E' innegabile come l'agricoltura incida fortemente sulle risorse territoriali/ambientali: essa plasma il paesaggio, la cultura e la storia di una terra. Ne utilizza l'acqua, occupa le pianure, le colline, le vallate ma può anche proteggerle e tutelarle, offrendo possibilità di sostentamento alla popolazione ove altre opportunità sia negate, tramandando conoscenze ed usanze che rischierebbero di essere dimenticate.
Dal punto di vista ambientale, secondo le stime diffuse da Eurostat, le emissioni dei gas responsabili dell'effetto serra dipendenti dall'agricoltura, in tonnellate di CO2 equivalente, nel corso del 2008 -ultimo anno disponibile- sono state pari al 9,6% di quelle totali per la UE27 e al 6,6% per il nostro Paese, in una dinamica che si conferma costante negli ultimi anni. Ma le pressioni che l'agricoltura esercita sull'ambiente si evidenziano anche nell'utilizzo di prodotti fertilizzanti e fitosanitari per quanto riguarda i terreni coltivati e per la presenza di allevamenti, calcolata in Unità Bovino Adulto
(Nota 4).
A tale proposito il nostro territorio è fortemente influenzato dalle attività agricole esercitate. Risiede proprio nelle mani degli imprenditori agricoli la sfida di salvaguardarlo e valorizzarlo senza dover perdere in redditività e produttività.
Sono però molte le potenzialità che la nostra agricoltura può esprimere a favore di un uso del suolo e delle risorse sostenibile e consapevole: nel corso del capitolo ne approfondiremo alcune.
L'agricoltura e l'ambiente
I fertilizzanti
Nel corso del 2009 la quantità di fertilizzanti utilizzati per scopo agricolo in Italia ha registrato una diminuzione rispetto all'anno precedente di quasi il 10%, confermando una tendenza in atto già da qualche anno ed attestandosi attorno ai 44 milioni di quintali. Di converso i fertilizzanti consentiti in agricoltura biologica hanno subito un aumento pari al 4,4%, anche questa una tendenza in atto da qualche anno, superando gli 11,5 milioni di quintali.
(Figura 13.2.1)
Tutto ciò mostra come i programmi comunitari a sostegno dell'agricoltura ecocompatibile e biologica siano in forte evoluzione: anche in Veneto questo orientamento non si smentisce perché, anche se risulta una delle regioni dove si ricorre maggiormente all'utilizzo di fertilizzanti a causa dell'agricoltura intensiva praticata, a fronte di un aumento del totale nel corso dell'ultimo anno disponibile (+6,8%), si evidenzia un calo pari a quasi un quarto dei concimi ed un ampliamento notevole (+77%) nell'utilizzo di ammendanti. Infatti sia gli ammendanti sia i correttivi, avendo un contenuto in elementi nutritivi ridotto, possono essere impiegati in dosi maggiori e quindi incrementare e mantenere la fertilità organica del terreno nel rispetto dell'ambiente.
(Figura 13.2.2)
Anche la qualità degli elementi nutritivi contenuti nei fertilizzanti sta subendo un'evidente evoluzione: sia in Veneto che in Italia si nota una diminuzione per ettaro di superficie concimabile di fosforo, azoto e potassio in favore di un utilizzo sempre più preponderante di sostanza organica.
(Figura 13.2.3)
I fitosanitari
I prodotti fitosanitari annoverano tutte le sostanze attive destinate a difendere i vegetali dagli organismi nocivi, prevenendone gli eventuali effetti, favorendo o regolando i processi vitali, conservando i prodotti vegetali, eliminando le piante indesiderate e frenando un loro indesiderato accrescimento.
Come per i fertilizzanti, l'orientamento comune in Europa è quello di ridurne la quantità distribuita e la tendenza è confermata sia per la nostra nazione che per la nostra regione.
(Figura 13.2.4)
Infatti, sebbene anche in questo caso il Veneto risulti una delle regioni che maggiormente fa ricorso all'utilizzo di queste sostanze per ettaro di superficie agricola utilizzata a causa delle sue specializzazioni (mais, frumento, vite), è anche vero che negli ultimi anni i principi attivi distribuiti per ettaro di SAU sono risultati in netto calo.
(Figura 13.2.5)
La pressione zootecnica
La misura convenzionale delle Unità di bovino adulto (Uba) è stata creata per esprimere lo stress a cui il territorio è sottoposto a causa del carico degli allevamenti zootecnici ivi presenti: l'indicatore considerato è rimasto pressoché costante nel tempo nel nostro Paese, dal 2002 al 2008, passando da 9,96 a 9,89 milioni di unità.
La consistenza zootecnica così misurata ha una notevole variabilità da regione a regione, passando dai più di 6 milioni di Uba nel nord ad appena 1 milione di Uba nel centro.
(Figura 13.2.6)
La densità del carico zootecnico, calcolata dividendo il totale delle unità di bovino adulto per la superficie territoriale, in Italia è pari a circa 33 Uba per km2. E' la Lombardia la regione italiana con la densità maggiore (112 Uba per km2) ed assieme ad altre cinque regioni si posiziona al di sopra della media nazionale: Veneto (54 Uba per km2), Emilia Romagna (48 Uba per km2), Piemonte (39 Uba per km2), Campania e Sardegna (36 Uba per km2).
(Figura 13.2.7)
Considerando le variazioni di Uba durante il periodo considerato, alcune regioni, già riconosciute con forte pressione zootecnica, si osserva un ulteriore aumento della densità: per esempio la Campania passa da 31 a 36 Uba per km2 (con una variazione superiore al 15%). Sardegna e Piemonte al contrario segnalano una diminuzione superiore al 3%.
Anche il Veneto negli ultimi 6 anni risulta in leggero calo (-1,7%).
Le agroenergie
(Nota 5) La produzione di energie rinnovabili di origine agricola e forestale assume caratteri positivi quando le risorse utilizzate sono prodotte secondo criteri di sostenibilità ambientale, evidenziati dalla Commissione Europea nell'ambito del Piano d'Azione per la Biomassa. Questo risultato dovrà essere raggiunto senza arrecare effetti negativi alla produzione interna di prodotti alimentari, rispettando le buone pratiche agricole, attuando modalità di approvvigionamento locale della biomassa senza aumentare la pressione ambientale sul suolo e sulle risorse idriche, nel rispetto della biodiversità delle foreste e del terreno coltivabile.
La filiera "legno-energia"
I servizi energetici offerti dall'attività agricola, dalle foreste e dalle formazioni "fuori foresta" (siepi, aree boscate planiziali, argini, zone golenali, colture legnose dedicate) stanno acquistando una crescente importanza economica legata all'aumento della domanda di energia ecosostenibile prodotta da combustibili derivati da biomasse legnose o da colture dedicate o da sottoprodotti e scarti dell'attività agricola. Tale domanda potrebbe influenzare positivamente il sistema agro-forestale veneto che presenta ampi margini di sviluppo e crescita in tutte le province.
In Veneto vi è un consistente potenziale in termini di produzione e utilizzo del cippato di legna e di legna in pezzi. Da un censimento effettuato nel 2008 risultano operanti nel territorio regionale una ventina di cippatrici, di varie dimensioni, con una capacità produttiva annua stimata di circa 87.100 tonnellate. Incrociando i dati provenienti da diverse fonti (Camere di Commercio, ISTAT, ecc.) è emerso che il cippato viene venduto per circa i due terzi fuori regione, mentre la legna da ardere è venduta per l'89% all'interno dei confini regionali. Attualmente il sistema regionale foresta-legno-energia non risulta essere sufficientemente strutturato per rispondere alla domanda crescente di questo tipo di combustibile. E' stato infatti stimato che nel 2008 in Veneto sono stati consumati 2 milioni di tonnellate di legna in oltre 570.000 apparecchi termici non centralizzati. Il Veneto, come l'Italia nel suo complesso, è pertanto importatore netto sia di cippato che di legna da ardere
(Nota 6). Un'altra fonte di biomassa legnosa non trascurabile è quella del comparto cosiddetto "fuori foresta" (siepi, boschetti, colture dedicate e fasce boscate polifunzionali). Per quanto riguarda gli impianti SRF (
Short Rotation Forestry) si stima che in Veneto la produzione media annua totale superi le 26.000 tonnellate di sostanza fresca.
