Tra gli obiettivi strategici europei, l'equità e la coesione sociale, conseguibili solo con una società democratica che garantisca pari opportunità a tutti, e la prosperità economica, raggiungibile mediante la piena occupazione e l'offerta di lavori adeguati.
E ciò non potrebbe inserirsi meglio se non nell'anno in cui si celebra il 150esimo della nascita dell'Italia. Ancora una volta è chiaro che la riduzione delle ineguaglianze è la risposta chiave per la crescita collettiva, soprattutto in un paese cambiato nel tempo come l'Italia, oggi tra l'altro importante crocevia migratorio dove lavoratori stranieri affluiscono e sempre più consolidano la loro presenza con i ricongiungimenti familiari.
Riconoscersi comunità nazionale e, allo stesso tempo, cittadini europei, è l'occasione per il Paese di riscoprire la propria identità e di crescere costantemente.
Più donne al lavoro per sostenere il nostro futuro
Per garantire lo sviluppo dell'occupazione, l'aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro riveste un ruolo chiave: sia il Programma per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro "Italia 2020" che il Piano per la conciliazione del 2010 sono finalizzati a favorire la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli dedicati alla cura della famiglia e a promuovere le pari opportunità nell'accesso al lavoro
(Nota 3).
Il tema della bassa occupazione femminile è legato a quello delle politiche di sostegno alla famiglia: le donne italiane pagano un ritardo storico dovuto alla scarsa offerta di servizi per l'infanzia e spesso rinunciano a cercare un lavoro o faticano a mantenerlo, perché con difficoltà riescono a far conciliare famiglia e lavoro.
Nel 2010 l'Italia registra un tasso di occupazione femminile pari al 46,1%, più basso di oltre 12 punti percentuali rispetto all'UE27 e distante di quasi 14 punti dall'obiettivo fissato a Lisbona di raggiungere un livello di occupazione per le donne del 60% entro il 2010; un ritardo rispetto all'Europa e ai benchmark di Lisbona attribuibile in gran parte ai modesti tassi di occupazione femminili registrati nelle regioni del Mezzogiorno. 12 paesi su 27 raggiungono il target europeo, primo fra tutti la Danimarca con un tasso di oltre il 71%, segue la Svezia con il 70,3% e l'Olanda con il 69,3%.
Nel complesso il divario occupazionale tra i generi è assai più marcato in Italia rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei (fanno eccezione Malta e Grecia). Il tasso di occupazione maschile in Italia è, infatti, di quasi 22 punti percentuali superiore rispetto a quello femminile contro lo scarto di dodici punti registrato nell'UE27. Viceversa, i gap più bassi si rilevano nei Paesi Baltici.
Migliore la situazione della partecipazione al mercato lavorativo delle donne nella nostra regione che nel 2010 registra un tasso di occupazione pari al 53,3%, in calo però rispetto al 2009 (53,9%) e ancora molto distante da quello maschile pari al 75,3%. Le regioni più virtuose sono Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna che presentano un tasso di occupazione femminile intorno al 60%, uniche regioni che raggiungono il target europeo; inoltre la Valle d'Aosta rileva anche il differenziale di genere più basso fra le regioni italiane (14 punti percentuali).
Come per l'Italia, è evidente la crescita del gap tra il tasso di occupazione femminile e quello maschile con l'aumentare dell'età: se nella fascia di età più giovane (15-24 anni) in Veneto nel 2010 la differenza tra i tassi è meno di undici punti percentuali, questa aumenta col crescere dell'età fino a registrare tra i 45 e 54 anni un gap di ventinove punti percentuali. Inoltre, sono evidenti i bassi livelli di occupazione femminile degli over 55 in Veneto come in Italia, che suggeriscono pertanto, rispetto alle politiche occupazionali del nostro Paese, una maggiore attenzione all'invecchiamento attivo nell'ottica di una società più sostenibile e inclusiva.
Va sottolineato, comunque, che in questi ultimi anni, sia in Veneto che complessivamente in Italia, la differenza dei livelli occupazionali per genere sta diminuendo.
(Tabella 11.2.1)
Valorizzare il talento della donna per un'economia più sostenibile
Nel 2010 le donne occupate in Veneto sono oltre 856mila, il 9,3% del totale delle donne occupate in Italia, contro gli oltre 1 milione e 255 mila lavoratori maschi.
Elaborando i dati Istat delle Forze Lavoro dei primi tre trimestri del 2010 per ottenere qualche informazione in più sulle caratteristiche dell'occupazione femminile, risulta che le donne lavorano per oltre l'84% dei casi alle dipendenze. Se da una parte, meno del 16% ha un impiego indipendente, il secondo valore più basso fra le regioni italiane, contro il 30% stimato per i maschi veneti, dall'altra ben quasi l'88% delle lavoratrici ha un contratto a tempo indeterminato (gli uomini il 91%), il terzo valore più alto fra le regioni italiane.
