Capitolo 7

Ascoltare la popolazione per stare al passo dei cambiamenti

La dimensione della popolazione, la sua struttura e le sue caratteristiche sono elementi che nel lungo periodo influenzano la sostenibilità dello sviluppo.
Secondo le più recenti proiezioni dell'Eurostat, nel 2060 l'intera popolazione dell'Unione Europea dovrebbe risultare numericamente pressoché uguale a oggi, pur con diversità da Paese a Paese, tuttavia sarà nettamente più anziana. Il progressivo invecchiamento della popolazione si deve all'allungamento della vita media, grazie ai continui progressi della medicina, ma a questo si somma anche il calo della natalità, che porta a uno squilibrio sempre maggiore fra giovani e anziani, con profonde ripercussioni sul mercato del lavoro, sul sistema di assistenza pubblica e privata e su quello previdenziale.
Proprio l'invecchiamento della popolazione è una delle principali sfide che l'Unione Europea deve affrontare, soprattutto con l'avvicinarsi all'età della pensione della folta schiera dei figli del baby-boom. Se oggi si contano quattro persone in età lavorativa per ogni persona oltre i 65 anni, nel 2060 il rapporto sarà solo di due a uno.
Una recente analisi conferma che la forza lavoro continuerà a crescere ancora per i prossimi dieci anni, dato il previsto aumento dei tassi di occupazione e di partecipazione al lavoro, poi invece tenderà a diminuire. È in questi prossimi dieci anni che si intravede un margine di manovra per attuare riforme strutturali al fine di contrastare l'invecchiamento demografico. Non agire vorrebbe dire ridurre la capacità dell'Unione Europea di soddisfare i futuri bisogni di una popolazione che invecchia (Nota 1).
Nella strategia comunitaria sono cinque gli orientamenti politici a lungo termine, già individuati nell'ottobre del 2006 e tuttora validi, giudicati prioritari per far fronte all'invecchiamento della popolazione e per cogliere in questa sfida un'opportunità di crescita: favorire il rinnovamento demografico, promuovere l'occupazione e valorizzare il lavoro, rendere l'Europa più produttiva e dinamica, accogliere e integrare i migranti, garantire finanze pubbliche sostenibili così da assicurare un'adeguata protezione sociale ed equità tra le generazioni.
Il sostegno alla natalità, e quindi al rinnovamento demografico, passa attraverso politiche di supporto alle famiglie e di conciliazione tra lavoro e vita privata. L'aumento dell'occupazione deve coinvolgere tutte le fasce d'età, anche i lavoratori più anziani, per i quali vanno create condizioni lavorative adeguate, flessibili e di qualità, tali da favorire la scelta di posticipare la pensione e di rimanere ancora attivi nel mercato del lavoro. Questo richiede anche un ripensamento da parte di molti datori di lavoro, che continuano a mostrare pregiudizi sul rendimento dei lavoratori più anziani, senza valorizzarne l'esperienza e il sapere accumulato. Naturalmente, secondo la politica comunitaria, è inevitabile una riforma strutturale della sostenibilità del sistema pensionistico.
È chiaro che ha senso prolungare la vita attiva nel mercato occupazionale solo se si rimane in buona salute, da cui ne consegue la necessità di mettere in campo azioni di tipo sanitario, in particolar modo preventive e che incidano sulle abitudini e sullo stile di vita. L'invecchiamento attivo è il fine ultimo di questa strategia volta a migliorare la qualità di vita degli anziani: restare attivi nel mondo del lavoro, partecipare alla vita sociale e mantenersi in buona salute psico-fisica, come suggerisce lo slogan dell'Organizzazione Mondiale della Sanità "Aggiungere anni alla vita, aggiungere vita agli anni".
Per una maggiore sensibilizzazione su questo tema la Commissione Europea propone di proclamare il 2012 "Anno europeo per invecchiare attivamente e della solidarietà tra le generazioni", al fine di evidenziare quale contributo possono fornire alla società sia i giovani che gli anziani.
 
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7.1 La sfida dell'invecchiamento

"Invecchiare è un privilegio e una meta della società. È anche una sfida, che ha un impatto su tutti gli aspetti della società del XXI secolo". Con questo messaggio l'Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea come oggi la terza età si qualifichi realmente come nuova fase dell'esistenza, che può puntare a una migliore qualità della vita, ma che esige un'attenzione specifica da parte del sistema sociale anche in termini di sostenibilità della popolazione.
Da un punto di vista demografico il futuro di molti Paesi d'Europa, e in particolare dell'Italia, sembra abbastanza chiaro: la popolazione è destinata a invecchiare.
In un confronto internazionale si può notare la grossa disparità rispetto ai Paesi in via di sviluppo, dove il peso della componente giovane della popolazione è molto forte. Saranno queste zone a conoscere un maggior incremento della popolazione nei prossimi vent'anni, generando così una pressione demografica tale da incentivare ancor più i flussi migratori anche verso l'Europa. (Figura 7.1.1)
Considerando più nello specifico i Paesi europei e quelli vicini dell'area mediorientale, caucasica e dell'Africa mediterranea e Sub-sahariana si osserva una sorta di complementarietà; nel suo insieme l'area sembra mostrare, infatti, una certa sostenibilità demografica che va a compensare gli squilibri dei singoli stati: ad esempio i Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, con un eccesso di popolazione giovane e forti problemi di occupazione, controbilanciano le regioni europee, estremamente più vecchie e dove inizia a scarseggiare la popolazione in età lavorativa.
Il livello di sostenibilità demografica con cui ciascun territorio è chiamato a fare i conti si desume anche dal confronto nel tempo tra età media della popolazione e speranza di vita alla nascita. In Europa, dove le aspettative di vita sono già molto elevate, l'età media della popolazione è portata ad aumentare notevolmente nei prossimi decenni, anche per effetto dei bassi livelli di natalità, incrementando ancora di più lo squilibrio tra giovani e anziani. Diversamente, nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente le conquiste maggiori si avranno in termini di speranza di vita alla nascita; nel contempo l'età media avanzerà, ma non ai livelli dell'Europa: ciò porta a ipotizzare che, seppure le persone vivranno un po' più a lungo anche in questi territori, la quota di giovani sarà comunque preponderante per effetto di una sostenuta fertilità. (Figura 7.1.2)
All'interno dell'Unione Europea si osservano comunque delle differenze. Dopo la Germania, l'Italia è il secondo Paese più vecchio d'Europa, la percentuale di anziani è aumentata negli anni e le previsioni demografiche ne indicano un ulteriore incremento. Situazione analoga si presenta per Grecia, Portogallo e Svezia, mentre sono i Paesi dell'Est-Europa ad avere una popolazione più giovane. Il rapporto tra ultra 65enni e giovani in Italia ha assunto proporzioni notevoli e supera quota 144, vale a dire che gli anziani sono circa il 44 per cento in più dei giovani. Il Veneto si colloca al di sotto della media nazionale, con un indice di vecchiaia pari a 140. (Figura 7.1.3)
Il numero di ultra 65enni in Veneto, oggi più di 975 mila pari al 20% della popolazione, crescerà del 45% da qui a vent'anni; la variazione prevista sale addirittura al 67% per la fascia di età dei molto anziani, ossia di 80 anni e più, oggi oltre 277 mila persone. Un aumento più marcato riguarderà la popolazione anziana maschile, che rispetto a quella femminile può vantare maggiori margini di miglioramento in termini di speranza di vita: gli ultra 80enni uomini cresceranno in poco più di vent'anni del 101%, le donne del 52%. (Figura 7.1.4)
L'invecchiamento della popolazione può essere visto anche come un indicatore della crescente qualità di vita: a destare preoccupazione non è tanto l'aumento della vita media della persone, quanto il fatto che tale componente anziana viene con fatica controbilanciata da nuove nascite.
L'aspettativa di vita, infatti, è aumentata e le condizioni di salute degli anziani di oggi sono in generale buone e in continuo miglioramento. Le donne venete possono sperare di vivere in media fino a 85 anni, gli uomini fino a 79; tuttavia nel tempo il gap tra i generi va progressivamente colmandosi. Il Veneto è tra le regioni dove la speranza di vita delle donne è più elevata, terza dopo Trentino Alto Adige e Marche. Anche la speranza di vita a 65 anni è in miglioramento: le donne che arrivano a 65 anni in media possono sperare di vivere ancora 22,3 anni, contro il 18,3 dei maschi.
Ne è prova anche il fatto che in dieci anni il numero di ultra-centenari è più che raddoppiato, risultando in Veneto nel 2009 più di mille, il 7,2% di quelli presenti in Italia. (Figura 7.1.5)
Destano attenzione alcuni importanti conseguenze sociali ed economiche del fenomeno dell'invecchiamento. I territori in calo demografico e in cui la popolazione è prevalentemente anziana dovranno rivedere l'offerta di beni e servizi pubblici di base come la salute, il trasporto e la proposta residenziale; senza contare i cambiamenti negli equilibri familiari e l'aumento di potenziali anziani soli.
Gli effetti dell'invecchiamento si possono osservare anche sull'impatto che questo fenomeno ha in termini di protezione sociale nell'ambito delle pensioni. In futuro, vista la riduzione della popolazione in età lavorativa e la quota crescente di anziani che chiederà la pensione, i tassi di crescita economica potrebbero diminuire. In termini di previsioni, un aumento del numero di anziani mette a rischio la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, per questo anche a livello comunitario tale dibattito diventa centrale, avendo però al contempo cura di assicurare ai pensionati standard di vita soddisfacenti, nello spirito della solidarietà tra le generazioni.
Dal punto di vista economico gli anziani rappresentano un segmento vulnerabile della popolazione. In Veneto il 16,5% degli anziani è a rischio di povertà, più della popolazione complessiva (9,7%); maggiormente esposte le donne anziane, che incontrano serie difficoltà economiche date le pensioni mediamente più basse e di modesta entità: circa 1 su 5 è a rischio di povertà. In particolar modo emerge la fragilità degli anziani che vivono da soli, che sono soprattutto donne vista la loro longevità.
Mediamente un pensionato veneto vive con un reddito annuo di circa 11.300 euro (reddito mediano (Nota 2)), neanche mille euro al mese, poco meno della situazione nazionale.
Per valutare l'adeguatezza delle prestazioni pensionistiche e se queste consentono di conservare lo stesso tenore di vita dopo il pensionamento, la Commissione Europa suggerisce di mettere a confronto la condizione economica delle persone appena pensionate con quella di quanti nei prossimi anni dovranno ritirarsi dal lavoro, mediante il rapporto dei relativi redditi (tasso di sostituzione delle pensioni (Nota 3)). Valori prossimi a 100 indicano che ai neo-pensionati viene garantita una retribuzione pensionistica poco differente da quanto percepiscono i lavoratori prossimi alla pensione, quindi all'incirca quanto guadagnavano prima. Per il Veneto emerge una situazione abbastanza favorevole, se confrontata con le altre regioni: il reddito mediano degli appena pensionati costituisce il 60% del reddito mediano di coloro che si avvicinano alla pensione.
Nella media comunitaria il reddito degli anziani è pari all'84% rispetto a quello del resto della popolazione (reddito relativo degli anziani (Nota 4)), mentre il tasso di sostituzione delle pensioni si colloca al 49%. Tra i Paesi in cui le condizioni degli anziani sono più favorevoli, con un reddito relativo prossimo al 100% e tassi di sostituzione superiori al 55%, ci sono Francia, Austria e Lussemburgo; all'estremo opposto Lettonia e Cipro, con tassi di sostituzione appena del 30-35%. L'Italia si trova in una posizione intermedia e vicina alla media comunitaria. (Figura 7.1.6)
In un Paese dove la fascia giovane della popolazione è in diminuzione, importante per ristabilire l'equilibrio demografico è il contributo della componente migratoria, sia in termini di ingressi dall'estero che di nuove nascite. Le ripercussioni a lungo termine, però, restano difficili da prevedere con precisione, in quanto dipendono dalla natura più o meno restrittiva delle politiche di ricongiungimento familiare e dai modelli di natalità dei migranti.
Anche dal punto di vista più strettamente pensionistico, l'immigrazione potrà contribuire a ridurre provvisoriamente le conseguenze finanziarie dell'invecchiamento se gli immigrati regolarmente impiegati versano i contributi ai regimi pensionistici pubblici. Con il tempo, tuttavia, gli immigrati attivi accumuleranno i propri diritti pensionistici. Il loro contributo di lungo termine a un equilibrio duraturo delle finanze pubbliche dipenderà quindi dall'esistenza di regimi pensionistici opportunamente concepiti (Nota 5).