Il biogas
Il Veneto si colloca al quarto posto dopo Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte tra le regioni che mostrano maggior dinamismo nella diffusione di questa tecnologia. Sono attualmente presenti 85 impianti, 55 dei quali utilizzano principalmente come biomassa deiezioni zootecniche e colture dedicate provenienti dall'attività agricola, oltre a scarti e sottoprodotti di origine agroalimentare. Dei 55 connessi con l'attività agricola 24 risultano effettivamente in esercizio, con immissione di energia elettrica in rete, mentre gli altri 31 risultano attualmente in costruzione o solamente autorizzati. Complessivamente i dati indicano un aumento del numero di nuovi impianti, realizzati o in fase di progettazione, favoriti dal sistema degli incentivi: basti considerare che solo nel 2010 ben 42 sono le domande in fase di istruttoria.
(Figura 13.2.8) e
(Figura 13.2.9)
La tipologia prevalente è costituita da impianti di piccola-media dimensione, con potenza installata compresa tra 0,5 e 0,99 MW elettrici (l'85% degli impianti oggetto di istanza di incentivo nel 2010), più adatta alle realtà aziendali agricolo-zootecniche e in grado di integrare l'alimentazione dei digestori con biomassa dedicata oltre che con effluenti di origine zootecnica. Per l'appunto ben il 74% degli impianti risulta alimentato da questo mix, mentre irrisoria è la presenza di strutture in grado di ricavare energia dalle sole deiezioni zootecniche, proprio per il minore coefficiente energetico di queste ultime nei confronti delle biomasse dedicate.
(Figura 13.2.10)
Il principale utilizzo energetico del biogas è per la produzione di energia elettrica, con una quantità di energia elettrica netta prodotta negli anni 2007-2010 pari a circa 348.000 MWh/anno, mentre la produzione di calore, priva di incentivi, è scarsamente reimpiegata. Su un potenziale di 420.000 MWh/anno di energia termica utilizzabile, solo il 35% viene utilizzata.
La produzione di biogas può dare inoltre un forte impulso allo sviluppo della tecnologia di trasformazione del biogas in Biometano (BioCH4) come biocarburante per autotrazione.
Il biodiesel
Il Veneto si conferma al secondo posto dopo la Lombardia in termini di capacità produttiva di biodiesel, pari al 19% sul totale nazionale. La maggioranza degli impianti italiani è localizzata nell'area della Pianura Padana (ben 11 impianti su 19 si trovano al Nord Italia, tre dei quali in Veneto) dove si produce anche la maggior parte delle colture oleaginose. La superficie dichiarata a colture energetiche destinate a biodiesel in Veneto è stata nel 2008 pari a 6.560 ettari e la capacità produttiva potenziale degli stabilimenti veneti è di circa 530.000 tonnellate annue. Tuttavia, si stima che nel 2009 la produzione totale non abbia superato le 68.000 tonnellate.
L'olio vegetale puro (PVO)
Nel 2010 la superficie coltivata a colza in Veneto ha raggiunto i 6.250 ettari; la resa media è stata di circa 2,8 ton/ha per una produzione complessiva di circa 17.500 tonnellate. Si stima quindi che la potenzialità produttiva totale di olio vegetale di colza in Veneto potrebbe aggirarsi intorno alle 6.000 tonnellate annue. Esistono sul territorio regionale esperienze dimostrativo-sperimentali, condotte da Veneto Agricoltura, che hanno definito in dettaglio i percorsi tecnico-economici per realizzare filiere di piccola scala e buona sostenibilità della produzione di olio vegetale puro (PVO) da utilizzare come biocarburante per l'alimentazione di trattrici e veicoli a motore. Se l'impiego del PVO come carburante è ancora poco sviluppato, risulta invece molto diffuso il suo uso in motori statici per la produzione di energia termica ed elettrica (cogeneratori). Dai dati aggiornati al 2009, risulta in Veneto un utilizzo di questo biocombustibile liquido in ben 11 impianti, per una potenza installata pari a 12,08 MW. Tutti gli impianti a combustibili liquidi in Veneto sono alimentati da PVO prevalentemente costituito da olio di palma grezzo importato. Si stima che nel 2009 il consumo di PVO sia stato di circa 13.000 tonnellate annue.
Il fotovoltaico
La tematica del "fotovoltaico" risulta all'ordine del giorno nonostante la diminuzione degli incentivi erogati dal Conto Energia. Dall'analisi dei dati forniti dalla Direzione Urbanistica e Paesaggio della Regione, nel Veneto risulta che le domande presentate per l'ottenimento di Autorizzazione Unica in quest'ultimo biennio sono in continua ascesa, con incrementi per il 2010 più che quadruplicati rispetto al 2009. L'andamento a rialzo viene mantenuto anche nel primo trimestre di quest'anno dato che il numero di domande pervenute sfiora già il raddoppio rispetto all'anno precedente.
(Figura 13.2.11)
Principalmente si tratta di impianti di potenza nominale installata compresa tra i 200KW ed il MW, nella maggior parte dei casi in connessione con l'azienda agricola. Gli impianti sopra il MW di potenza, in carico a grandi Società, per lo più straniere, anche se non rientrano nel sistema di tassazione agevolata delle aziende agricole, rappresentano comunque un quarto degli impianti. Gli impianti sotto i 200KW di potenza sembrano rappresentare solo il 12%, però questo dato è destinato certamente a salire se si considera che gli impianti domestici ed alcuni a terra per la loro installazione necessitano solo del parere comunale, non dovendo sottostare ad autorizzazione regionale.
(Figura 13.2.12)
Nel settore fotovoltaico la provincia di Rovigo ha registrato in quest'ultimo anno un incremento sbalorditivo; le province di Padova, Venezia e Verona hanno avuto incrementi simili tra loro, senza comunque avvicinarsi al boom polesano.
Nonostante le continue critiche e le normative sempre più restrittive, il settore sembra non conoscere crisi, visto il continuo aumento di giorno in giorno delle richieste di autorizzazioni all'installazione di impianti.
(Figura 13.2.13)
L'agricoltura biologica
L'agricoltura biologica è un sistema di produzione agricola che ha come scopo principale il rispetto dell'ambiente, degli equilibri naturali e della biodiversità, proteggendo allo stesso tempo la salute dell'operatore e del consumatore. L'azienda agricola biologica è un sistema integrato nel quale l'attività dell'uomo si inserisce con tecniche rispettose della fertilità del suolo, delle singole colture, degli animali e dell'equilibrio ambientale: tali tecniche escludono naturalmente l'impiego di concimi, fitofarmaci e medicinali veterinari chimici di sintesi e Organismi Geneticamente Modificati (OGM).
Le conseguenze si traducono in suoli fertili, acque senza residui di pesticidi ed un livello più basso di nitrati, biodiversità, conservazione del paesaggio, un legame più forte con il territorio ed un contributo concreto alla riduzione dei gas serra.
Tutto ciò ha notevoli riflessi anche nella gestione "ambientale" delle aziende: recupero e conservazione di siepi, boschetti, piccoli specchi d'acqua, piantumazione di alberi.
Il settore inoltre contribuisce alla riduzione dei gas che provocano l'effetto serra, senza tener conto naturalmente delle iniziative che, tra gli agricoltori che hanno scelto questa metodologia, vengono messe in atto allo scopo di ridurre i consumi di energia e sfruttare il più possibile le fonti di energia rinnovabile.
Che l'agricoltura biologica faccia bene sia ai produttori che ai consumatori è un dato di fatto: in controtendenza con il tradizionale, sono in aumento le superfici coltivate ed i consumi.
La produzione
E' una tendenza in atto in tutta Europa, l'aumento di superficie coltivata col metodo biologico, che raggiunge per il 2009, ultimo disponibile, e per i 27 paesi membri dell'Unione una quota stimata di circa 6 milioni di ettari, pari a quasi il 5% della SAU totale.
Spagna ed Italia si contendono il primato europeo, con oltre un milione di ettari dedicati ciascuno.
Ed anche l'Italia segue la tendenza europea facendo segnalare tra il 2009 e l'anno precedente un aumento di oltre il 10%.
Negli ultimi anni il consumo dei prodotti con certificazione biologica è aumentato in modo più che proporzionale rispetto al consumo dei prodotti convenzionali, e anche durante l'attuale periodo di crisi la richiesta di prodotti biologici ha manifestato tassi di crescita positivi. Va tuttavia rilevato che rispetto al contesto nazionale il Veneto dimostra uno scarso sviluppo dell'agricoltura biologica. Una probabile motivazione potrebbe consistere nell'intensità produttiva che caratterizza l'agricoltura veneta, al pari di altre regioni settentrionali, e che rende poco conveniente la conversione verso sistemi produttivi meno intensivi.