La presenza femminile ai posti di comando è però bassa: in Veneto sono il 2,1% gli occupati maschi con cariche dirigenziali e il 4,5% i quadri contro, rispettivamente, lo 0,9% e il 3,3% delle lavoratrici donne. Sommando questi ultimi due valori, inoltre, si registra per il Veneto la quota più bassa di donne ai vertici fra tutte le regioni italiane. Poche anche le libere professioniste venete, appena il 2,4%, oltre tre punti percentuali in meno del dato rilevato fra i maschi, e troppe le donne inquadrate in professioni non qualificate, il 12,1% contro il 5,5% registrato per gli uomini.
Discriminante poi anche lo stipendio. Considerando gli occupati a tempo pieno, nel 2010 si stima che oltre il 18% delle lavoratrici venete arriva a fine mese con meno di 1.000 euro, oltre il doppio del valore stimato per i maschi, ma fortunatamente inferiore al dato registrato a livello medio nazionale (22%). Appena il 19,3% delle venete percepisce uno stipendio superiore ai 1.500 euro (23,9% il dato italiano) contro il 34,5% degli uomini (in Italia 33,5%).
E' chiaro che se la donna gioca un ruolo chiave a sostegno della crescita e della prosperità economica, occorre valorizzarne anche pienamente il talento; le donne rappresentano oltre il 60% dei laureati, eppure continuano ad essere sottorappresentate nei luoghi decisionali dell'economia e pagate meno rispetto agli uomini.
Il part-time... un fenomeno al femminile
Parlando di prosperità economica, obiettivo raggiungibile mediante la piena occupazione e l'offerta di impieghi adeguati, nel più generale quadro della Strategia Europea, non si può non trattare il tema del part-time. Il lavoro a tempo parziale è considerato, infatti, uno strumento importante per accrescere la partecipazione e l'occupazione, una soluzione per equilibrare gli impegni della vita professionale con le esigenze personali e familiari.
In generale, in questo ultimo decennio l'occupazione part-time aumenta in Europa, con l'eccezione di alcuni paesi dell'Est. Nel 2009 nell'UE27 quasi un lavoratore su cinque ha un contratto a tempo parziale; il paese dove è più diffuso è l'Olanda, dove ben il 48,3% degli occupati lavora a tempo ridotto, mentre tocca all'Austria registrare dal 2000 al 2009 l'incremento più forte (oltre sedici punti percentuali in più del dato del 2000).
Anche in Italia, sebbene sia al di sotto della media europea, il fenomeno è in crescita: dall'8,4% del 2000 si passa al 14,3% del 2009; leggermente più alta la quota in Veneto che nel 2009 si attesta sul 14,9%, quasi cinque punti percentuali al di sopra del dato del 2000.
Tale strumento ha di certo una forte caratterizzazione di genere, considerato l'utilizzo fatto per consentire la permanenza nel mercato del lavoro di molte donne altrimenti costrette all'inattività, spesso per supplire alla carenza di servizi di cura. Un fattore chiave, infatti, che spiega la diversa diffusione del part-time tra i paesi è sicuramente l'accesso ai servizi di assistenza all'infanzia e alla cura degli anziani; certamente, non vanno dimenticate, comunque, anche le differenze culturali riguardo la preferenza degli orari di lavoro e le diverse normative e incidenze di costi fissi e di agevolazioni fiscali che rendono più o meno conveniente il part-time per i datori di lavoro.
Nel 2009 la percentuale di donne occupate con un contratto a tempo ridotto nell'UE27 è pari al 31,4%, tre punti percentuali in più del dato rilevato nel 2000, contro il dato maschile dell'8,3%. Sono soprattutto le donne del Nord Europa le maggiori utilizzatrici, mentre nei paesi dell'Est sono meno del 15% coloro che lavorano con un contratto a tempo parziale. In particolare, si passa dal dato olandese, dove tre donne su quattro lavorano con il part-time, a cui si associa il secondo tasso di occupazione femminile più alto fra i paesi dell'UE27, al dato della Bulgaria dove sono meno del 3% le occupate con tale contratto e il tasso di occupazione è pari al 58,3%.
Più accentuata in Italia la crescita del part-time femminile in questi nove anni: nel 2009 sono circa il 28% le donne occupate a tempo ridotto, oltre undici punti percentuali in più del 2000, a fronte, invece, del dato maschile pari ad appena il 5,1%.
Più elevata la sproporzione fra i generi in Veneto che registra per il part-time femminile una quota pari al 31,1% (contro il 20,7% del 2000), il quarto valore più elevato tra le regioni italiane, e per quello maschile il 3,7%, il più basso in Italia. Il primato dell'utilizzo di part-time fra le donne spetta al Trentino Alto Adige con il 36,4%.
(Figura 11.2.1)
Il part-time: obbligo o volontà?
Non sempre, però, lavorare con un contratto part-time è una scelta.
