipazione femminile al lavoro, dal 1993 oltre 11 punti percentuali, il tasso è fermo nel 2011 al 54,8%.
(Figura 3.2.4)
E' il caso, infine, di fare un appunto: alla ripresa della fecondità in Italia registrata negli ultimi anni, a cui hanno contribuito in prevalenza le regioni del Nord, ha pesato in parte anche la crescente presenza di persone straniere che mostrano una maggiore inclinazione ad avere figli.
La condizione occupazionale delle donne che vivono in coppia
Per approfondire quanto appena considerato, trattiamo la condizione occupazionale delle donne italiane che vivono in coppia in età 15-54 anni.
In Veneto quasi il 61% delle donne con un partner occupato lavora, contro il dato italiano pari al 50%, mentre le donne inattive che vivono del reddito del marito/compagno sono il 27,4% (32,4% in Italia). Ma le quote cambiano fortemente in presenza o meno di figli: sebbene nel confronto con il dato nazionale il Veneto evidenzi una situazione migliore, ben il 30% delle donne venete con figli rimane a casa mentre il marito lavora contro il 17% di quelle senza figli. Più alto è poi il titolo di istruzione più le donne sono inserite nel mercato lavorativo.
(Tabella 3.2.6)
E quando lavorano, le donne hanno occupazioni migliori del proprio partner per quasi il 39% dei casi. Ciò nonostante la retribuzione rimane sempre più bassa: guadagnano di più del proprio uomo solo il 18,3% delle venete, quattro punti percentuali in meno anche del dato italiano, mentre il 66% guadagna meno, di cui molte donne portano a casa uno stipendio inferiore di oltre 400 euro al mese rispetto al loro compagno. Più alto è il titolo di studio più fortunatamente il gap si restringe, ma se la coppia ha dei figli, la donna guadagna meno del proprio partner in misura maggiore di quelle che non hanno figli.
(Tabella 3.2.7)
Le difficoltà lavorative delle donne
Molte poi ancora le difficoltà incontrate dalle donne al lavoro.
Poca la flessibilità: oltre i due terzi delle donne venete occupate hanno un orario di entrata e di uscita dal lavoro stabilito in modo rigido e nessuna distinzione sia che si abbiano o non si abbiano figli. Se poi la donna ha un titolo di studio alto ha meno flessibilità rispetto al collega maschio con la stessa istruzione.
Un quarto delle donne non può variare neppure di un'ora l'entrata e l'uscita e oltre un terzo non ha la possibilità di assentarsi dal lavoro per una giornata senza chiedere ferie se ha problemi familiari.
Infine, ben il 55% delle donne con un figlio con meno di otto anni non ha preso la maternità facoltativa; in particolare, oltre il 14% perché trovava questo periodo poco o per niente retribuito e un altro 14,4% perché riteneva che avrebbe avuto effetti negativi sulla carriera o il datore di lavoro ha creato problemi o perché non c'era flessibilità nella scelta del periodo.