In base ai dati disponibili relativi al 2009, in Veneto è presente un migliaio di produttori agricoli biologici che coltivano poco più di 15.000 ettari, rappresentando circa l'1% delle aziende agricole venete e l'1,8% della SAU veneta.
Il numero di allevamenti registrati presso gli organismi di controllo è pari a 163, tra i quali molti allevamenti apistici. Gli allevamenti bovini sono circa cinquanta, prevalentemente da latte con una consistenza complessiva di un migliaio di vacche lattifere, mentre sono una quindicina gli allevamenti ovicaprini e una ventina complessivamente quelli suini e avicoli.
Nemmeno il Veneto si sottrae a questo orientamento, aumentando nel medesimo periodo di quasi 200 ettari (+1,2%) la sua superficie.
(Figura 13.2.14)
Un quarto di questa superficie, per quanto riguarda la nostra regione, è dedicata alla coltura dei cereali, soprattutto grano (tenero e duro) e mais, a seguire colture industriali e foraggere.
(Figura 13.2.15)
Risultano invece, a livello nazionale, in leggero calo gli operatori coinvolti nel settore, attestandosi sulle 48.000 unità (-2,3% rispetto al 2008) ma sono circa 1.500 soggetti solo nella nostra regione.
(Figura 13.2.16)
La Sicilia primeggia nel comparto, totalizzando oltre il 15% degli operatori nazionali ed oltre il 18% della SAU italiana.
I consumi
A dar ragione del buon momento dell'agricoltura biologica, ci sono anche elementi sul fronte dei consumi domestici, con particolare riguardo al confronto tra il 2009 ed il 2010. Secondo gli ultimi dati forniti da Ismea, nel nostro Paese gli acquisti di prodotti biologici confezionati sono cresciuti dell'11,6% in valore rispetto al pari periodo 2009, mentre per l'ortofrutta fresca e sfusa l'aumento è stato pari ad un +6,3%.
Rispetto allo scorso anno è evidente un miglioramento del comparto biologico sia in termini di maggiori consumi sia, in molti casi, in termini di una più equilibrata distribuzione del valore lungo la filiera. Inoltre, soprattutto in tema di consumi ma anche di prezzi all'origine, il biologico appare registrare rispetto allo scorso anno performance migliori rispetto al convenzionale.
In particolar modo è il Nord Est a segnalare l'aumento più significativo rispetto al 2009, superando il +20%.
(Figura 13.2.17)
L'agricoltura biodinamica
Una piccola nicchia all'interno dell'agricoltura biologica, particolarmente sensibile al tema della sostenibilità, è costituita dalle imprese agricole che attuano il metodo di produzione biodinamico, ispirato alle teorie di Rudolf Steiner, filosofo e pedagogista austriaco, vissuto tra la fine dell'800 ed i primi anni del 1900.
L'agricoltura biodinamica è un metodo di coltivazione fondato sulla visione spirituale antroposofica del mondo che comprende sistemi sostenibili per la produzione agricola, in particolare di cibo, che rispettino l'ecosistema terrestre includendo l'idea di agricoltura biologica e invitando a considerare come un unico sistema il suolo e la vita che si sviluppa su di esso.
Due principi che si possono ritenere tipici della teoria biodinamica hanno a che vedere col compostaggio e con l'importanza delle fasi lunari e delle forze cosmiche.
Se parte delle pratiche codificate nella biodinamica hanno una radice scientifica e una loro intrinseca utilità (ad esempio il "sovescio", cioè la sepoltura di particolari piante a scopo fertilizzante e la "rotazione delle colture") altre pratiche risultano decisamente eccentriche e senz'altro più vicine alla magia che non all'agricoltura razionale.
E' questo infatti uno dei processo di produzione più avanzati in termini di sostenibilità ambientale, qualità e diversificazione delle produzioni agricole. L'agricoltura biodinamica non è disciplinata a livello comunitario come quella biologica, sebbene benefici della medesima certificazione di base, in quanto collega alcune pratiche agronomiche non supportate da un approccio riconosciuto dalle autorità scientifiche.
In Italia è presente un unico organismo di controllo che certifica questo tipo di imprese e che annovera oltre 300 soggetti tra produttori, trasformatori e distributori, per una superficie interessata pari a circa 10.000 ettari.
Nella nostra regione le imprese certificate raggiungono le 13 unità e sebbene si tratti di un sistema produttivo ancora poco diffuso, le potenzialità in termini di sostenibilità, biodiversità, qualità e legame col territorio facilmente intuibili. Il disciplinare di produzione infatti è un apporto di conoscenze che si offre a integrazione della cultura agronomica ufficiale, improntato ad un forte spirito etico che favorisce una nuova professionalità dell'agricoltore.
La sostenibilità della pesca nella fascia costiera
(Nota 7) Diverse sono le iniziative di carattere comunitario, nazionale e regionale che mirano alla tutela ambientale della fascia marittima entro le 3 miglia dalla costa. L'obiettivo è la sostenibilità delle risorse alieutiche, che spesso vengono a riprodursi sotto costa, ma anche quella economica e sociale di borghi e città presenti lungo la fascia costiera in cui si pratica soprattutto la piccola pesca artigianale, spesso fonte principale di reddito per chi vi abita. Il Regolamento (CE) n. 1967 del 21 dicembre 2006, denominato comunemente "Regolamento Mediterraneo" riguarda la tutela della risorsa vietando di fatto l'uso di attrezzi trainati entro le tre miglia dalla costa, il cosiddetto "piccolo strascico", e altre misure relative alle dimensioni della maglia delle reti. Le specie impattate, di particolare rilevanza commerciale e sociale per la pesca dell'Alto Adriatico, sono principalmente le seppie, i latterini e i moscardini. Il divieto interessa una flotta composta da 135 imbarcazioni, molte delle quali di piccole dimensioni e comunque in calo sostanziale negli ultimi 25 anni, ma ha un notevole impatto sulla sostenibilità socio economica della fascia costiera veneta. Un'analisi condotta dall'Osservatorio Socio Economico della Pesca e dell'Acquacoltura ha messo in evidenza che la flotta impattata è artigianale e di diversa caratterizzazione a seconda della dislocazione territoriale. Le navi di Pila presentano un fondo piatto o semipiatto che rende più pericolose le uscite in alto mare, mentre a Caorle vi sono piccolissime barche dedite anche alla pesca del moscardino.
A livello regionale il 21% delle imbarcazioni autorizzate ha una struttura tale da poter operare anche oltre la fascia delle tre miglia, dove lo strascico è consentito. Gli addetti nel settore sono 333, il 36% dei quali imbarcati su pescherecci di più grandi dimensioni, mentre l'11% degli armatori ha un'età superiore o uguale a 60 anni. L'età degli armatori e degli imbarcati è infatti relativamente giovane con una media di 3 occupati per barca. Il 40% dei pescherecci sono da considerare obsoleti, con un'età superiore ai 30 anni, e 16 hanno già chiesto anche il disarmo. Da rilevare infine che la carenza delle citate specie rischia di mettere in crisi i mercati ittici regionali, soprattutto quelli dediti alla produzione locale che presentano una forte incidenza di prodotto da strascico. Per questo è stato istituito a livello regionale un "Tavolo di Crisi della Pesca" che, contemperando le diverse istanze provenienti dal mondo della pesca e dagli altri settori marittimi, mira a un'effettiva gestione integrata della fascia costiera per garantire sostenibilità ambientale, economica e sociale in un'ottica di rendimento massimo sostenibile per i pescatori.
L'agricoltura e l'alimentazione: I prodotti di qualità
L'Italia da tempo ha imboccato la strada delle certificazioni di qualità per i propri prodotti derivanti dalle produzioni agricole, al punto da essere di gran lunga il primo stato europeo per numero di denominazioni (Dop, Igp, Stg) davanti a Francia e Spagna.
(Figura 13.2.18)
Le certificazioni dei prodotti italiani negli ultimi anni hanno riscosso più successo all'estero che nel mercato interno, infatti in seguito ad un atteso calo dei consumi domestici in valore tra il 2008 ed il 2009, nel primo semestre del 2010 rispetto al medesimo periodo dell'anno precedente non c'è stata ripresa ed i consumi sostanzialmente sono rimasti costanti (+0,1%). È invece l'export a segnare una evidente crescita visto che nell'anno della crisi rispetto al 2008 realizza un +16,2%, con incrementi per tutti i comparti.
Quanto ai fatturati alla produzione, tre prodotti si portano a casa oltre il 60% degli introiti (il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano ed il Prosciutto di Parma) e 5 regioni totalizzano oltre l'80% (Emilia Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto) del fatturato.