Scendendo nel dettaglio femminile, vi è, infatti, anche una buona quota di donne che non trova un impiego a tempo pieno: in Italia nel 2009 sono, infatti, circa il 12% delle lavoratrici; migliore la situazione nella nostra regione, dove meno del 10% delle donne lavora a tempo ridotto perché non ha trovato un lavoro full-time, il quinto valore più basso fra le regioni italiane, sebbene in aumento rispetto 2005 (6,4%). Spicca il Trentino Alto Adige: è la regione con la quota più bassa di occupate in part-time per mancanza di un lavoro a tempo pieno (7,8%) e anche quella con la quota più alta di lavoratrici che, invece, lavora part-time per scelta (28,6%).
Ancora una volta a soffrire maggiormente è il Sud che presenta valori molto più alti di donne che, pur non volendo, sono costrette a lavorare con un contratto part-time e di conseguenza a guadagnare meno.
In Veneto sono oltre il 21% le occupate che lavorano a tempo ridotto per volontà: il motivo principale è, come già prima accennato, quello di volersi prendere cura dei figli o di altri cari, anche perché i servizi di cura presenti nel territorio sono a volte inadeguati; da notare, infatti, che una piccola quota di occupate venete critica l'assenza di tali servizi, in misura superiore del dato registrato a livello nazionale.
(Figura 11.2.2) e
(Tabella 11.2.2)
Equilibrio fra generazioni: una chiave per il successo
Ma per una ripresa sostenibile dell'occupazione è necessario lavorare anche su giovani e anziani. Ai giovani occorre garantire la possibilità di entrare nel mercato del lavoro, di far valere il proprio titolo di studio e di ottenere un impiego dignitoso che gli permetta di costruire un futuro, una carriera, una famiglia. Al tempo stesso è necessario trattenere le persone meno giovani nel mercato occupazionale, dando loro la possibilità di sfruttare l'esperienza acquisita nel corso del tempo, di migliorarla anche attraverso la formazione e di continuare ad essere una risorsa per la società.
Alla ricerca di un nuovo equilibrio
La popolazione sta di fatto invecchiando: questo è determinato sicuramente da un miglioramento continuo della qualità della vita, ma porta a rivedere gli equilibri fra generazioni e a ripensare ai meccanismi di uscita dal mercato del lavoro. A tale scopo, la strategia di Lisbona fissava entro il 2010 l'obiettivo del 50% per il tasso di occupazione della popolazione in età 55-64 anni. Nel 2010 questo obiettivo è stato raggiunto da nove stati europei su ventisette, primi fra i quali la Svezia (71%), la Germania e la Danimarca (58%) e il Regno Unito (57%). L'Italia si ferma a quota 36,6% e il Veneto al 35,4%. Tuttavia vale la pena evidenziare i grandi passi in avanti fatti da tutti gli stati europei, Italia compresa: il tasso di occupazione dell'UE27, è passato dal 37% del 2000 al 46% del 2010, l'Italia pur partendo da livelli più contenuti è riuscita a crescere di 9 punti percentuali (da 28% a 37%) e il Veneto di 10 (da 25% a 35%); se poi si confrontano solamente i dati dell'ultimo biennio, si può osservare che mentre il tasso di occupazione della popolazione in età attiva (15-64 anni) è diminuito per effetto della crisi, per la fascia d'età 55-64 anni è continuato a crescere. In particolare, si è osservato un fenomeno di convergenza fra i paesi europei: come riportato dal rapporto del CNEL
(Nota 4), dal 2000 al 2009 si osserva una crescita dei livelli occupazionali maggiore in quei paesi che inizialmente registravano tassi inferiori, segno che l'Europa sta lentamente convergendo verso livelli comuni.
(Figura 11.2.3)
Alla ricerca del proprio spazio
Più allarmante è la situazione dei giovani: secondo i dati Eurostat, il tasso di disoccupazione giovanile 15-24 anni risulta essere nei paesi europei due o tre volte (in alcuni anche 4 volte) superiore a quella della popolazione di 25 anni o più.
È evidente la difficoltà dei giovani di ricavarsi un proprio spazio all'interno di un mercato lavorativo che cerca di uscire dalla crisi. Nel 2010 in Italia la disoccupazione aumenta e più di un quarto della forza lavoro giovane è disoccupata; nel Mezzogiorno la situazione è ancora più preoccupante, con livelli in alcuni casi superiori al 40%. Il Veneto, sebbene registri una crescita di giovani disoccupati di circa cinque punti percentuali rispetto al 2009, risulta, comunque, fra le regioni con i tassi di disoccupazione giovanili più bassi, pari al 19,1%.
(Figura 11.2.4)
Bisogna poi accontentarsi della paga. Analizzando il reddito dei lavoratori dipendenti a tempo pieno, nel 2009 in Veneto il 70% dei giovani 15-19enni guadagna meno di mille euro al mese, quota che scende rapidamente al 45% per la classe d'età 20-24 anni e che si dimezza successivamente (20% per 25-29enni, 12% per 30-34enni).