Figura 7.1.1

Invecchiamento della popolazione e saldo migratorio 2000-2005 nei Paesi del mondo

Figura 7.1.2

Crescita della popolazione futura nel 2030 e sostenibilità demografica negli anni 1950:2045 nell'area europea e mediterranea

Figura 7.1.3

Invecchiamento della popolazione e proiezioni future. Paesi UE27 - Anni 2000 e previsioni 2015 e 2030

Figura 7.1.4

Popolazione per classi d'età (valori percentuali). Veneto - Anni 1999:2009 e previsioni 2010:2030

Figura 7.1.5

Gli ultra-centenari (C) nelle province italiane (valori assoluti) - Anno 2009

Figura 7.1.6

Tasso di sostituzione delle pensioni e reddito mediano da pensione dei pensionati di 65 anni e più per regione - Anno 2008
 
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7.2 Integrare i migranti

Le migrazioni internazionali inducono molti Paesi, specie quelli dove i flussi migratori sono più recenti, come l'Italia, ad affrontare nuove sfide di gestione e integrazione del fenomeno. Inoltre, con i recenti allargamenti, sono entrati a far parte dell'Unione europea anche Paesi che conoscono intensi flussi di emigrazione verso altri Paesi comunitari.
Ci sono Paesi europei che hanno alle spalle un passato di immigrazione lontano, altri con una storia di accoglienza più recente: in conseguenza di questo ritardo, l'Italia mantiene un volume di presenza immigrata ancora contenuto e inferiore se confrontato a quello dei paesi storici di immigrazione e in linea con la media europea, ma gli attuali trend di crescita lasciano immaginare fra alcuni anni un peso degli stranieri ancora più consistente. Tuttavia, nel caso di confronti internazionali, è necessario avere cautela, poiché l'interpretazione del peso degli stranieri sulla popolazione dipende in buona parte anche da fattori di natura amministrativo-giuridica che possono incidere sulla definizione di immigrato: i confronti tra Paesi sono dunque influenzati non solo dalla storia immigratoria passata, ma anche dai sistemi amministrativi di registrazione di ciascun Paese e dai differenti ordinamenti giuridici che regolano gli ingressi, con il rischio che il confronto tra i numeri rifletta non solo l'entità del fenomeno, quanto piuttosto le diverse politiche migratorie degli stati coinvolti. (Figura 7.2.1)
Nel 2009 il saldo migratorio dell'Europa, nel suo complesso, è positivo. Tralasciando le dinamiche migratorie interne ai Paesi europei, si ipotizzano principalmente due fattori che aiutano a capire la provenienza dei flussi migratori da Paesi extra-comunitari verso il nostro continente. Il primo è la vicinanza geografica: la maggior parte degli stranieri proviene da Paesi europei non comunitari, come la zona balcanica o l'Europa orientale, molti altri da stati mediorientali o africani che si affacciano al Mediterraneo. La seconda chiave di lettura va ricercata nei legami coloniali, di storica origine, che evidentemente rappresentano vie privilegiate non solo dal punto di vista economico e commerciale ma anche demografico; basti pensare, ad esempio, al legame tra il Regno Unito e l'India, o tra la Spagna e il Portogallo con l'America Latina. (Figura 7.2.2)
La maggior parte dei migranti proviene da Paesi con livelli di sviluppo inferiori a quelli dei territori di destinazione. Alcuni stati africani che si affacciano sul Mediterraneo negli anni sono riusciti a migliorare la loro condizione socio-economica, altri, come molti Paesi dell'Est-Europa, hanno conosciuto un rallentamento e un calo dello sviluppo, come testimoniato dall'Indice di Sviluppo Umano elaborato dalle Nazioni Unite. (Figura 7.2.3)
Gli ingressi dall'estero rappresentano un'insostituibile risorsa per il mercato del lavoro e per la crescita demografica totale, contribuendo positivamente allo svecchiamento della popolazione e al recupero della natalità.
In Veneto l'immigrazione è un fenomeno decisamente consistente, anche più che a livello nazionale: ben l'11,3% degli immigrati nel nostro Paese ha scelto, infatti, il Veneto per stabilire la propria dimora, tanto da risultare la terza regione per attrazione dall'estero. Gli ultimi quattro anni sono eccezionali per il fenomeno migratorio e si contano tra il 2006 e il 2009 oltre 120 mila stranieri in più, anche se nell'ultimo anno si registra un aumento meno consistente rispetto agli anni precedenti.
Oggi gli stranieri residenti in Veneto sono 480.616 e rappresentano il 9,8% della popolazione, quota sensibilmente più rilevante rispetto all'intero territorio nazionale (7%) e secondo le previsioni Istat nel 2030 supereranno il milione, ossia oltre il 19% della popolazione complessiva. Il 49,2% sono donne e il fenomeno si contraddistingue anche per un'alta presenza di minori: quasi un quarto degli stranieri sono infatti minorenni (24,3%) a fronte del 22% in Italia. (Figura 7.2.4)
La Caritas/Migrantes, a partire dai dati Istat sugli stranieri residenti, stima la presenza immigrata regolare sul territorio, che risulta maggiore in quanto comprende anche gli stranieri presenti ma non residenti, perché non iscritti nelle anagrafi comunali (Nota 6). Secondo questa stima, gli stranieri in Veneto supererebbero le 550 mila unità. Se si considera anche la presenza irregolare, andrebbe aggiunto un numero di stranieri che, secondo la stima al 1 luglio 2009 dell'Osservatorio regionale sull'Immigrazione della nostra regione, oscillerebbe tra un minimo di 55.000 (più realistico) e un valore massimo di 90.000. Nonostante i recenti fatti di cronaca lascino pensare che la presenza irregolare sia frutto soprattutto di sbarchi di clandestini via mare o via terra, si deve considerare che prevalgono invece gli ingressi regolari, come turisti o come persone munite di visto per altri motivi, che una volta terminato il periodo di durata del visto si ritrovano nel nostro territorio come irregolari (i cosiddetti overstayers).
Un puzzle di etnie
Una delle peculiarità del fenomeno migratorio della nostra regione è la molteplicità dei Paesi di provenienza degli stranieri. Il Veneto si configura come un puzzle di differenti etnie che affonda le radici nella storia: nel corso degli anni si è assistito, infatti, a mutamenti nelle correnti migratorie, sia in termini di quantità che di nazionalità dei flussi. Oggi troviamo rappresentati tutti e cinque i continenti per un totale di 169 nazionalità.
Il primato spetta al comune di Verona, con 142 nazionalità di stranieri diverse, seguono Venezia, Padova, Vicenza e Treviso, con un numero ben superiore al centinaio. Oltre ai comuni capoluogo, sono soprattutto i comuni della fascia centrale del territorio quelli in cui si concentrano più etnie differenti. Spiccano le province di Treviso e di Venezia, dove la grande maggioranza dei comuni ha al suo interno almeno 30 etnie diverse; nella provincia euganea, invece, è l'alta padovana a mostrare una concentrazione più varia di nazionalità. (Figura 7.2.5)