(Figura 13.2.19)
Sebbene, perciò, le denominazioni siano oltre 200, è evidente come non tutte riescano ad ottenere un fatturato alla produzione dai grandi numeri: molte di esse, infatti, sono produzioni locali o di nicchia che non sono in grado di smuovere grossi ritorni economici ma svolgono una funzione comunque preziosissima e fondamentale per le zone di produzione. Infatti, oltre a garantire la salvaguardia delle tradizioni locali e il mantenimento degli agricoltori nel luogo d'origine, sono anche un validissimo aiuto nel preservare la biodiversità e sostenere l'economia del territorio.
Prova ne è che quasi ogni mese in Italia nasce una nuova denominazione: solo per il Veneto nel corso del 2010 si è assistito alla registrazione dell'Asparago di Badoere, del Miele delle Dolomiti bellunesi, della Pesca di Verona e del formaggio Piave, portando così a 35 le denominazioni attualmente attive per la nostra regione.
Vero e proprio fiore all'occhiello sono le I.G.P. dei 5 radicchi; infatti il radicchio è sempre stato uno dei prodotti caratteristici dell'agro-alimentare regionale. Esso non è altro che la principale forma orticola della comune cicoria, erba selvatica diffusa in tutta Europa, della quale si possono si possono utilizzare sia le radici, un tempo impiegate come succedaneo del caffé, sia le foglie che si possono consumare crude o cotte. Le sue origini antiche vengono documentate dalle prime fonti a disposizione, che lo fanno risalire ai tempi di Plinio il Vecchio; invece per le tecniche di forzatura, necessarie a dargli le caratteristiche commerciali per le quali il radicchio è comunemente conosciuto ed apprezzato, si dovrà aspettare la metà del 1700, nella zona compresa tra i comuni Trevigiani di Preganziol e Dosson. Agli inizi del 1900 il radicchio era l'ortaggio più importante in provincia di Treviso ed ha subito un calo produttivo nel primo dopoguerra, probabilmente a causa della difficoltà riscontrata nel recupero del seme, salvo poi tornare a valori interessanti dopo la Seconda Guerra Mondiale, parallelamente all'aumento del reddito pro-capite.
I radicchi si possono suddividere principalmente in due grandi gruppi: i radicchi di colore rosso intenso e i radicchi con colore di base bianco-giallo e screziature rosso violacee, detti anche variegati. All'interno del primo gruppo vengono computati i radicchi di Treviso, nelle tipologie precoce e tardivo, ed i radicchi di Chioggia e Verona; dei variegati fan parte invece i radicchi di Castelfranco e di Lusia.
(Figura 13.2.20)
Re dei radicchi è sicuramente il Rosso di Chioggia, con quasi il 70% della produzione regionale. Tale predominio è dovuto alle maggiori rese potenzialmente ottenibili ma anche e soprattutto alla quantità delle superfici investite. Le varietà Treviso e Verona hanno invece una produzione che si aggira ciascuna attorno al 10% del totale.
La crisi nel settore primario è testimoniata anche dal comparto radicchi, che ha registrato una diminuzione delle superfici investite a partire dalle campagne 2005/2006 fino al 2008/2009. In merito ai cambiamenti varietali si nota come le diminuzioni si siano verificate soprattutto per le superfici investite a Chioggia e Treviso piuttosto che Verona e Variegato di Castelfranco, rimaste invariate negli anni. Nonostante le maggiori cure di lavorazione nel post raccolta richieste dal radicchio variegato, tale prodotto ha dimostrato una tendenza lineare negli acquisti invogliando così gli stessi produttori a continuare nella sua coltivazione.
Negli anni tutte le varietà sono riuscite ad ottenere il marchio di qualità IGP, strumento di salvaguardia del prodotto e delle tradizioni locali.
Per quanto riguarda i consumi di tale ortaggio non è possibile valutare un trend di lungo periodo dato che le fonti più vecchie risalgono solo al 2007; prima di tale data infatti il radicchio veniva compreso nella voce altri ortaggi. Su questo breve lasso di tempo si nota comunque come le quantità di radicchio siano aumentate nella borsa della spesa degli italiani. Infatti, dopo il salto positivo verificatosi nel 2009, con un +26% rispetto la media dei due anni precedenti, il 2010 riconferma tale andamento con un +2% rispetto al 2009. Diretta conseguenza l'incremento dei prezzi al dettaglio, causa di maggiore esborso monetario per l'acquisto del fiore d'inverno pari ad un +24% sul 2009 e +64% rispetto alla media 2007-2008. L'aumento delle quantità acquistate nonostante l'aumento dei prezzi è chiaro segno del successo di questo prodotto, il cui consumo non sembra venir influenzato dal prezzo medio di vendita.
(Figura 13.2.21)
L'acquisto medio di radicchi per famiglia italiana nel 2010 si aggira attorno ai 2,6 Kg, media che viene largamente superata dai 4,15 Kg nelle regioni del Nord-Est, delineando un filo diretto dei consumi con le zone di produzione.
Oltre ai più noti marchi DOP e IGP la Comunità Europea ha però individuato anche un marchio in grado di tutelare alcuni agro-alimentari caratteristici per specificità e tradizione, indipendentemente dalla loro zona geografica di produzione. Vanno sotto il nome di Specialità Tradizionali Garantite (STG) quei prodotti che si distinguono dai loro simili per una ricetta particolare e comunque sono presenti sul mercato comunitario almeno da un periodo generazionale, quindi da almeno 25 anni.
Per rientrare tra le STG i prodotti devono seguire specifico disciplinare approvato dalla Comunità Europea e sono sottoposti abitualmente ai controlli dell'ente certificatore.
Attualmente i prodotti italiani che hanno ottenuto il riconoscimento di Specialità Tradizionale Garantita sono due: la Mozzarella STG e la Pizza Napoletana.
La Regione Veneto ha sancito, con apposita legge nell'anno 2001, la nascita del Marchio regionale Qualità Certificata. Tale dicitura è una garanzia di qualità per il consumatore nei confronti del prodotto che acquista, garantendogli anche l'assoluta tracciabilità dei prodotti. La certificazione è volontaria e viene riconosciuta dalle istituzioni pubbliche a quei prodotti di qualità superiore rispetto a quelli ottenuti con le normali tecniche di produzione. Le tecniche di produzione dei prodotti di qualità superiore sono sancite da un disciplinare che prevede la loro provenienza da una agricoltura che utilizza metodologia di lotta integrata.
La Regione ha anche individuato, per ciascuna provincia, i cosiddetti PAT, ovverosia i Prodotti Agroalimentari Tradizionali. Attualmente in elenco ne sono presenti 367, appartenenti alle principali categorie (bevande, carni e frattaglie, formaggi, prodotti vegetali, prodotti da forno, prodotti di origine animale, pesci e molluschi, grassi) e sono prodotti per i quali i metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura vengono praticati all'interno di un determinato comprensorio seguendo regole tradizionali, protratte nel tempo per un periodo comunque non inferiore ai 25 anni.
Molti dei prodotti rientranti nell'elenco dei PAT si possono trovare citati anche tra i Presidii Slow Food. Quest'ultimi si differenziano per la presenza di uno specifico disciplinare che garantisce l'ottenimento di prodotti con caratteristiche omogenee. Il Progetto Presidii di Slow Food nasce nel 1999 e raggruppa alcuni agroalimentari rari a rischio di estinzione, prodotti con tecniche antiche, che nulla hanno a che vedere con la moderna agricoltura che tende all'omogeneizzazione dei prodotti, facendo peraltro attenzione alla salvaguardia ambientale. Alla base esiste una stretta cerchia di produttori che hanno avuto la capacità di recuperare materie prime di qualità, e le tradizionali tecniche di produzione. L'appartenenza alla associazione Slow Food permette al produttore di essere seguito in tutte le fasi di produzione, promozione e vendita del proprio prodotto, da tecnici specializzati distribuiti sul territorio. La commercializzazione viene esclusivamente svolta dal singolo produttore o da organizzazioni di produttori, i quali riescono a spuntare prezzi più alti ma al tempo stesso questi Presidii rappresentano una garanzia per il consumatore, che risulta meno esposto a truffe alimentari.
Il disciplinare di produzione Slow Food presenta addirittura criteri di appartenenza più rigidi di quelli della DOP e IGP. Si tratta quindi di produzioni di nicchia a tutti gli effetti, originariamente cibo povero dell'ambiente rurale, oggi cibo per ricchi.