Giovani veneti meno instabili
Il primo impatto con il mondo del lavoro non è sicuramente facile: più alta la quota di disoccupati, maggiore la percentuale di lavoratori sottoinquadrati e redditi inferiori. Ma i disagi non si limitano a questi aspetti: professione svolta e stabilità del contratto sono altri due elementi critici.
Nel 2009 l'occupazione dei ragazzi più giovani in Veneto si caratterizza per una quota molto elevata di impieghi alle dipendenze (92%); nella maggior parte dei casi si tratta di operai (53%) e con una percentuale di contratti a termine quattro volte superiore alla media della popolazione (41%), anche se per lo più di durata superiore all'anno.
Al crescere dell'età e, quindi, con il conseguimento di titoli di studio superiori e l'acquisizione di esperienze professionali, la situazione migliora: aumentano gli indipendenti e gli autonomi, diminuiscono gli operai e più persone trovano un lavoro da impiegati. In sintesi, fino ai 30 anni i giovani vivono in condizioni più svantaggiate rispetto al resto della popolazione e solo quando raggiungono i 30-34 anni, la conformazione del lavoro diventa più simile a quella delle classi d'età più adulte, anche se per il superamento di alcuni gap è necessario attendere la soglia dei 35 anni: fra i 30 e i 34 anni la percentuale di operai e di liberi professionisti si avvicina alla media della popolazione, ma rimangono ancora delle differenze relativamente alla quota di lavoratori indipendenti e delle posizioni di più alto livello (dirigenti, quadri e imprenditori).
Inoltre, col passare degli anni, diminuisce anche l'instabilità di cui soffre il giovane, e i contratti a termine in Veneto passano dal 38,5% registrato per i 20-24enni all'8% dei 30-34enni.
In particolare, il Veneto risulta la seconda regione con la più bassa percentuale di lavoratori 15-34enni a tempo determinato (20,3%), preceduta solamente dalla Lombardia (17,6%). Questo è sicuramente un risultato positivo, ma non bisogna trascurare il trend del fenomeno e gli effetti della crisi degli ultimi anni: nel 2005 i tempi determinati superavano di poco il 16% in Veneto e il 20% in Italia. Nel giro di quattro anni sono dunque aumentati di 4 punti percentuali nella nostra regione e di quasi 3 a livello nazionale e le prime stime del 2010 registrano un'ulteriore crescita (in Veneto 21,2%, 23,8% in Italia).
(Figura 11.2.5)
D'altra parte, meglio un lavoro a termine che rimanere a casa disoccupato. A fronte di un mercato prima troppo rigido che imponeva forti obblighi ai datori di lavoro, la flessibilità contrattuale è uno strumento che, se ben utilizzato, consente ai giovani di non restare a lungo disoccupati, soprattutto in questo periodo di crisi.
Studiare o lavorare? Nessuno dei due
La crisi ha certamente acuito le difficoltà d'inserimento al lavoro dei giovani e ciò ci porta ad interrogarsi anche su un fenomeno che da marginale è divenuto quasi prioritario: si tratta dei NEET, dall'acronimo inglese "Not in Employment, Education or Training", ossia i ragazzi che non studiano, non si formano e non lavorano. Secondo la rilevazione dell'Istat sulle Forze di Lavoro, in Veneto, nel 2009, il 59% dei giovani in età 15-24 anni segue corsi di studio o di formazione, mentre il 30% lavora. I NEET rappresentano, invece, l'11% dei ragazzi veneti, situazione migliore di quella rilevata a livello nazionale, dove si sfiora il 18%
(Nota 5).
In particolare, il Veneto risulta la terza regione italiana con la percentuale più bassa di ragazzi al di fuori del circuito scuola-lavoro, preceduta soltanto da Emilia Romagna (10,9%) e Trentino Alto Adige (8,8%).
Ma chi sono questi giovani? Una parte sono ragazzi che avevano un lavoro, ma dopo averlo perso sono alla ricerca di una nuova occupazione (disoccupati ex occupati), altri hanno appena concluso gli studi e stanno cercando il loro primo impiego (disoccupati in cerca di prima occupazione) e altri ancora, dopo un periodo di inattività, hanno iniziato una ricerca attiva di lavoro (disoccupati ex inattivi).
Tuttavia, la parte più numerosa è costituita da quei ragazzi che non hanno un lavoro e che al tempo stesso non lo stanno cercando, ossia gli inattivi: in Veneto sono quasi il 7% sul totale dei giovani in età 15-24 anni mentre in Italia oltre l'11%.
Sarebbe, comunque, troppo facile e sbrigativo definirli bamboccioni: è necessario capirne le implicazioni a livello personale e sociale, ma soprattutto studiarne le cause. Da quanto appena descritto risulta evidente che la problematica dei NEET è associata più all'inattività che alla disoccupazione: ciò significa che il fenomeno è legato solo in parte alla crisi occupazionale che ha coinvolto il nostro Paese negli ultimi anni, ma che in realtà è intrinseco nel territorio.