Le cinque nazionalità di stranieri più presenti nel territorio regionale sono, nell'ordine, Romania, Marocco, Albania, Moldavia e Cina, che insieme coprono oltre la metà degli immigrati residenti. Solo i rumeni rappresentano più di un quinto (20,2%) di tutti gli stranieri del Veneto. Dopo l'ingresso della Romania nell'Unione Europea c'è stato un incremento notevole degli stranieri in Veneto, alcuni già presenti sul territorio e semplicemente regolarizzati, altri frutto di uno spostamento repentino dalla Romania: basti pensare che fino al 2006 gli stranieri comunitari residenti in Veneto non raggiungevano il 5%, nel 2009 invece il 24,8% proviene da un paese dell'Unione, frutto quasi esclusivamente del contributo rumeno, sorpassando la quota di presenze degli africani (23,4%), pur restando inferiore al peso dei cittadini dell'Europa Centro-orientale non comunitari (30,9%). Oggi però si assiste a una fase di stabilizzazione del flusso, tanto da giustificare l'incremento meno sostenuto di stranieri nell'ultimo anno rispetto a quanto avvenuto tra il 2007 e il 2008.
Per conoscere la distribuzione territoriale di una certa comunità si propone l'indice di diffusione, come percentuale di comuni del territorio regionale in cui si registra almeno una presenza appartenente a quella comunità: valori pari a 100 indicano che la nazionalità ha una distribuzione capillare sul territorio, mentre valori prossimi a 0 che si concentra in pochi comuni. La comunità più diffusa è quella rumena (indice pari a 97,6), presente in tutti i comuni delle province di Padova, Rovigo, Treviso, Venezia e Verona. Seguono Marocco, Moldavia e Ucraina, quest'ultima comunità più radicata nella provincia di Belluno. Altre nazionalità come Serbia e India, seppur abbastanza diffuse nella nostra regione, risultano meno equamente distribuite sul territorio. (Figura 7.2.6)
Scegliere l'integrazione
L'integrazione è una sfida all'interno di una società e presupposto di una convivenza pacifica, a maggior ragione quando si tratta di gruppi di cittadini stranieri.
Si tratta di una questione molto calda nel nostro territorio, dalla cui gestione più o meno accurata dipende il futuro non solo economico, ma anche sociale e culturale del nostro Veneto.
L'integrazione, in un'ottica a lungo termine, mira a stabilire fra i membri di una società, migranti inclusi, relazioni su base di uguaglianza, reciprocità e responsabilità. L'integrazione diviene una sfida ancora più impegnativa in quei territori, come la nostra regione, dove si vengono a concentrare molte etnie differenti, con condizioni socio-economiche di partenza anche molto diverse. Ciascun straniero che arriva in un Paese, prima di insediarsi stabilmente e integrarsi, porta infatti con sé non solo il proprio bagaglio culturale ma anche l'impronta della condizione sociale, economica e di sviluppo che caratterizza la sua patria.
L'indice di Sviluppo Umano, elaborato dalle Nazioni Unite per tutti i Paesi del mondo (United Nations, Human Development Report 2010), considera la qualità di vita di un Paese in termini non solo economici, ma valutando altre dimensioni fondamentali come una vita lunga e sana, l'accesso alla conoscenza e uno standard di vita dignitoso (Nota 7). A partire da questa misura di sviluppo, a ciascun cittadino straniero si è applicato il valore dell'indice del proprio Paese di origine, calcolando così la media dell'indice per tutti i comuni del Veneto. I territori che accolgono cittadini con livelli di sviluppo più bassi sono quelli a cavallo delle province di Vicenza e Verona, fino a estendersi alla bassa veronese e ad alcuni comuni delle province di Rovigo e Padova. Diversamente, le zone montane delle province di Verona, Vicenza e Belluno ai confini con il Trentino accolgono stranieri provenienti mediamente da realtà meno disagiate. (Figura 7.2.7)
Una vera integrazione passa attraverso varie tappe e livelli. Si parla di integrazione quando gli stranieri riescono a ritagliarsi il proprio spazio nella società, nel mondo del lavoro e dell'istruzione, potendo godere di alcuni diritti. Non può realizzarsi, infatti, vera integrazione senza che il tessuto politico ed economico di un territorio non dia vita a strategie per coinvolgere attivamente gli stranieri nella vita pubblica e sociale.
Un cantiere ancora aperto quello dell'integrazione socio-economica: al giorno d'oggi gli stranieri vivono ancora situazioni lavorative meno favorevoli dei coetanei italiani e anche per questo sono tra i più colpiti dalla crisi economica. In Veneto nel 2009 il tasso di disoccupazione per gli stranieri sale all'11,5%, 2,6 punti percentuali in più rispetto all'anno precedente, quando per gli italiani sfiora il 4%. La perdita del lavoro e il prolungarsi dello stato di disoccupazione spingono molti stranieri a valutare l'ipotesi di ritornare nel proprio Paese d'origine, dove almeno il costo della vita è più basso e si può contare sulla vicinanza dei familiari. È una decisione impegnativa, che, specie per chi è in Italia da molto tempo, può essere vissuta con un senso di fallimento e quindi rimandata il più possibile. Tuttavia, solo nel 2009 hanno lasciato il Veneto per recarsi in un altro Paese straniero, spesso quello d'origine, l'11% degli immigrati residenti; si tratta di oltre 5 mila persone, il 19% in più rispetto all'anno precedente.
Tra quanti lavorano, il 40,3% degli stranieri risulta sotto inquadrato, contro il 17,1% dei lavoratori italiani. Tale condizione, seppur migliore rispetto alla media nazionale, è peggiorata negli anni, e recentemente forse anche a causa della crisi economica. Questo si riflette in termini monetari sullo stipendio: in Veneto uno straniero a tempo pieno guadagna mediamente circa 150 euro in meno di un italiano, tuttavia il gap è il più basso tra le regioni. Per un approfondimento sulla situazione lavorativa degli stranieri si veda il capitolo 11). (Figura 7.2.8)
Le fatiche relative alla situazione economica coinvolgono diverse famiglie di stranieri, che non sono in grado di assicurarsi uno standard di vita considerato accettabile. Ad esempio, nelle regioni del Nord-Est 38 su 100 sono in situazione di deprivazione materiale, ossia in mancanza forzata di alcuni beni di base (Nota 8), mentre questa condizione interessa neanche 8 tra le famiglie di soli italiani. Molte hanno arretrati nei pagamenti e il 65% delle famiglie di stranieri in Italia dichiara di non essere in grado di far fronte a spese impreviste.
Anche dal punto di vista abitativo, le famiglie di stranieri soffrono condizioni di maggiore fatica. Vivono per la grande maggioranza in affitto, spesso con problemi di sovraffollamento e di scarsa qualità dell'alloggio. Si tratta di abitazioni non sempre dotate di tutti gli elettrodomestici e i comfort che possiamo trovare nelle case degli italiani: all'inizio, infatti, il migrante è più preoccupato ad affrontare i problemi connessi all'inserimento nella comunità ospitante, compreso quello di trovare un alloggio adeguato. (Tabella 7.2.1) e (Figura 7.2.9)
Si raggiunge integrazione a livello socio-culturale quando si viene a creare una convivenza non conflittuale tra culture, stili di vita e religioni, che può essere ottenuta anche attraverso la partecipazione dei migranti a forme associative di vario genere, all'insegnamento della lingua, al coinvolgimento degli stranieri nelle iniziative del tempo libero.