Il numero dei Presidi è in costante aumento. Attualmente in Italia sono quasi 200, dei quali tredici nel Veneto.
(Tabella 13.2.1)
L'etichettatura
Sono diversi i provvedimenti legislativi che regolano l'etichettatura, la presentazione e la promozione dei prodotti agroalimentari. La normativa di base italiana è rappresentata dal D.Lgs 109/1992, in seguito modificata dalla Direttiva Europea recepita in Italia dal D.Lgs 181/2003, avente lo scopo di uniformare tra loro le normative in materia di etichettatura dei diversi Paesi Europei.
L'etichetta di un prodotto è nata allo scopo di informare il consumatore sulle caratteristiche della merce che si accinge ad acquistare, dandogli la possibilità di un eventuale confronto con prodotti simili. Lo scopo è quello di tutelare una delle figure del libero mercato, senza indurre il consumatore in errore in merito alle caratteristiche dell'alimento in seguito a pubblicità ingannevole.
Secondo quanto stabilito dalla normativa in vigore, in etichetta dovranno essere riportate obbligatoriamente la denominazione di vendita, ovvero l'elenco degli ingredienti in ordine decrescente, il peso netto, il termine minimo di conservazione o la data di scadenza, il nome e la sede di produzione, le modalità di conservazione del prodotto, ove necessario, ed il numero identificativo del lotto. Il produttore potrà poi apporre a sua discrezione informazioni aggiuntive in favore del prodotto, quali il marchio di qualità o la data di produzione.
In un Paese come l'Italia, ricca di prodotti locali di qualità, una legge nazionale sull'etichettatura costituisce, come non mai, fatto di interesse comune e strumento di lotta alla contraffazione del made in Italy, valorizzando la qualità del prodotto italiano e salvandolo da una globalizzazione generale dell'agroalimentare.
La tutela della biodiversità
Il mercato mondiale, con le sue richieste sempre più esigenti, ha portato alla perdita dell'agricoltura dei nostri vecchi. La moderna agricoltura è stata indirizzata verso un'offerta di prodotti standardizzati, omogenei, che soddisfano i consumatori, sempre più orientati a comprare solo con gli occhi. L'attuale sistema agro-alimentare è quindi orientato all'utilizzo di una gamma sempre più limitata di piante ed animali specializzati, caratterizzati da rese elevatissime. Tutto ciò va in contrasto con la salvaguardia della Biodiversità Rurale, che si porrebbe di diversificare le produzioni mantenendo il numero più elevato possibile di popolazioni connesse al patrimonio genetico autoctono, sia in campo vegetale che animale, coltivati o allevati, trasformati ed utilizzati con metodi tradizionali del passato. Sia la coltivazione di piante che l'allevamento di animali, come le modalità di trasformazione ed utilizzazione, rappresentano aspetti che caratterizzano le nostre radici, caratterizzati quindi da un profondo significato culturale. Certamente tale salvaguardia dev'essere concepita non fine a se stessa né motivata dalla nostalgia per i tempi passati, ma dovrà essere indirizzata a vantaggio dei produttori, trasformatori e consumatori.
I nuovi ibridi, sia animali che vegetali, in grado di raggiungere performance sempre più elevate, hanno portato alla perdita di razze locali con caratteri di rusticità e di resistenza a malattie e di varietà autoctone dalle minori rese produttive ma dal gusto decisamente più interessante.
La riscoperta delle tradizioni e dei sapori di una volta non è legato solo ad una pratica sempre più diffusa di recupero della buona cucina, ma rappresenta un giusto riconoscimento ai sapori ed alle diversità della nostra terra.
Associazioni ed Enti, sia pubblici che privati, si stanno muovendo ad oggi, attraverso programmi di coltivazione e sponsorizzazione, per riportare al consumatore la possibilità di poter apprezzare tali prodotti.
Chiaro esempio è rappresentato dal progetto Co.Va. di Veneto Agricoltura, che si prefigge la Conservazione e Valorizzazione delle razze avicole locali venete. Detta attività tende a riportare all'attualità alcune razze ritenute interessanti e meritevoli di tutela per aspetti storici, socio-culturali e potenzialità produttive. Queste razze infatti, per le loro caratteristiche di rusticità e resistenza alle malattie superiori rispetto agli ibridi commerciali, meglio si prestano all'allevamento in zone marginali, quali quelle collinari e montane.
La Regione Veneto in collaborazione con l'Istituto di Genetica Strampelli di Lonigo e Veneto Agricoltura ha avviato altresì diverse iniziative similari per le coltivazioni erbacee, traducibili nella valorizzazione e conservazione delle antiche varietà di cereali, tra cui il mais Biancoperla.
Questo tipo di mais ad impollinazione libera, era stato soppiantato negli anni Cinquanta dai nuovi ibridi, più produttivi. Invero, la sua resa è molto più contenuta ma risulta ampiamente compensata dalla qualità della farina che se ne ottiene. Oggi sembra si possa affermare che vi sia una maggiore sensibilità nei confronti di quei prodotti considerati poveri, presenti in modesta quantità e legati ai piccoli produttori, che da soli sarebbero impossibilitati a sostenere una filiera produttiva efficiente e dalle giuste dimensioni. Dal 2002 questo prodotto agricolo tradizionale, collegato alle aree produttive delle province di Padova, Treviso e Venezia, è entrato a far parte dell'elenco Presidii Slow Food. L'obiettivo che la Regione Veneto si prefigge è quello di migliorare la qualità della farina, in particolare di quella ottenuta dalla macinazione a pietra, praticata in passato, che ne esalta le caratteristiche organolettiche.
Alla base di questi lavori di recupero stanno dei veri e propri progetti di conservazione, che non potendo limitarsi al semplice mantenimento dei caratteri morfologici, dovranno essere caratterizzati da piani di selezione, riduzione della consanguineità e di ripopolamento per permetterne la diffusione sul territorio.
Le attività agricole svolgono un ruolo ambivalente nei confronti della biodiversità: da un lato esercitano pressioni negative che si traducono in impatti negativi, dall'altro arricchiscono la variabilità genetica e degli habitat con l'introduzione di nuovi sistemi di coltivazione ed allevamento, per cui anche il solo mantenimento di un certo grado di biodiversità nel tempo diventa una sfida difficile da affrontare. A questo proposito val la pena ricordare la problematica relativa alla moria delle api verificatasi nella primavera 2009, attribuita all'impiego scorretto degli antiparassitari utilizzati per la difesa dalle malattie, che si sono rivelati nocivi per le api. Se proprio non si potrà fare a meno dei fitofarmaci, perché le colture praticate in biodiversità non sono sufficienti, occorrerà prestare la massima attenzione nel loro impiego, rispettando e normative esistenti, onde evitare rischi di inquinamento ambientale e sulla salute degli agricoltori che li utilizzano.
L'agricoltura e la società
Gli orti urbani
Fino all'epoca pre-industriale ogni fase di crescita urbana ha accompagnato una proporzionata crescita del patrimonio verde e dei campi a coltura. Gli orti erano piuttosto comuni in tutte le grandi città. In Italia negli anni Sessanta e Settanta è stato raggiunto il minimo storico della coltivazione amatoriale dell'orto, quando tale pratica all'interno delle città era simbolo di una condizione sociale ed economica inferiore, nonché elemento di degrado paesaggistico. È solo negli anni Ottanta, "grazie" alla crisi economica che ha colpito l'Europa, che rinasce questo interesse.
Nonostante il panorama delle nostre città non sia cambiato, oggi questa esperienza, nata non tanto per fare economia quanto dal desiderio di "sapere cosa si mangia", si sta sempre più diffondendo sia nelle piccole realtà come nelle grandi città.
Proprio in questi ultimi venti anni c'è stata una rinascita degli "orti senza casa", cioè di orti allocati all'interno del tessuto urbano, che non appartengano a chi li coltiva, ma sono proprietà di associazioni o delle amministrazioni comunali che li assegnano a coltivatori non professionisti.
Lo sfruttamento dell'orto tramite l'impiego costruttivo del proprio tempo libero, recuperando un rapporto diretto ed attivo con la natura, nonché le conoscenze e tecniche naturali di coltivazione, risulta anche strumento per favorire l'aggregazione sociale.
Si tratta in genere di piccoli appezzamenti di terreno (tra i 40 e i 65 mq.) di proprietà comunale da adibire ad orti e giardinaggio ricreativo, che vengono dati in comodato ai cittadini richiedenti. La maggior parte delle Amministrazioni Comunali assegnano tali aree verdi in modo regolamentato, tramite appositi bandi. Le coltivazioni forniscono prodotti destinati al consumo familiare, escludendo qualsiasi possibile azione lucrativa.