(Figura 11.2.6)
Differenze significative risultano anche dal confronto fra stranieri e italiani: in Veneto, nel 2009, la percentuale di NEET è pari a meno dell'8% fra i giovani di cittadinanza italiana, mentre è quasi quattro volte maggiore fra i giovani stranieri. A livello nazionale, le differenze sono meno marcate, ma pur sempre evidenti: la quota di NEET, infatti, varia dal 16,8% degli italiani al 27,5% degli stranieri. Di fatto, il Veneto è una delle regioni, assieme al Friuli Venezia Giulia, dove la problematica dei NEET è associata in modo più forte alla cittadinanza e si registrano i divari maggiori.
La diversa percentuale di NEET è dovuta anche alla minore tendenza degli stranieri a proseguire gli studi: se, infatti, la quota di giovani in età 15-24 anni che lavorano è maggiore fra gli stranieri che fra i veneti (37% per i primi contro il 29% dei secondi), è decisamente minore la quota di quanti studiano (32% contro 63%).
Le diverse opportunità degli stranieri
Fondamentale, poi, il contributo al benessere economico e sociale nel nostro Paese degli stranieri. Il calo della fecondità italiana, il sostenuto allungamento dei tempi di vita, il progressivo invecchiamento della popolazione e la conseguente più esigua proporzione delle persone in età lavorativa sono trasformazioni che hanno contribuito a rendere il nostro Paese un territorio fortemente attrattivo per molti immigrati, una terra di opportunità dove poter trovare lavoro e condizioni migliori di benessere rispetto al proprio paese di origine.
Risulta fondamentale, quindi, a livello nazionale, la cooperazione tra i vari livelli di governo così da facilitare l'inserimento sociale degli immigrati nella società, prevenendo forme di marginalizzazione e irregolarità e sostenendo l'accesso al diritto della cittadinanza e i ricongiungimenti familiari; ciò al fine di garantire anche la sostenibilità degli stessi flussi di ingresso in relazione alle capacità recettive dei contesti sociali di inserimento e del fabbisogno del mercato del lavoro nazionale.
Il Veneto è una delle prime regioni italiane per consistenza della popolazione straniera: quarta nel 2009 con 98 stranieri ogni 1.000 abitanti; prima fra tutte le regioni l'Emilia Romagna con oltre 105 immigrati per mille abitanti. Di conseguenza, la nostra regione è una delle prime per l'incidenza di lavoratori stranieri sul totale degli occupati: nel 2009 il Veneto accoglie oltre 223.000 lavoratori stranieri, assorbendo quasi il 12% dei lavoratori immigrati in Italia e incidendo per il 10,6% sulla totalità degli occupati residenti nella nostra regione, quasi quattro punti percentuali in più del dato del 2005.
E' evidente ancora una volta lo spaccato tra Nord e Sud: le regioni meridionali sono ovviamente meno attrattive quando si parla di lavoro, tanto che gli occupati stranieri insistono per appena il 2-4% sul totale dei lavoratori rispetto all'8-11% registrato nelle regioni del Nord.
Sebbene negli ultimi anni si assista ad una crescita maggiore delle donne occupate straniere, a effetto anche dei ricongiungimenti familiari, i lavoratori immigrati regolari in Veneto sono nel 2009 per il 63,2% maschi. Nel dettaglio, la provincia che ne accoglie di più è Verona che con quasi 63.500 occupati stranieri incide sul totale dei lavoratori della provincia per il 15,5%; segue Treviso (13,7%), mentre la quota più bassa si registra a Padova (4,5%). In linea con il dato nazionale, si tratta per lo più di romeni (25,7% del totale degli stranieri occupati in Veneto), albanesi (11,4%) e marocchini (9,1%).
Lavori diversi per gli stranieri
Considerato lo scompenso demografico creatosi nella popolazione in età attiva italiana e l'importanza che riveste la forza lavoro straniera nel mercato lavorativo italiano, nonché veneto, bisogna interrogarsi sulle opportunità lavorative offerte agli immigrati.
Tra gli stranieri la netta maggioranza, circa 200mila individui, risulta inserita nel 2009 in Veneto nel lavoro dipendente, mentre solo una piccola parte, il 10,4%, contro il 23% degli italiani, lavorano in modo indipendente; tale gap si riflette in quasi tutte le regioni italiane, ad eccezione delle Isole.
Meno poi i lavoratori immigrati assunti con un contratto a tempo indeterminato, in Veneto l'84,3% contro il 90% degli autoctoni e diversa anche la durata del contratto determinato: agli italiani vengono offerti maggiormente contratti brevi (il 33,6% degli occupati hanno un contratto che dura al massimo sei mesi), mentre i datori di lavoro destinano agli stranieri soprattutto contratti che vanno dai 7 mesi ad un anno (il 38,2% degli occupati stranieri a tempo determinato contro il 32,8% rilevato fra gli italiani); infine, il 30,4% dei lavoratori italiani a tempo determinato ha un lavoro che dura più di un anno contro il 27,3% registrato per gli stranieri.