Questo tipo di integrazione è forse quella più capillare, perché va a incidere non solo sulle strutture sociali ed economiche di un territorio, ma coinvolge il singolo cittadino nella sua mentalità, nella sua cultura, nella sua predisposizione al dialogo e all'accoglienza. L'integrazione, infatti, è innanzitutto una questione di relazioni tra persone di diverse appartenenze e identità, che condividono però lo stesso spazio fisico e sociale: non si incontrano e scontrano, quindi, solamente culture o idee, ma persone in carne e ossa.
Per questo è quella che richiede anche più tempo, ma che se ben radicata getta buone basi per provvedimenti di natura politica.
Oggi il fenomeno dell'immigrazione non è sempre percepito come una risorsa e un'opportunità: nel 2009 il 39% dei veneti ritiene l'immigrazione uno dei problemi prioritari del nostro Paese, dopo disoccupazione e criminalità, più della media nazionale (30%). Ciò fa ritenere il processo di integrazione una realtà ancora in atto e in continua evoluzione, che richiede sempre nuovi sforzi e strategie anche per evitare sentimenti di aperta ostilità verso le nuove popolazioni.
Dal punto di vista della partecipazione sociale, nella nostra regione sembra che gli stranieri stiano un poco alla volta cercando il loro spazio. Cresce, infatti, il numero di associazioni e di iniziative che coinvolgono gli immigrati, occasione per favorire un'integrazione pacifica nel nostro tessuto sociale. Sono 81 nel 2010 le associazioni di immigrati riportate nel registro regionale per l'immigrazione del Veneto, 124 invece le associazioni per gli immigrati. A queste si aggiungono altre 29 associazioni che non fanno capo a questo registro, ma comunque presenti e operanti sul territorio.
Molte anche le richieste di autorizzazioni per manifestazioni pubbliche da parte di stranieri, così come le iniziative di mediazione culturale. (Tabella 7.2.2)
Decisivo per il processo di inserimento pacifico degli stranieri in una società è anche un tipo di integrazione detta "legale", presupposto indispensabile perché l'integrazione sociale e culturale possa divenire duratura. Per integrazione legale si intende la possibilità per gli stranieri di acquisire la cittadinanza del Paese in cui risiedono, conseguendo quindi pari diritti della popolazione locale.
La disciplina dell'accesso alla cittadinanza dovrebbe configurarsi come uno strumento per favorire l'integrazione. Attualmente nel nostro Paese vige il criterio dello ius sanguinis, ossia la cittadinanza viene trasmessa per discendenza. Si discute se tale principio sia orientato ad agevolare l'inserimento degli immigrati, o se piuttosto sia preferibile il criterio vigente in altri Paesi dello ius soli, che valorizza la nascita nel territorio e dove è l'ambiente a emergere come un fattore di integrazione. A questo fine sono in corso proposte di revisione dell'attuale normativa.
In Veneto il fenomeno delle concessioni di cittadinanza appare in continua crescita, specie a partire dal 2005: in cinque anni le concessioni sono più che raddoppiate e nel 2009 si contano 4.495 rilasci di cittadinanza, il 10,9% dell'ammontare complessivo italiano. Negli ultimi due anni la maggior parte delle cittadinanze italiane sono ottenute per motivi di residenza (naturalizzazione ordinaria), contrariamente alla tendenza degli anni precedenti in cui prevaleva il motivo del matrimonio, specie per le donne. A livello nazionale la distribuzione delle concessioni di cittadinanza per Paese di provenienza risulta simile, almeno per le prime posizioni, alla distribuzione degli stranieri sul territorio: prevalgono gli albanesi (15,2%), seguiti da marocchini (14,8%) e rumeni (5,1%). (Tabella 7.2.3)
Per gli stranieri il matrimonio rappresenta un'importante tappa del percorso migratorio che li ha portati a vivere in Italia e nella nostra regione. Per il territorio che accoglie l'immigrato, invece, il matrimonio può divenire uno dei modi perché l'integrazione non sia solo "legale", ma investa anche la sfera socio-economica e culturale. Si può ipotizzare che le coppie miste siano generalmente il segno del crescente livello di integrazione sociale degli immigrati, mentre le unioni tra stranieri segnalino la transizione verso uno stadio più maturo della presenza straniera. Nel 2009 una famiglia su dieci in Veneto ha almeno uno straniero (209.342), in crescita del 16,5% rispetto al 2007.
Nel 2009 un quinto dei matrimoni in Veneto coinvolge almeno uno sposo straniero (3.588), l'11% in Italia, quota che fin dalla metà degli anni Novanta ha conosciuto un continuo e rapido incremento, tanto da risultare oggi più che triplicata rispetto al 1995. La tipologia più consistente è rappresentata dai matrimoni misti, celebrati cioè tra cittadini italiani e stranieri, il resto è costituito da sposi entrambi stranieri, quota però che si riduce ulteriormente se si considerano solo quelli in cui almeno uno dei due sposi stranieri risiede in Veneto. Quando la coppia è mista (1.936 matrimoni nel 2009), nel 78,9% dei casi è la sposa ad avere cittadinanza straniera. La frequenza dei matrimoni misti è proporzionale all'incidenza della presenza straniera: sono più diffusi al Nord e al Centro dell'Italia, ossia nelle aree dove più stabile e radicato è l'insediamento delle comunità immigrate, più contenuto il fenomeno invece al Sud e nelle Isole. Gli stranieri di coppie miste provengono quasi sempre da Paesi a forte pressione migratoria: i veneti che sposano una cittadina straniera scelgono donne dell'Europa dell'Est o dell'America centro-meridionale, mentre gli sposi hanno più frequentemente origini africane. Tra i soli Paesi europei, le straniere che sposano un veneto provengono soprattutto da Romania, Moldavia, Ucraina, Polonia e Albania; gli uomini stranieri invece da Albania, Regno Unito, Francia, Germania e Romania. (Figura 7.2.10)
Sostenere l'immigrazione d'emergenza
Trovare il giusto equilibrio tra flussi migratori e sostenibilità dell'accoglienza di un territorio è fondamentale anche per la messa in atto di efficaci politiche di integrazione. Ciò aiuta a evitare ulteriori tensioni nella società, oltre a quelli che già possono esserci di natura fisiologica dovute alla convivenza tra persone di culture differenti. Ogni forte ondata migratoria nel nostro Paese viene spesso percepita, infatti, come un potenziale pericolo, che può avere ripercussioni negative su questioni di stabilità e sicurezza.
Trovarsi ad affrontare situazioni di emergenza, più o meno frequenti, non deve comunque ridimensionare l'importanza di mettere in atto solidi percorsi di inclusione degli immigrati e delle loro famiglie.
Lo ha sottolineato anche Papa Benedetto XVI nella recente visita a Venezia alle Chiese del Triveneto, dove ha evidenziato il rischio di chiudersi di fronte alle sfide che la società di oggi chiede di affrontare: "la paura degli altri, degli estranei e dei lontani che giungono nelle nostre terre sembrano attentare a ciò che noi siamo" e ha sottolineato come "le Chiese generate da Aquileia sono chiamate oggi a rinsaldare quell'antica unità spirituale, in particolare alla luce del fenomeno dell'immigrazione e delle nuove circostanze geopolitiche in atto". Tale invito è stato accolto dallo stesso Presidente della Regione del Veneto, che ha commentato mettendo in luce l'esigenza di "cogliere il senso autentico dell'accoglienza, che deve essere ordinata e rispettosa della dignità umana di tutti i popoli e non destinata a produrre altro disordine o perniciose tensioni sociali".