L'interesse per le attività agricole da parte dei "non addetti ai lavori" sta assumendo oggi sempre maggior rilievo, in un periodo di crisi economica, e porta molte persone alla riscoperta delle bontà e della convenienza dei prodotti del proprio orto. Questa tendenza ai giorni nostri inizia a diffondersi nelle campagne: nasce così la nuova figura dell'hobby-farmer, rappresentata da chi ha un'attività, in termini di tempo e reddito, al di fuori del settore agricolo stesso ma che possiede un piccolo appezzamento di terreno che coltiva nel tempo libero.
Il riscontro della presenza di questo fenomeno emerge con evidenza dal confronto dei dati degli ultimi Censimenti dell'agricoltura. Infatti, a livello nazionale, le superfici agricole dal 1990 al 2000 hanno subito un calo di circa 1,8 milioni di ettari e contestualmente si è avuta anche una diminuzione di circa 430.000 aziende. Tuttavia il dato afferente alle dimensioni medie delle aziende agricole è rimasto inalterato, segno di un mancato processo di accorpamento fondiario; al di là dei possibili casi di abbandono fondiario è impensabile che questi 1,8 milioni di ettari siano destinati interamente alla cementificazione, tanto è che una rilevazione relativa al progetto europeo "Corine Land Cover" ha stimato, mediante fotointerpretazione, un calo delle superfici agricole, per lo stesso periodo, di appena 143.000 ettari; chiaro segno che le superfici non hanno cambiato radicalmente destinazione d'uso ma sono passate da un agricoltore ad altre figure professionali, tra cui anche l'hobby-farmer.
Fattorie sociali e didattiche
L'interesse per le attività di tipo sociale in Italia, Veneto compreso, si sta sempre più diffondendo oltre che nel pubblico, come nel caso degli orti urbani appena citati, anche all'interno delle aziende agricole.
Ciò nasce dalla necessità dell'imprenditore agricolo di diversificare le attività svolte in un'ottica di multifunzionalità dell'azienda. In questo caso l'imprenditore, avendo come primo obiettivo il raggiungimento di un reddito soddisfacente, affianca alla normale attività progetti a sfondo sociale. Questi generalmente trovano espressione in iniziative di tipo formativo verso persone in situazione di disagio, come detenuti e tossicodipendenti, anziani e disabili, ma anche di tipo didattico verso giovani studenti. Nonostante le realtà appaiano molto simili tra loro si parlerà più specificatamente di fattorie sociali nel primo caso e fattorie didattiche nel secondo.
La fattoria sociale è dunque un'impresa che svolge servizio di assistenza, formazione ed occupazione a favore di soggetti svantaggiati, il più delle volte collaborando con enti pubblici o comunque appartenenti al settore terziario. Le persone affette da disabilità possono così trovare all'interno delle aziende agricole benefici sia dal lato fisico che psichico, quali l'aggregazione sociale o la nascita di nuovi interessi che prima non esistevano od erano semplicemente andati perduti, oppure il reinserimento nella società con attività di formazione che può poi tradursi nell'inserimento nel mondo del lavoro, a volte anche all'interno della stessa azienda. Sulla base delle domande P.S.R. (Piano Sviluppo Rurale) presentate fino ad oggi, relative alla misura 311 asse 1 "Diversificazione in attività non agricole" si nota come in provincia di Verona sia dislocato il maggior numero di aziende agricole che praticano anche attività sociale, assenti invece in provincia di Vicenza. Per le altre città i valori risultano intermedi.
(Figura 13.2.22)
La fattoria didattica si propone invece di creare un contatto informativo tra produttori e giovani consumatori attraverso attività educative ed istruttive, al tempo stesso divertenti. I giovani d'oggi possiedono un'idea sempre più vaga del percorso della catena alimentare, e non sanno che alla fonte ci sta l'azienda agricola e non l'industria agro-alimentare o addirittura il supermercato. Ed anche questo è uno dei motivi per cui tali fattorie stanno prendendo sempre più piede. Ad oggi in Veneto sono quasi 230, con un aumento dal 2003 al 2010 del 165%.
(Figura 13.2.23)
I distributori di latte crudo in Veneto
Nonostante la diffusione del latte fresco o a lunga conservazione prodotto dalle industrie casearie duri ormai da decenni, si è assistito negli ultimi anni a un ritorno del consumo di latte crudo. I principali motivi sono due: da una parte un movimento culturale che ha portato alla creazione di gruppi di consumatori alla ricerca di sapori e procedimenti "genuini", legati alla vita in campagna e all'attività rurale; dall'altra i contenziosi sul margine di guadagno dei produttori primari nella vendita del latte alle industrie e le conseguenti iniziative di vendita diretta.
Nel corso degli ultimi 5-6 anni questa seconda motivazione è stata la principale molla per molti allevatori che, avendo effettuato investimenti in strutture e attrezzature innovative e avendo introdotto efficienti prassi igieniche-sanitarie e sistemi di autocontrollo negli allevamenti, ritengono di avere le carte in regola per affrontare la vendita diretta del latte con il sistema dei distributori self-service che, saltando vari passaggi della filiera, consente di aumentare il margine di guadagno.
A livello nazionale sono attualmente attivi circa 1.500 distributori in 93 province
(Nota 9). La presenza più elevata è nelle regioni settentrionali, in cui sono più diffusi gli allevamenti per la produzione di latte. Secondo i dati della Sanità regionale aggiornati a luglio 2010, in Veneto sono attivi 256 distributori, maggiormente presenti nelle province di Padova (66) e Treviso (61), seguite da Verona con 41 e Venezia con 37. Il numero degli allevamenti da latte veneti che hanno aperto distributori sono 129, circa il 50% sono localizzati nelle province di Treviso e Padova, mentre un ulteriore 28% è ubicato nelle province di Verona e Venezia.
(Figura 13.2.24)
Il primo distributore ha aperto i battenti nel dicembre del 2005. L'anno successivo sono stati aperti altri 16 distributori e nel 2007 se ne sono aggiunti 28. Ma il vero boom di aperture si è avuto negli anni successivi: 96 nel 2008 e quasi altrettanti nel 2009, mentre nel 2010 ne sono stati aperti 27 fino al mese di luglio. In verità il numero di distributori attivati tra dicembre 2005 e luglio 2010 è maggiore, in quanto per circa una trentina di distributori non è disponibile la data certa di apertura. Complessivamente sono stati aperti in Veneto 294 distributori. Dal 2008 alcuni di questi hanno chiuso, principalmente perché le vendite non riuscivano a sostenere i costi d'investimento. In totale le chiusure sono state 38, delle quali 6 nel 2008, 24 nel 2009 e 8 da gennaio a luglio 2010.
In effetti dopo la fase di crescita dei primi anni si sta entrando in un periodo di assestamento del mercato del latte crudo. Si tratta di un prodotto che può interessare una nicchia di consumatori, variabile da località a località, anche all'interno di una stessa città. Inoltre la risposta della Distribuzione Moderna a questa forma di concorrenza dei produttori non si è fatta attendere: dal 2009 sugli scaffali dei supermercati sono state messe in vendita confezioni di latte fresco pastorizzato ai medesimi prezzi dei distributori, se non minori. Un altro fattore che può avere contribuito al ridimensionamento del numero dei distributori è l'Ordinanza Ministeriale che ha obbligato i produttori di latte ad affiggere sui distributori la scritta "prodotto da consumarsi solo dopo bollitura". Ciò ha in parte minato la fiducia del consumatore sulla sicurezza del prodotto e molti acquirenti sono tornati al tradizionale latte confezionato, attratti anche dalla riduzione dei prezzi del latte fresco pastorizzato a marchio commerciale.
Un'indagine campionaria condotta da Veneto Agricoltura nell'ultimo trimestre del 2010 ha consentito di raccogliere dati interessanti sulle vendite di latte mediante distributori. Si è osservato che il quantitativo medio mensile di latte venduto per distributore dall'inizio del 2007 fino a novembre 2008 risulta tendenzialmente in crescita, ben al di sopra dei 3.000 litri nell'ultimo periodo del 2008. Da dicembre 2008 la quantità di latte venduto inizia a calare drasticamente scendendo nel 2009 al di sotto di 2.000 litri/mese. La tendenza al ribasso continua anche nel 2010 per attestarsi su valori inferiori ai 1.500 litri/mese.