Nel confronto regionale spicca il dato della Calabria, dove quasi il 40% degli immigrati è assunto con un contratto precario contro il dato degli autoctoni del 20,3%, il valore più alto, comunque, fra tutte le regioni anche per gli italiani. Viceversa, la regione con la più bassa percentuale di occupati stranieri dipendenti a tempo determinato è il Lazio (7,3%).
Gli stranieri svolgono prevalentemente lavori sottoinquadrati rispetto ai loro titoli di studio e alle loro competenze; sono per lo più operai in occupazioni spesso pesanti, lavori tradizionali ma ancora fondamentali, poco qualificanti e poco attrattivi per gli italiani: nel 2009 in Veneto ben l'84,1% degli occupati immigrati regolari fa l'operaio (77,1% in Italia) contro il 35,5% registrato fra gli italiani (31,3% in Italia). Ne consegue la prevalenza più alta nel settore dell'industria e, in particolare, nelle costruzioni: 38,2% gli stranieri occupati nel settore industriale in Veneto, contro il 29,2% degli italiani, e 14,4% nelle costruzioni, circa il doppio del dato italiano.
Stranieri, più colpiti dalla crisi
In sintesi, osserviamo i gap fra stranieri e italiani nel mercato lavorativo attraverso gli indicatori sintetici di partecipazione rappresentati dai tassi di occupazione e disoccupazione. Se in Veneto nel 2009 il tasso di occupazione della popolazione straniera 15-64 anni, pari al 64,7%, risulta analogo a quello rilevato per gli italiani (64,6%), altrettanto non si può dire per molte delle regioni italiane. A livello medio nazionale i livelli occupazionali degli stranieri sono più alti di quelli degli italiani: 64,5% il tasso per gli immigrati contro il 56,9% dei nativi.
Decisamente più elevato è, invece, il tasso di disoccupazione degli stranieri sia nel contesto regionale che in quello nazionale: in Veneto risulta pari all'11,5% per gli immigrati e al 3,9% per gli italiani (in Italia sale all'11,2% per gli stranieri e al 7,5% per gli italiani), il terzo gap più alto nella graduatoria regionale.
Gli squilibri tra italiani e stranieri sono più evidenti nel confronto tra Nord e Sud. Infatti, se da una parte si registra nelle regioni meridionali la minore presenza di stranieri, dall'altra è evidente che quelli che si fermano in queste regioni lo fanno in dipendenza quasi esclusivamente dalle opportunità lavorative. In mancanza di occasioni di lavoro gli stranieri tendono, più facilmente che gli abitanti locali, a scegliere destinazioni diverse e si trasferiscono altrove, dove la richiesta di manodopera è maggiore.
Più elevati, infatti, nel Sud i tassi di occupazione degli stranieri rispetto a quelli degli italiani e più bassi, invece, i tassi di disoccupazione. In particolare, gli scostamenti più accentuati si registrano in Sardegna: la differenza dei livelli occupazionali è di quasi 25 punti percentuali e quelli di disoccupazione quasi nove; in dettaglio, nella graduatoria regionale la Sardegna è la regione con il tasso di occupazione degli stranieri più elevato (75,3%) e il tasso di disoccupazione più basso (4,8%).
(Figura 11.2.7)
E con la crisi gli squilibri per cittadinanza sono più marcati. E' il caso, infatti, di sottolineare che la crisi ha incrementato non poco le differenze già esistenti tra cittadini locali e stranieri: più forte l'impatto negativo sull'occupazione immigrata che quella italiana e più nelle aree del Nord che in quelle del Sud.
In Veneto, come in Italia, nel giro di un anno diminuiscono più pesantemente i tassi occupazionali degli stranieri e aumentano con più forza i disoccupati.
(Tabella 11.2.3)
Stipendi minori, ma in Veneto il divario è più sostenibile
La concentrazione degli stranieri in professioni di qualifica più bassa si riflette sui livelli salariali. Con riferimento al lavoro dipendente a tempo pieno, nel 2009 in Italia la retribuzione media mensile degli stranieri è inferiore a quella degli italiani di 220 euro. Gli stranieri che lavorano al Nord vengono remunerati meglio rispetto a quelli del Sud: si va, infatti, da 1.170 euro del Trentino Alto Adige ai 700 euro della Basilicata.
Il Veneto è la regione dove lo squilibrio dello stipendio fra italiani e immigrati è più basso, 150 euro contro i 500 euro della Basilicata. Inoltre, sono anche meno le persone che prendono al di sotto dei 1.000 euro al mese: rispettivamente, per gli stranieri il 27,6% e per gli italiani il 12%, in entrambi i casi il terzo valore più basso fra le regioni italiane. Trentino Alto Adige e Lombardia sono le regioni con le minori quote di lavoratori retribuiti con meno di 1.000 euro al mese.