Stranieri che richiedono asilo

Alla migrazione volontaria e ragionata di stranieri che scelgono il nostro territorio per insediarsi, magari con la prospettiva a lungo termine di porre stabilmente la propria dimora, si affianca una migrazione più forzata, costituita da persone costrette a fuggire dalle proprie terre di origine a causa di persecuzioni, rivalità etniche o conflitti.
La Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo si occupa delle persone straniere che richiedono protezione internazionale. Coordina le Commissioni territoriali, che in modo decentrato esaminano le istanze di riconoscimento dello status di rifugiato, raccogliendo le informazioni a livello centrale. Ciascuna Commissione territoriale ha competenza sulle domande presentate in territori sovra-regionali; per i territori di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia si fa riferimento alla commissione di Gorizia.
Con molta probabilità la politica di respingimenti verso la Libia degli immigrati irregolari, realizzata dal Governo italiano a partire da maggio 2009, sembra aver avuto come conseguenza anche una riduzione delle domande di asilo. Le domande di asilo politico pervenute alla Commissione di Gorizia al 31 dicembre 2009 sono 1.383, quasi il 9% delle domande complessive a livello nazionale, in calo rispetto al 2008, anno in cui si registra in Italia il numero di domande più elevato.
Nel 2009 si sono esaminate però 2.107 domande, che comprendono quelle presentate nell'anno più alcune domande non ancora esaminate nell'anno precedente. Di queste, ben il 68,2%, pari a 1.437 richieste, sono state respinte. (Figura 7.2.11)

Il "superiore interesse" dei minori

Tra gli stranieri che arrivano nel nostro territorio, non tanto per scelta quanto per necessità, ci sono anche molti minori, che spesso giungono in Italia da soli senza la vicinanza di un familiare.
Nel panorama internazionale i minori migranti sono i nuovi protagonisti dei processi migratori; il loro numero è drammaticamente aumentato e costituiscono in molti Paesi di destinazione un segmento importante della popolazione alla ricerca di protezione e asilo.
Per minore straniero non accompagnato si intende un minorenne senza cittadinanza italiana che, non avendo presentato domanda di asilo politico, si trova nel nostro territorio privo di assistenza o rappresentanza da parte di genitori o altri adulti per lui responsabili. In tali condizioni il ragazzo non può essere espulso, ma ha il diritto di ricevere protezione e di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di minore età, valido fino al raggiungimento dei diciotto anni; deve essere accolto in luoghi sicuri e preso in carico dai servizi sociali dell'ente locale competente.
Possono essere minori che migrano volontariamente, ma anche vittime di tratte o di sfruttamento. Questo richiede una complessità nella gestione degli interventi, in relazione ai bisogni estremamente diversificati: azioni di prima accoglienza ma anche percorsi di formazione e di inserimento, fino alla necessità di trovare soluzioni adeguate una volta raggiunta la maggiore età.
Vi è, infatti, il timore che all'approssimarsi dei 18 anni i minori non si trovino in possesso dei requisiti richiesti per non essere espulsi e ottenere un permesso di soggiorno per lavoro o studio, e si sottraggano alla tutela dei servizi sociali, andando incontro a pericoli tali da compromettere la loro incolumità, oltre che ad accrescere sacche di emarginazione.
I minori stranieri non accompagnati presenti in Italia e segnalati al Comitato per i Minori Stranieri (CMS) (Nota 9) da gennaio a dicembre 2010 sono 4.438. Il dato tuttavia sottostima il fenomeno perché non comprende i minori comunitari, quelli vittime di tratta e i richiedenti asilo. Diversi minori, inoltre, sfuggono alle istituzioni, non vengono segnalati e individuati dalle autorità competenti, con il rischio che si trovino a vivere per strada in situazioni di sfruttamento e di oggettivo pericolo, in dimore di fortuna o altre soluzioni precarie.
Accade anche che alcuni ragazzi, privi di documenti, dichiarino la maggiore età nella speranza di non essere trattenuti nelle strutture per minori e di trovare più facilmente un lavoro; in questo caso il rischio è che possano essere condannati per il reato di ingresso e soggiorno illegale, espulsi, rimpatriati o trattenuti in centri per migranti adulti.
Fino al 2009 in media ogni anno venivano segnalati al CMS circa 7 mila minori stranieri non accompagnati; il dato ora è sceso a seguito dell'ingresso della Romania e della Bulgaria nell'Unione Europea, oltre il 30% dei minori non accompagnati in Italia proveniva infatti dalla Romania, ma anche per effetto delle nuove misure in politica di immigrazione e sicurezza adottate dal Governo italiano. Infatti, a seguito degli accordi con la Libia, a partire dal maggio 2009 è stato predisposto il pattugliamento congiunto delle sue coste e il rinvio nella stessa Libia dei migranti intercettati in acque internazionali: tra questi ci sono uomini adulti, donne ma anche minori stranieri, principalmente non accompagnati.
In Veneto mediamente la quota di minori non accompagnati segnalati al CMS risulta tra il 4 e il 5% del totale delle segnalazioni, circa 300 all'anno; nei primi sei mesi del 2010 se ne contano 267, quasi la metà nella sola provincia di Venezia (Nota 10).
Più di tre quarti dei minori non accompagnati giunge in un'età compresa tra i 16 e i 17 anni. Questo avvalora l'ipotesi che quella dei minori sia una migrazione di riserva per l'immigrazione adulta, che invece presenta più problematiche; in tal senso "il minore, se riesce nel suo percorso migratorio, può portare reddito e diventare migrante economico" (Vicepresidente CMS).
Una volta segnalato, il minore viene preso in carico dai servizi sociali del comune dove è stato rintracciato, e sistemato in un ambiente idoneo, in affido presso famiglie o più spesso in comunità di accoglienza di minori. Nel contempo al ragazzo viene assegnato un pubblico tutore, nominato dal Giudice Tutelare dei minori, che lo accompagna fino al raggiungimento della maggiore età, affiancandosi ai soggetti socio-sanitari ed educativi coinvolti nel percorso di crescita e di integrazione. Nel contempo il CSM si preoccupa di identificare il minore e, in collaborazione con le autorità consolari dei Paesi di origine e con l'Organizzazione Internazionale per i Migranti (OIM), di verificare se nello stato di provenienza ci sono le condizioni ambientali, di sicurezza e familiari per provvedere al rimpatrio assistito o, altrimenti, alla permanenza in Italia, nell'esigenza di garantire la massima protezione come interesse primario del minore. La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata dall'Italia nel 1991, afferma infatti che il fondamentale principio del "superiore interesse del minore" dovrebbe essere assunto come preminente criterio di scelta in tutte le decisioni che riguardano la vita e il futuro di ogni minore.
Nelle strutture di accoglienza per minori, secondo una recente indagine svolta dall'Anci, che monitora il Programma nazionale di protezione dei minori stranieri non accompagnati, al 31 dicembre 2008 sono 7.216 i minori stranieri non accompagnati presi in carico dai servizi sociali dei comuni italiani, di cui 636 in Veneto. È comunque molto difficile reperire dati precisi sul fenomeno, dato l'alto tasso di mobilità sul territorio di questo gruppo di stranieri e la loro tendenza a sfuggire alle istituzioni.
Infine, a partire dal 2007, all'arrivo di frontiera il minore non accompagnato richiedente asilo ha la possibilità di essere collocato in una struttura del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar (Nota 11)), limitatamente ai posti disponibili. I minori stranieri non accompagnati richiedenti protezione internazionale accolti nelle strutture dello Sprar sono passati in Italia da 31 nel 2006 a 197 nel 2007, fino a 409 nel 2008, per scendere a 320 nel 2009.