Il prezzo del latte nei distributori varia da 70 centesimi a 1 euro al litro, con prevalenza tra i 90 centesimi e 1 euro, e vengono favorite forme di abbonamento prepagate applicando uno sconto intorno al 10%. Prendendo come riferimento la media dei primi 9 mesi dell'anno, nel 2010 il fatturato complessivo annuo di questa forma di vendita è stimabile in quasi 4 milioni di euro, in calo rispetto ai 4,5 milioni presumibilmente fatturati nel 2009.
(Figura 13.2.25)
I farmers market
I farmers market rappresentano una particolare forma di commercializzazione dei prodotti agricoli e agro-alimentari, che riduce i passaggi del prodotto accorciando la filiera e creando un circuito breve per la vendita diretta dal contadino/produttore all'acquirente/consumatore. Sono stati introdotti ufficialmente dalla Finanziaria 2007 a cui ha fatto seguito il Decreto attuativo del MiPAAF del 20 novembre 2007 che ne ha regolamentato la creazione.
Il compito di istituire e autorizzare tali mercati spetta ai Comuni, mediante un opportuno regolamento che stabilisce modalità di vendita e ambito territoriale da cui è consentita la provenienza dei prodotti. I Comuni verificano inoltre il rispetto del disciplinare del mercato e delle norme igienico-sanitarie. La gestione del farmers market può essere a carico del Comune stesso o di Associazioni, Consorzi o gruppi di imprenditori con i quali viene stipulata un'apposita convenzione.
I mercati si svolgono su area pubblica, in locali aperti al pubblico o in aree di proprietà privata. Il numero delle aziende che possono partecipare al farmers market e la frequenza del mercato sono definiti a discrezione del Comune. Nei farmers market è consentita la vendita di prodotti agricoli conformi, provenienti dall'azienda che ne ha fatto domanda e in misura non prevalente da altre aziende agricole situate nello stesso ambito territoriale indicato nel regolamento. Sono ammessi anche i prodotti trasformati. I prodotti devono essere etichettati con l'indicazione del luogo di origine territoriale e il nominativo dell'impresa produttrice.
Secondo il monitoraggio realizzato dalla Regione Veneto, a giugno 2010 erano operativi in Veneto 46 mercati degli agricoltori. Il 33% dei farmers market (15) si svolge nella provincia di Venezia, seguita da Verona (11) e Treviso (8), Padova con 6 mercati, raddoppiati rispetto al 2009 e infine Rovigo e Vicenza, entrambe con 3 mercati ciascuna; nessun mercato è stato invece istituito in provincia di Belluno.
(Figura 13.2.26)
Nel corso del 2009 Veneto Agricoltura ha realizzato un'indagine sulla realtà veneta raccogliendo direttamente una cospicua mole di dati e informazioni originali desunte da 43 schede generali relative ai mercati attivi in Veneto durante il periodo di rilevazione, da 203 questionari "produttori" e da 264 questionari "consumatori".
Sono prevalentemente situati in luoghi centrali (49%) o nelle immediate vicinanze del centro cittadino (30%) e nel 79% dei casi hanno una frequenza settimanale. Si svolgono il sabato nel 28% dei casi e la domenica per il 16% ma, nel complesso, il 56% dei mercati ha luogo durante un giorno feriale della settimana. In totale le postazioni di vendita effettivamente operative nei farmers market censiti superano le 500 unità, in media 12 postazioni per mercato. Si tratta di posteggi con piccole superfici di vendita (comprese tra 2 e 5 mq nel 52% dei casi), prevalentemente dotate di una copertura (80%), generalmente un gazebo che nel 38% dei casi è di tipo standardizzato in quanto fornito o dal Comune o da un'Associazione di categoria.
Il 53% delle postazioni vende frutta e verdura, mentre circa il 10-12% tratta prodotti lattiero-caseari, carne e derivati o vino. Il resto riguarda altre tipologie varie di prodotto (olio, uova, cereali, piante e fiori, conserve e marmellate, miele, ecc.).
È possibile stimare che i produttori coinvolti nei farmers market raggiungano le 300 unità: dalle interviste risultano essere dei "professionisti" della vendita diretta. Si dedicano a questa attività da più di quattro anni nei tre quarti dei casi, il 60% di essi partecipa a più di un mercato e circa la metà delle aziende è presente nei farmers market per più di 50 giornate all'anno. Si tratta quindi di un'attività che impatta fortemente sulla gestione e l'organizzazione aziendale (creando anche delle difficoltà, come indicato dal 18% degli intervistati) e che di fatto limita la provenienza dei produttori a distanze relativamente brevi dal mercato. Il 31% infatti percorre meno di 10 km per raggiungere il luogo del mercato e un altro 30% si mantiene in un raggio compreso tra 10 e 20 km. Il 76% dei produttori ha dichiarato di avere realizzato degli investimenti per partecipare al mercato: in prevalenza si tratta di attrezzature (espositori, bancarelle, gazebo) o strumenti di vendita quali bilance, carrelli, cassette e cartelli segna-prezzo.
Per il 78% si tratta di aziende che presentano un fatturato inferiore a 100.000 euro, con un mercato di vendita locale e regionale: solo il 17% vende i propri prodotti al di fuori del Veneto. Il 70% delle vendite in valore viene realizzato tramite la vendita diretta, il rimanente tramite grossisti o cooperative/organizzazioni dei produttori Tra le diverse modalità di vendita diretta, continua a prevalere quella in azienda (44% delle vendite dirette in valore), mentre l'attività commerciale presso i farmers market rappresenta una quota del 33% sul totale. Essendo un canale di vendita relativamente nuovo, il 71% dei produttori realizza attraverso il farmers market meno del 20% del proprio fatturato e il 47% meno del 10%.
(Figura 13.2.27)
Nel complesso, il 94% dei produttori giudica positivamente la propria partecipazione ai farmers market e l'83% dichiara con certezza di voler continuare a utilizzare questo canale di vendita avendo osservato un aumento del reddito aziendale e ritenendo vantaggioso poter stabilire una interazione diretta con i clienti, instaurare con essi rapporti di lunga durata e beneficiare in ogni caso di un aumento della clientela, oltre a entrate certe e immediate.
I consumatori che frequentano i farmers market sono prevalentemente donne (65%) e di età compresa tra 40 e 60 anni (41%) o superiore (38%). Principalmente si tratta di nuclei familiari costituiti da 3-4 componenti (47%), ma numerosi sono anche i nuclei composti da due componenti (37%), prevalentemente formati da adulti di età compresa tra 30 e 65 anni e oltre. Quasi l'80% percorre meno di 5 km per recarsi al mercato e la metà di essi vi si reca a piedi o in bicicletta. Elevata anche la percentuale di chi utilizza l'auto (46%) per la possibilità di effettuare acquisti voluminosi, considerata la prevalente vicinanza di parcheggi al luogo di svolgimento del mercato. Oltre la metà dei consumatori intervistati (53%) dichiara di recarsi al farmers market con regolarità settimanale. La modalità con cui si viene a conoscenza dell'esistenza del mercato è il passaparola di amici e conoscenti o casualmente passando per il luogo di svolgimento. Più raramente leggendo i giornali o depliant informativi, a evidenziare la scarsa comunicazione e promozione effettuata sul territorio. Di conseguenza, anche la conoscenza dei consumatori è apparsa a tratti lacunosa, con fraintendimenti sulla provenienza dei prodotti, sulla tipologia dei venditori ammessi o sui soggetti che hanno istituito i farmers market.
Il prodotto maggiormente acquistato è la frutta e verdura (dichiarato dal 95% dei consumatori); quasi la metà (48%) acquista prodotti lattiero-caseari e percentuali notevolmente inferiori comprano carne e derivati, miele, vino, conserve, marmellate o altri prodotti trasformati e fiori. La spesa media si aggira sui 15 euro e circa il 75% dichiara di spendere un importo compreso tra 5 e 20 euro per ogni visita al mercato. Si stima in circa 650.000 il numero di consumatori che visita ogni anno i farmers market, pari a una quantità di atti di acquisto intorno a 1,4 milioni e un giro d'affari stimato in oltre 10 milioni di euro all'anno.
Per quanto riguarda le motivazioni d'acquisto, il confronto tra le risposte dei consumatori e quelle dei produttori evidenzia alcune divergenze di opinione: se infatti garanzia di genuinità e freschezza (69% dei consumatori) e gusto e sapore (53%) sono le motivazioni indicate per prime da entrambi, sul resto esistono pareri contrastanti. I consumatori dichiarano di recarsi in un farmers market per il basso prezzo (46%), per la fiducia nel produttore (31%) e per una maggiore garanzia di sicurezza e salubrità dei prodotti (29%), mentre i produttori ritengono prioritarie la fiducia nel produttore (54%) e la possibilità di un rapporto diretto con lo stesso (38%) nell'orientare le scelte dei consumatori.