Sconcertanti, infine, i dati rilevati in molte delle regioni del Sud dove oltre l'80% degli occupati stranieri a tempo pieno viene remunerato così poco, a fronte, invece, del dato dei lavoratori locali che si aggira intorno al 20-30%.
(Figura 11.2.8)
Lavorare al di sotto delle proprie capacità: i sottoinquadrati
Per ridurre le ineguaglianze e sostenere una piena occupazione, è importante innalzare i livelli di istruzione della popolazione. Questo porta sicuramente dei vantaggi per l'intera collettività: dal punto di vista sociale, si riducono i comportamenti a rischio e i fattori di emarginazione, dal punto di vista economico si crea una forza lavoro di livello più competitiva capace di aumentare la produttività e di introdurre più facilmente le innovazioni tecnologiche.
Tuttavia studiare costa. Costa sia in termini di spese dirette (tasse, materiali, libri di testo...) sia in termini di mancato guadagno durante il periodo di studio. Questo svantaggio iniziale deve essere, poi, recuperato e deve portare a dei benefici anche per il singolo, che si traducono in redditi più elevati, maggiori probabilità di occupazione e lavori migliori. Studiare è un investimento e come tale deve produrre dei risultati tangibili.
È chiaro che la crescita e lo sviluppo di una società sono sostenibili se rimane saldo il collegamento fra istruzione e lavoro, ossia fino a quando le persone saranno incentivate a proseguire negli studi.
Secondo uno studio della Banca d'Italia su dati OCSE
(Nota 6), nella maggior parte dei paesi sviluppati le persone con titoli di studio più elevati guadagnano almeno il doppio di quelli con un diploma di scuola superiore e nella media dei paesi Ocse il tasso di occupazione dei laureati è maggiore di oltre 10 punti percentuali rispetto ai diplomati. L'Italia segue queste tendenze, anche se in modo differente fra uomini e donne e fra regioni: il gap nel tasso di occupazione raggiunge i 15 punti percentuali fra le donne e scende a 7 fra gli uomini. Inoltre, i vantaggi per i laureati sono più evidenti nelle regioni del Sud, dove i livelli di occupazione sono mediamente più bassi.
Tuttavia, negli anni è iniziato a crescere un fenomeno che rischia di scardinare questo collegamento fra titolo di studio e lavoro, ossia il sottoutilizzo del capitale umano nelle forze lavoro: un lavoratore è definito sottoinquadrato se possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per svolgere una determinata professione.
Dall'indagine Istat sulle Forze Lavoro, è possibile quantificare tale fenomeno, incrociando il livello di istruzione degli occupati con la professione da essi svolta, descritta secondo la classificazione delle professioni 2001
(Nota 7). Tale classificazione si basa sul criterio della competenza, definita come la capacità di svolgere i compiti di una data professione e approssimata dal titolo di studio necessario per svolgerla (istruzione formale). Risulta, ad esempio, che per svolgere professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione è necessaria la laurea o un titolo di studio post-universitario; per svolgere, invece, professioni tecniche occorre un diploma quinquennale di scuola secondaria superiore, un titolo post-secondario o, anche, un titolo universitario di primo livello.
In Veneto, secondo la stima calcolata sui primi tre trimestri del 2010, quasi il 73% degli occupati svolge un lavoro coerente con il proprio titolo di studio, mentre il 7% risulta sovrainquadrato, ossia svolge un lavoro più qualificato rispetto al livello di istruzione raggiunto. Il rimanente 20% è sottoinquadrato, valore inferiore rispetto alla media nazionale, ma in crescita rispetto al 2005 (+5 punti percentuali, + 0,5 rispetto al 2009.)
(Tabella 11.2.4)
A livello nazionale la quota di lavoratori che svolgono un lavoro meno qualificato rispetto al titolo di studio raggiunto è pari al 20,7%: fra le regioni si passa dal 14% del Trentino Alto Adige a quasi il 30% dell'Umbria. In questo contesto, il Veneto si colloca in ottava posizione nella graduatoria regionale per la quota minore di lavoratori sottoinquadrati.
Limitando l'analisi al periodo pre-crisi, la crescita costante del tasso di occupazione è stata accompagnata da una crescita altrettanto costante dei lavoratori sottoinquadrati, sintomo di un peggioramento della qualità delle occupazioni e fattore che mina alla sostenibilità del nostro mercato del lavoro. A seguire, nel 2009, la situazione è ulteriormente peggiorata: il tasso di occupazione è tornato ai livelli del 2005 e la quota di lavoratori che svolgono impieghi sotto qualificati ha fatto un balzo in avanti di 0,5 punti percentuali in Veneto e di un punto in Italia.