Gli ingressi irregolari

Per un territorio sostenere l'impegno di un'integrazione efficace della popolazione straniera passa anche attraverso il controllo dell'arrivo degli irregolari. Tenere monitorato il fenomeno permette di conoscerne l'entità, senza il rischio che la gestione dell'accoglienza del migrante sfugga di mano.
Rispetto al 2009 gli sbarchi via mare sono diminuiti sensibilmente, passando dai quasi 37 mila del 2008 a neanche 10 mila del 2009, e il trend sembra in ulteriore decrescita visto che nei primi otto mesi del 2010 sarebbero poco più di 2.200. Anche in questo caso l'intensificazione dei controlli negli ultimi anni e gli accordi bilaterali stipulati con i Paesi del Nord Africa, specie con la Libia, sembrano aver contribuito a scoraggiare le partenze verso le nostre coste, inducendo probabilmente a sperimentare anche nuove modalità di ingresso o nuove direttrici, come testimoniato dall'incremento dei flussi verso la Grecia, Cipro e isole Canarie (Nota 12).
Approdano sulle coste di Calabria, Puglia, Sardegna e Sicilia, e qui soprattutto a Lampedusa (nel 2008 l'83% degli sbarchi ha raggiunto il nostro Paese tramite Lampedusa). Non solo la percezione che si ha dalle notizie dei giornali, ma anche il numero medio di persone per imbarcazione lascia supporre che il traffico di immigrati non sia frutto di tentativi improvvisati, individuali o di piccoli gruppi, ma faccia riferimento a una struttura organizzata degli spostamenti; basti pensare che, secondo i dati del 2008, i clandestini approdati in Sicilia viaggiavano in media in gruppi di quasi 70 persone. Sono per la maggior parte uomini, quasi sempre provenienti dai Paesi del Nord-Africa che si affacciano sul Mediterraneo. (Tabella 7.2.4)
Per quanto riguarda l'attività di contrasto, anche identificazione e respingimenti di clandestini hanno conosciuto una decisiva flessione: rispetto a dieci anni prima, nel 2009 sono più che dimezzate le persone rintracciate in posizione irregolare. La diminuzione dei respingimenti degli ultimi anni si può attribuire anche all'ingresso di Romania e Bulgaria nell'Unione Europea, precedentemente infatti i cittadini di questi due Paesi rappresentavano una quota molto consistente degli espulsi alla frontiera.
I motivi per cui oggi solo una parte minoritaria viene rimpatriata hanno diversa natura, tra cui ad esempio la scarsità delle risorse materiali e umane a disposizione o le difficoltà a dare un'identità certa allo straniero e a individuarne con precisione la provenienza: si tenga presente, infatti, che l'Italia, in quanto firmataria della Convenzione di Ginevra, ha l'obbligo del non respingimento di persone riconosciute come bisognose di protezione internazionale (Nota 13). (Tabella 7.2.5)

In fuga verso la democrazia

I recenti gravi avvenimenti che hanno interessato i Paesi del Nord-Africa hanno comportato spostamenti di interi gruppi di popolazione, non solo via terra tra stati africani limitrofi, ma anche via mare verso Malta e Italia. Ad esempio, secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, al 10 aprile erano 498.313 le persone fuggite dalla violenza in Libia attraverso i confini terrestri, per lo più in Tunisia (236.151) e in Egitto (199.700), ma anche in Niger, Algeria, Ciad e Sudan.
Le fughe via mare sono più contenute: la stessa fonte rivela che a metà aprile dalla Libia sono approdate circa 1.100 persone a Malta e circa 3.300 a Lampedusa. L'aggiornamento degli sbarchi in Italia al 3 maggio parla complessivamente di 8.100 persone arrivate a Lampedusa dalla Libia, mediamente circa 208 persone al giorno, con picchi più o meno intensi tanto che si è arrivati a sfiorare la soglia di quasi un migrante per abitante, in un territorio di appena 20 kmq.
Lampedusa non è sicuramente estranea al fenomeno degli sbarchi, in situazioni di normalità affronta e riesce a gestire anche 30 mila sbarchi all'anno, con una media di 84 al giorno, ma in questa eccezionale circostanza, in cui il flusso si è concentrato e più che raddoppiato in pochi giorni, si sono create situazioni di faticosa sostenibilità, nonostante gli sforzi e l'assistenza fornita, e di tensioni all'interno degli stessi gruppi di migranti e tra i migranti e la popolazione locale. Nel centro di accoglienza dell'isola, pensato per una capienza massima di 850 posti, hanno trovato sistemazione fino a 2 mila persone, in condizioni di estremo sovraffollamento.
Ciò che è chiaro è che non sono tutti libici. Molti stranieri provengono in questi mesi dalla Tunisia, non si tratta però di rifugiati di guerra, ma di uomini giovani clandestini in salute alla ricerca di lavoro. Il flusso di stranieri che scappa dalla Libia comprende, invece, donne, uomini e bambini: a questi, per legge, è concesso di richiedere asilo politico. Si tratta di popoli che, assieme ad altri del mondo arabo, stanno fuggendo da una situazione politica e sociale di forte difficoltà.
Una volta sbarcati, una fase delicata è quella dell'identificazione: per coloro che non scappano da situazioni di conflitto è previsto il respingimento, mentre per gli altri l'Italia si impegna a dare accoglienza e un'adeguata ospitalità nei vari centri distribuiti su tutta la penisola. La ripartizione dei profughi tra le regioni avviene in base all'ammontare della popolazione residente, ciò vuol dire che ogni 1.000 profughi 93 sono accolti in Veneto.
Sulla base dei dati forniti dalla sala operativa di coordinamento regionale in emergenza della Protezione Civile della Regione Veneto, da metà aprile al 16 maggio 2011 si sono susseguite più ondate di arrivi, per un totale di circa 700 persone. Nel mese di aprile sono state accolte circa 200 persone, tutti tunisini titolari di permesso di soggiorno temporaneo della validità di sei mesi; di questi al momento ne sono rimasti 44 mentre gli altri hanno preferito proseguire il loro viaggio verso altri Paesi, in particolare la Francia, dove dichiarano di avere parenti o amici. Dal mese di maggio, invece, gli arrivi riguardano i profughi fuggiti dalla Libia o da altri territori in situazioni di conflitti e oppressione e quindi richiedenti asilo politico. Al momento nelle strutture del territorio regionale ne sono ospitati 580, ma già nei prossimi giorni ne sono previsti almeno altri 75.

Figura 7.2.1

Incidenza percentuale degli stranieri sulla popolazione nei Paesi dell'UE27 - Anno 2009

Figura 7.2.2

Origine dei migranti in Europa - Anno 2000

Figura 7.2.3

Indice di Sviluppo Umano nell'area europea e mediterranea - Anni 1975 e

Figura 7.2.4

Stranieri residenti e incidenza percentuale sulla popolazione. Veneto - Anni 1993:2009

Figura 7.2.5

Numero di cittadinanze straniere per comune. Veneto - Anno 2009

Figura 7.2.6

Indice di diffusione della popolazione straniera residente per le principali comunità straniere. Veneto - Anno 2009

Figura 7.2.7

Indice di Sviluppo Umano (HDI) medio degli stranieri residenti per comune. Veneto - Anno 2010

Figura 7.2.8

Percentuale di sotto inquadrati italiani e stranieri (sul totale degli occupati di 15 anni e più). Veneto e Italia - Anni 2005 e 2009

Tabella 7.2.1

Condizioni abitative ed economiche delle famiglie con stranieri. Italia - Anno 2009

Figura 7.2.9

Indicatori sintetici di deprivazione materiale e di grave deprivazione abitativa per ripartizione geografica - Anno 2009

Tabella 7.2.2

Aspetti culturali e partecipazione sociale degli stranieri. Veneto, Italia e alcune regioni - Anno 2008

Tabella 7.2.3

Concessioni di cittadinanza italiana a cittadini stranieri per motivo. Veneto - Anni 1999:2009

Figura 7.2.10

Matrimoni con sposi stranieri. Veneto - Anni 1995:2009

Figura 7.2.11

Istanze di protezione internazionale per stranieri pervenute alle commissioni territoriali. Italia e commissione di Gorizia - Anni 1999:2009

Tabella 7.2.4

Sbarchi irregolari intercettati lungo le coste italiane - Anni 2006:2010

Tabella 7.2.5

Respingimenti, espulsioni e rimpatri di stranieri rintracciati in posizione irregolare. Italia - Anni 1999:2010
 