(Figura 13.2.28)
Agricoltura e futuro: la nuova PAC dopo il 2013
(Nota 10) Nell'ambito del quadro della strategia Europa 2020, promossa dall'Unione Europea, si inserisce anche la revisione della
politica agricola comune (PAC), secondo orientamenti in grado di affrontare le sfide particolari, e spesso impreviste, per assicurare un futuro a lungo termine del settore agricolo e delle zone rurali. Il percorso che ha condotto alla elaborazione del documento della Commissione europea "
La PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell'alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, COM(2010) 672/5" ha previsto una serie di fasi che hanno coinvolto l'opinione pubblica (Consultazione online, 2010), il Consiglio ed il Parlamento europeo, oltre al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni. È stata confermata la necessità che la futura PAC mantenga il suo carattere di politica comune forte imperniata su due pilastri complementari, il primo dei quali incentrato su pagamenti diretti e misure di mercato ed il secondo su misure pluriennali di sviluppo rurale.
Gli obiettivi da perseguire puntano a:
- preservare il potenziale di produzione alimentare dell'UE secondo criteri di sostenibilità, per garantire la sicurezza dell'approvvigionamento alimentare;
- sostenere le comunità agricole che forniscono una grande varietà di derrate alimentari di pregio e qualità, prodotte in maniera sostenibile, nel rispetto degli obiettivi definiti per l'ambiente, le acque, la salute e benessere degli animali e delle piante e per la salute pubblica;
- preservare la vitalità delle comunità rurali, per le quali l'agricoltura costituisce un'attività
economica importante, in grado di creare occupazione locale.
La proposta conferma quindi che l'agricoltura è una componente essenziale dell'economia e della società europea, la cui regressione determinerebbe pesanti ripercussioni dirette ma anche indirette, sui settori economici correlati, sulle attività rurali in generale, sul turismo ed i trasporti, sulla vitalità delle aree rurali, con conseguenze ambientali e sociali difficilmente valutabili. La PAC dovrebbe poggiare su un
primo pilastro più verde e più equamente ripartito e su un
secondo pilastro molto orientato alla competitività e all'innovazione, al cambiamento climatico e all'ambiente, anche in funzione degli obiettivi previsti dalla strategia Europa 2020. Ai fini dell'efficacia ed efficienza degli aiuti e per legittimare ulteriormente la PAC, deve essere valutata la possibilità di riservare il sostegno agli
agricoltori attivi e di remunerare adeguatamente i servizi che questi forniscono alla collettività. In ogni caso, occorre assicurare la controllabilità delle misure proposte e proseguire il percorso intrapreso sulla strada della semplificazione delle politiche e delle modalità di attuazione. In sostanza, sarà compito e obiettivo della PAC quello di promuovere un'agricoltura europea competitiva ed equilibrata sul piano territoriale ed ambientale, in grado di remunerare anche tutti quei beni forniti dal settore agricolo, ma non adeguatamente regolati e compensati dal mercato (
beni pubblici).
Gli
strumenti attraverso i quali dare attuazione a tali obiettivi sono rappresentati dai pagamenti diretti e dalle misure di mercato (primo pilastro) e dallo sviluppo rurale (secondo pilastro), sulla base di diverse possibili opzioni che dovranno essere valutate e verificate in fase di messa a punto dei regolamenti applicativi. Le tre diverse
opzioni prefigurate dalla Comunicazione implicano la modifica degli strumenti attualmente applicati, prospettando in particolare (seconda opzione) una equa distribuzione degli aiuti diretti attraverso una possibile articolazione del
pagamento secondo quote da corrispondere in funzione di specifici obiettivi (sostegno al reddito, ad interventi ambientali, a fronte di specifici vincoli naturali e/o di problemi specifici di area), con un orientamento più deciso verso gli agricoltori in attività. Per le
misure di mercato si prospetta un'azione di razionalizzazione e semplificazione degli strumenti vigenti, con la possibile introduzione di nuovi elementi per migliorare il funzionamento della filiera alimentare, per la quale vengono chiaramente indicate le principali questioni e criticità. Confermato inoltre il ruolo essenziale dello
sviluppo rurale per rafforzare la sostenibilità del settore agricolo e delle aree rurali dell'UE sul piano economico, ambientale e sociale, i relativi obiettivi sembrano riprendere esplicitamente le linee prioritarie attuali (
competitività, gestione sostenibile risorse, sviluppo territoriale equilibrato), mentre vengono evidenziate le tematiche chiave che dovranno essere al centro delle politiche:
- innovazione
- ambiente
- cambiamento climatico
La Conferenza Regionale dell'Agricoltura e dello Sviluppo Rurale
(Nota 11) Allo scopo di delineare una "
posizione veneta" matura e condivisa, in grado di ritagliarsi un'adeguata valorizzazione nell'ambito della strategia nazionale relativa al periodo di programmazione post 2013, la Regione del Veneto ha attivato la
Conferenza regionale dell'agricoltura e dello sviluppo rurale, un percorso guidato di approfondimento e confronto sul futuro del mondo rurale veneto, per indirizzare lo sviluppo del settore e le strategie "di accompagnamento" che si dovranno implementare nel prossimo periodo di programmazione. L'obiettivo principale della Conferenza è stato quello di definire e condividere un'
Agenda delle priorità strategiche regionali per orientare e prefigurare le dinamiche di sviluppo del sistema agricolo e rurale veneto nel medio periodo, nel contesto delle prospettive delineate a livello comunitario e in funzione dell'attuale programma di governo della Giunta regionale.
Dopo il seminario di avvio della Conferenza, che ha avuto il compito di presentare i primi orientamenti dell'UE e un'agenda di possibili priorità attraverso le quali avviare la discussione sul futuro dell'agricoltura veneta, per definire e condividere con gli operatori, i principali portatori di interesse e la collettività, sono state identificate le seguenti priorità strategiche del sistema agricolo veneto:
- Innovazione, informazione e filiera della conoscenza
- Globalizzazione dei mercati e nuovi strumenti d'intervento
- Sistemi agricoli e forestali, ambiente e produzione di beni pubblici
- Qualità dei prodotti e sostenibilità
- Governance e federalismo per l'agricoltura e le aree rurali
A questo scopo, oltre agli appositi seminari tematici, è stata avviata anche una consultazione "on-line" aperta a tutti coloro che intendessero presentare contributi e proposte per delineare e definire l'Agenda delle priorità strategiche per il sistema agricolo, forestale e rurale del Veneto.
L'Agenda delle priorità strategiche
A conclusione del percorso promosso dalla Conferenza, il quadro delle
priorità strategiche ha assunto una configurazione più precisa e definita, in grado di focalizzare gli orientamenti fondamentali per l'azione regionale nel contesto delle strategie perseguite dall'Unione Europea, per la società nel suo complesso (
Europa 2020) e per la riforma della politica agricola comune (
PAC 2020):
- innovazione, informazione e conoscenza
riconoscere, condividere e promuovere l'innovazione, l'informazione e la conoscenza quali condizioni necessarie e risolutive per la crescita e lo sviluppo del capitale umano, dell'impresa e del sistema agricolo e rurale.
- competitività per lo sviluppo sostenibile e duraturo
migliorare e consolidare la competitività delle imprese attive e del sistema rurale, per affrontare e gestire i fenomeni associati alla globalizzazione e alla crisi, assicurando lo sviluppo sostenibile e duraturo e la coesione economica e sociale dei territori.
- gestione sostenibile ed equilibrata dei sistemi e produzione di beni pubblici
coniugare lo sviluppo e la crescita con la gestione sostenibile dei sistemi rurali, del territorio, dell'ambiente e delle sue risorse, a vantaggio della produzione dei beni pubblici da parte dell'agricoltura e della loro valorizzazione economica.
- qualità diffusa, certificata e riconosciuta
promuovere, diffondere e riconoscere la qualità come elemento di valore, di crescita e di sostenibilità economica, sociale, ambientale.
- sussidiarietà e federalismo per la governance e la semplificazione
riconoscere, perseguire e applicare i principi di sussidiarietà e federalismo attraverso modelli efficienti di governance, ai fini dell'attuazione efficace delle politiche e della semplificazione dei relativi atti e procedure.