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7.3 Dare valore alle nostre radici

Interrogarci sul destino demografico della nostra società ha ridestato la curiosità di conoscere le nostre radici, nella consapevolezza che solo sapendo da dove veniamo possiamo avere indicazioni utili a comprendere verso dove vogliamo andare.
Il 17 marzo 2011 si è celebrato l'anniversario dei 150 anni di creazione dello Stato, un avvenimento importante, che sprona le generazioni di oggi a riappropriarsi della propria storia, identificandosi con i valori di impegno civile, interesse collettivo e coraggio che animarono il Risorgimento.
Il 2011 segna una tappa importante per ricordare la nostra unità, per valorizzare la nostra arte e la nostra cultura: avviene in un periodo cruciale dove è necessario che lo sguardo non solo punti a illuminare il passato, ma sia proteso al futuro, rivolgendoci all'Europa come prospettiva di crescita e di sviluppo anche per il nostro Paese.
Ricorda a tal proposito il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: "È giusto ricordare i vizi d'origine e gli alti e bassi di quella costruzione, mettere a fuoco le incompiutezze dell'unificazione italiana e innanzitutto la più grave tra esse che resta quella del mancato superamento del divario tra Nord e Sud...", ma poi evidenzia con fermezza come sia necessario "recuperare motivi di fierezza e di orgoglio nazionale: ne abbiamo bisogno, ci è necessaria questa più matura consapevolezza storica comune, anche per affrontare con accresciuta fiducia le sfide che attendono e già mettono alla prova il nostro Paese, per tenere con dignità il nostro posto in un mondo che è cambiato e che cambia".
Dallo scoglio di Quarto, quartiere di Genova, il 5 maggio del 1860 prese avvio, con la spedizione dei Mille, la fase conclusiva del lungo percorso del movimento per l'Unità, che sarebbe culminata il 17 marzo 1861. Mette in luce il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: "L'Unità d'Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l'intreccio di componenti moderate e componenti democratico rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l'attraversarono".
Per la precisione erano 1.089 i Mille di Garibaldi, provenienti da tutta Italia e alcuni anche stranieri e italiani nati all'estero (Nota 14). Tra questi una sola donna, nativa della Savoia; molti i bergamaschi e i genovesi. Anche il Veneto diede il suo prezioso contributo all'impresa, con circa 150 uomini. (Figura 7.3.1)
Le stagioni demografiche
Dal 1861 a oggi l'universo italiano dei comuni ha conosciuto molte trasformazioni, non solo per il numero a seguito di variazioni amministrative e territoriali, ma anche in termini spaziali, per l'acquisizione o la cessione di territori. Nel 1861 erano 7.720 i comuni italiani, poco meno della metà in Lombardia e Piemonte.
Il Veneto si annette al Regno di Italia nel 1866, a seguito della terza guerra di Indipendenza, e inizialmente comprende anche la provincia di Udine.
Ripercorriamo ora a grandi linee la storia del Veneto, dall'Unità d'Italia a oggi, dal punto di vista demografico.
I demografi storici sono soliti individuare nello studio dell'evoluzione della popolazione alcune tappe fondamentali, riconducibili a quelle che vengono definite prima e seconda transizione demografica.
La prima transizione demografica si articola in tre principali fasi, sulla base essenzialmente dei livelli di natalità e mortalità. Nella prima fase la popolazione cresce a un ritmo abbastanza lento, come risultante di un'alta natalità, cui si accompagnano però elevati tassi di mortalità. La seconda fase inizia con una forte e progressiva diminuzione dei decessi, in particolar modo nell'età infantile, grazie ai progressi medici e alle migliori condizioni igieniche e alimentari, che portano all'abbattimento di diverse malattie che prima decimavano la popolazione. Inizialmente la natalità mantiene ritmi sostenuti, venendosi a verificare così una forte espansione della popolazione. Successivamente il numero di nati comincia a decrescere in modo sempre più accentuato, ma nel contempo si contrae la riduzione della mortalità, venendosi ad assottigliare così il gap positivo tra nascite e morti e quindi l'incremento demografico. La terza fase della transizione demografica è caratterizzata da una sostanziale stabilità su bassi livelli della fertilità e della mortalità, se non da un ulteriore diminuzione delle nascite.
Alcuni studiosi, in particolare Ron Lesthaeghe, parlano di una seconda transizione demografica, caratterizzata da nuovi comportamenti familiari, a seguito di cambiamenti culturali e valoriali: posticipazione della maternità, aumento delle separazioni, diffusione delle convivenze e delle nascite fuori del matrimonio. Come conseguenza più importante il declino preoccupante della fecondità, sempre al di sotto della soglia di ricambio generazionale.
Nel complesso si passa da una situazione di demografia naturale a condizioni di demografica controllata, contraddistinta dal controllo delle nascite, delle malattie e della morte. Gli andamenti indicati sono da intendersi come linee di tendenza, che nelle realtà storiche si manifestano attraverso oscillazioni di breve e di medio periodo.
Dall'analisi dell'andamento dei tassi di natalità e mortalità in Veneto, la fase iniziale della prima transizione demografica si può dire conclusa attorno al 1880, periodo in cui si manifesta un forte calo dei decessi. Nel contempo la sostenuta natalità determina la crescita della popolazione, la più alta in questi 150 anni, in particolar modo agli inizi del Novecento all'alba della grande guerra.
Gli anni attorno al 1920 segnano un drastico crollo della natalità, che fatta eccezione per alcuni particolari anni, continuerà da questa data in poi ad assumere valori via via più contenuti.
Orientativamente, dopo il secondo conflitto mondiale il Veneto, come l'Italia, entra nella terza fase della transizione, con ridotti livelli sia di nascite che di decessi. In questo periodo i guadagni in termini di popolazione si devono quasi esclusivamente all'aumento della speranza di vita e, solo nell'ultimo decennio, a un lieve recupero della fertilità, grazie anche al contributo dei nuovi ingressi dall'estero.
Già nei primi anni Ottanta in Italia si avvertono i segnali di nuovi comportamenti riproduttivi e di formazione della famiglia, che fanno pensare all'avvio della seconda transizione demografica. (Figura 7.3.2) e (Figura 7.3.3)
Tali dinamiche demografiche hanno avuto conseguenze anche sul profilo per età della popolazione, come mostrano le figure relative alla distribuzione della popolazione per sesso e classi di età rilevate ai censimenti effettuati in questi 150 anni.
In caso di alta natalità e mortalità la forma è piramidale: alla base un alto numero di nati, che via via si assottiglia per effetto dei decessi. Il passaggio dalla prima alla seconda fase della transizione non evidenzia subito un apprezzabile cambiamento della forma, che mantiene il caratteristico profilo piramidale e che anzi vede l'ampliamento della base per effetto della diminuzione della mortalità infantile, come si nota per il 1911.
La riduzione del numero di nati contrae fortemente l'importanza relativa delle prime classi di età, facendo diminuire la base, e accresce quella delle classi anziane, trasformando la piramide sempre più a profili di forma pressoché rettangolare.
Nella terza fase, di stabilità o di decremento della popolazione, la forma della distribuzione si maniene sempre rettangolare ma con basi addirittura più strette rispetto alle zone centrali e mature, assomigliando piuttosto a un fungo, vista anche la quota crescente di persone nelle età senili.
L'intervento di fattori particolari di perturbazione, come guerre e intensi movimenti migratori, si rivela attraverso speciali anomalie di forma. Le guerre determinano strozzature in brevi intervalli di età, in corrispondenza soprattutto delle classi nate durante il periodo bellico, seguite da espansioni nei periodi post-bellici determinate dal recupero di nascite non avvenute durante la guerra. Le eliminazioni per morte di guerra difficilmente si riflettono in misura apprezzabile sul grafico.
I movimenti migratori, se di intensità notevole, si manifestano con rigonfiamenti (immigrazioni) o erosioni (emigrazioni), in corrispondenza delle classi di età centrali e soprattutto per quanto riguarda la popolazione maschile.
Alla luce di ciò, la strozzatura presente a partire dalla base del 1921, e poi visibile negli anni via via successivi, identifica i "non nati" durante la prima guerra mondiale, che nel 1961 avrebbero tra i 40 e i 44 anni e che oggi sarebbero oramai ultra novantenni. Gli effetti del secondo conflitto sono invece meno evidenti in termini di mancata natalità, seppur apprezzabili nella classe d'età dei bambini da 5 a 9 anni del 1951.
La ripresa della natalità nei periodi successivi alle guerre come recupero delle mancate nascite nei periodi bellici emerge essenzialmente dall'espansione relativa della classe 5-9 anni nel 1931, in corrispondenza del primo dopoguerra, e della classe 0-4 nel 1951 in seguito al secondo conflitto.
Si sottolinea, inoltre, nella piramide del 1971 l'evidente espansione relativa in corrispondenza della classe 5-9 anni, che denota la ripresa transitoria delle nascite verificatesi negli anni 1960-1964 in seguito all'espansione economica e industriale. Sono i figli del baby-boom, che oggi hanno oltre 45 anni.
Nel confronto tra i sessi, si apprezza una più intensa eliminazione per morte del sesso maschile, specie nelle prime figure dove il profilo maschile è più scosceso. Le erosioni più evidenti per gli uomini, ad esempio nel 1911 e nel 1931, sono la conseguenza delle emigrazioni, che coinvolgevano appunto prevalentemente i maschi.
Le migrazioni verso l'estero hanno avuto luogo soprattutto negli anni successivi all'Unità, in maniera massiccia nel primo decennio del XX secolo, 1901-1911, per la pressione della forte espansione demografica a fronte dello stentato sviluppo economico, e infine nel più recente dopoguerra, 1951-1961, all'apertura delle frontiere e verso zone più industrializzate. (Figura 7.3.4)
Anche l'evoluzione in termini familiari è sorprendente. Il numero di famiglie in Veneto rimane tra le 600 e 700 mila fino agli anni Cinquanta, con un brusco calo tra il 1911 e il 1921 dovuto probabilmente all'effetto della prima guerra mondiale; in quest'arco di tempo le famiglie hanno mediamente 5 o 6 componenti. Con lo sviluppo industriale degli anni Cinquanta e Sessanta riprende a crescere il numero di famiglie, che nel 1971 supera il milione e nel 2009 i due milioni, ma parallelamente si riduce drasticamente il numero medio di componenti per famiglia: la famiglia tradizionale allargata conosce una lenta ma continua estinzione, infatti se all'alba della seconda guerra mondiale una famiglia aveva in media 5,2 membri, oggi arriva a 2,4. Queste trasformazioni così radicali a partire dalla seconda metà del Novecento si devono sicuramente al controllo delle nascite, al maggiore benessere conquistato ma anche al fenomeno di urbanizzazione, che ha comportato il trasferimento dalla campagna alla città con la necessità di vivere in spazi più ridotti. (Figura 7.3.5)
Un passato di analfabeti e contadini
Nei 150 anni di storia italiana dall'Unità a oggi le conquiste nel campo dell'istruzione si rivelano decisive non solo per lo sviluppo economico, ma anche per il miglioramento del tenore di vita e dell'educazione igienica, contribuendo ad aumentare l'aspettativa e la qualità di vita. Ancora oggi l'istruzione è uno dei temi strategici nelle politiche di sviluppo anche a livello internazionale, come dimostra l'interesse riservato in ambito europeo prima nell'Agenda di Lisbona e oggi nella Strategia Europa 2020.
La scuola, intesa non solo come istituzione riservata a pochi ma come strumento di crescita sociale, comincia ad avere una vera storia solo nell'Ottocento: si diffonde con più forza la stampa, circolano così idee nuove e la domanda di cultura si fa sentire anche dai ceti più umili.
Nonostante il crescente fervore, il giovane Regno d'Italia fatica a emanciparsi dall'ignoranza e a garantire una promozione sociale negata per secoli alle classi più popolari.
Quando il 17 marzo 1861 la Gazzetta Ufficiale decreta la reggenza del neonato Regno d'Italia a Vittorio Emanuele II, il re si ritrova alla guida di un popolo di analfabeti: 14 dei 18 milioni di persone con almeno 6 anni, vale a dire il 75%, non sanno né leggere né scrivere e la percentuale sale ulteriormente al Sud e tra le donne. Dieci anni dopo, quando anche il Veneto appartiene al Regno, gli analfabeti sono il 69% in Italia e il 66% in Veneto.
Nel 1877 la legge Coppino (Nota 15) si introduce l'obbligo della frequenza scolastica gratuita per i primi due anni di istruzione elementare, per insegnare a leggere, scrivere e a far di conto, ma non trova mai piena applicazione perché le spese per strutture e maestri gravano esclusivamente sui comuni e molti di questi non sono in grado di sostenerle.
Seppur in diminuzione, la strada da compiere per raggiungere una vera istruzione di massa appare ancora lunga: ai censimenti successivi, la percentuale di analfabetismo si riduce progressivamente, ma agli inizi del XX secolo oltre un terzo dei veneti e quasi la metà degli italiani non sa ancora né leggere né scrivere. Nei successivi decenni si compiono passi importanti, tanto che nel secondo dopoguerra gli analfabeti scendono al 6% in Veneto, arrivando quasi a scomparire nell'ultimo censimento del 2001.
Parallelamente si assiste a una sempre maggiore diffusione dei gradi di istruzione più elevati, tanto che oggi il 36% dei veneti arriva al diploma e oltre il 10% consegue la laurea. (Figura 7.3.6) e (Figura 7.3.7)
Il livello di istruzione della popolazione riflette fortemente il progresso economico e sociale che ha coinvolto il Paese in questi 150 anni. Sono, infatti, molto significative le variazioni osservate nella struttura professionale della popolazione.
In Italia, nel 1861 il 70% della popolazione attiva lavora nel settore agricolo, il 18% nell'industria e il 12% nelle altre attività. Grazie alla ricostruzione dei dati per regione (Nota 16), si stima che, nello stesso anno, in Veneto il 72,5% della popolazione attiva fosse occupata nell'agricoltura, il 13,7% nell'industria e il 13,8% nel terziario.
L'agricoltura rimane l'attività prevalente fino alla fine degli anni Cinquanta e, più che altrove, il Veneto si trova in ritardo rispetto alle dinamiche di sviluppo industriale che nello stesso periodo sperimentano le altre regioni del Nord, soprattutto quelle del triangolo industriale.
Nei successivi trent'anni il Veneto attraversa due importanti passaggi, prima da economia agricola a società che inizia a conoscere l'industrializzazione e poi a economia incentrata sui servizi.
Nel secondo dopoguerra il processo di industrializzazione richiama nelle fabbriche del Nord grandi contingenti di manodopera: dai campi i lavoratori affluiscono nelle officine e negli uffici, le zone urbane e suburbane accolgono una frazione crescente della popolazione, mentre le zone rurali vedono diminuire la loro importanza demografica. Così nel 1961 avviene il sorpasso dell'industria, il settore dove trova occupazione la maggior parte della popolazione (44,3%). (Figura 7.3.8)
Il successivo processo di terziarizzazione culmina negli anni Ottanta e nei primissimi anni Novanta, quando il Veneto registra livelli di crescita elevati e superiori a quelli di gran parte del Paese e il sistema di piccole imprese si dimostra vincente resistendo alla crisi che coinvolge invece l'impresa di maggiori dimensioni, diffusa in altre zone del Nord Italia. Nel 1991 si assiste al secondo sorpasso, quello dei servizi sull'industria: oltre la metà della popolazione attiva (Nota 17) è occupata nel terziario, una percentuale che raggiunge il 60% nel 2010, quando ormai all'agricoltura rimane un residuo 3%.

Figura 7.3.1

Le origini dei garibaldini della spedizione dei Mille

Figura 7.3.2

Le fasi della transizione demografica: popolazione e quozienti di natalità e mortalità per 1.000 abitanti. Veneto - Anni 1871:2010

Figura 7.3.3

Popolazione residente ai censimenti per provincia. Veneto - Anni 1871:2010

Figura 7.3.4

Distribuzione della popolazione per classi di età dall'Unità d'Italia. Veneto - Anni 1871:2009 e previsioni 2030

Figura 7.3.5

Famiglie e numero medio di componenti ai censimenti. Veneto - Anni 1871:2010

Figura 7.3.6

Percentuale di analfabeti. Veneto e Italia - Anni 1861:2001

Figura 7.3.7

Distribuzione percentuale della popolazione residente di 6 anni e più per grado di istruzione. Veneto - Anni 1951:2001 e 2010

Figura 7.3.8

Distribuzione percentuale della popolazione attiva in condizione professionale per settore di attività economica. Veneto - Anni 1861:2010
 

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