(Figura 11.2.9)
In Veneto si lavora di più e meglio
Approfondendo il legame fra livelli occupazionali e quota di lavoratori sottoinquadrati, il Veneto risulta, comunque, una delle regioni dove il mercato del lavoro sembra presentare condizioni meno preoccupanti. A partire dai valori medi nazionali stimati per i primi tre trimestri del 2010, è possibile suddividere le regioni italiane in quattro gruppi: il primo è caratterizzato da tassi di occupazione superiori alla media italiana e da quote di sottoinquadrati inferiori, di cui fanno parte il Trentino Alto Adige, la Lombardia, il Piemonte unito alla Valle d'Aosta e il Veneto. Queste regioni dunque raggiungono un buon compromesso fra alta occupazione e occupazione di qualità, qui intesa solamente dal punto di vista della coerenza istruzione - lavoro, in quanto riescono a garantire ai propri cittadini, buone possibilità, non solo di trovare un lavoro, ma di trovare un lavoro adeguato al proprio livello formativo. Va sottolineato il caso del Trentino Alto Adige che è la regione con il tasso di occupazione più alto e la percentuale di sottoinquadrati più limitata.
All'estremo opposto troviamo l'Abruzzo, il Molise, la Basilicata e la Calabria: queste regioni si caratterizzano per bassi livelli di occupazione e alte quote di sottoinquadrati; la popolazione fatica a trovare un lavoro e quando lo trova si deve accontentare di lavori meno qualificati di quanto potrebbe aspirare. Rimangono, poi, due situazioni intermedie: da una parte, infatti, si collocano quelle regioni che presentano tassi di occupazione superiori alla media nazionale scontando però un'alta percentuale di sottoinquadrati (il caso estremo è rappresentato dall'Umbria), dall'altra le regioni dove l'occupazione è bassa così come la quota di sotto inquadrati.
(Figura 11.2.10)
Il profilo del lavoratore sottoinquadrato: giovane, laureato, alle dipendenze e a tempo determinato
In Veneto il fenomeno del sottoinquadramento interessa maggiormente i giovani e diminuisce al crescere dell'età: secondo le stime sui primi tre trimestri del 2010, in Veneto un terzo degli occupati in età 15-24 anni svolge un lavoro per cui non è richiesto il titolo di studio che ha raggiunto, valore in linea con la media nazionale e superiore di quasi 10 punti percentuali rispetto al dato registrato nel 2005. Solamente dopo i 35 anni si inizia a registrare un calo significativo.
Scendendo nel dettaglio del titolo di studio, quasi la metà dei laureati veneti in età 15-34 anni svolge un lavoro per cui non serve il titolo universitario, così come per il 37% dei diplomati non serve il diploma.
La situazione è, tuttavia, molto diversa a seconda del tipo di laurea o del tipo di diploma. Considerando tutte le fasce d'età, più di 6 laureati su 10 in discipline politico-sociali e in discipline propedeutiche all'insegnamento hanno un'occupazione per cui non serve la laurea, così come 5 laureati su 10 in discipline economico - statistiche e scientifiche. I laureati, invece, che più facilmente trovano un'occupazione adeguata al proprio titolo di studio sono i medici (7% di sottoinquadrati in Veneto), i chimici - farmaceutici (13%) e gli architetti (18%). Per quanto riguarda gli occupati con un diploma di scuola media superiore, risultano sottoinquadrati soprattutto i diplomati degli istituti professionali (55%) e a seguire i liceali (40%). I diplomati negli istituti tecnici risultano sottoinquadrati nel 30% dei casi, mentre chi possiede una qualifica professionale di 2-3 anni solo nel 9%.
Per quanto riguarda le differenze di genere, è necessario considerarle congiuntamente al titolo di studio: per i diplomati, il sottoinquadramento è un fenomeno più diffuso fra gli uomini, mentre, al contrario, per i laureati il sottoinquadramento è soprattutto femminile.
Infine, relativamente alle caratteristiche dell'occupazione, la percentuale di sottoinquadrati è più alta fra chi ha un lavoro alle dipendenze o ha un contratto a tempo determinato, anche se in quest'ultimo caso la percentuale diminuisce all'aumentare della durata del contratto.
(Tabella 11.2.5)
Combattere il lavoro irregolare
Nella più ampia cornice della strategia europea, nel 2010 il nostro Governo individua tra le priorità la continua lotta al lavoro irregolare. La dimensione del lavoro non regolare è costituita da più componenti: in parte da posizioni continuative svolte non rispettando la normativa in materia fiscale-contributiva, in parte da prestazioni occasionali non dichiarate svolte da studenti, casalinghe o pensionati, in parte da posizioni lavorative di stranieri non residenti e non regolari, nonché dalle posizioni lavorative plurime non dichiarate.
La condizione del mercato del lavoro veneto è meno allarmante rispetto a quella osservata sull'intero territorio nazionale: nel 2008 in Italia ogni 100 unità di lavoro 12 sono irregolari (tasso di irregolarità), mentre in Veneto il numero di unità non regolari scende a meno di 9 su 100, il secondo valore più basso nella graduatoria regionale a parità con il Trentino Alto Adige.
Il quadro più problematico riguarda il Mezzogiorno, dove il lavoro sommerso coinvolge il 18,3% delle unità di lavoro contro il dato registrato del Nord-Est pari all'8,9%. La situazione peggiore si rileva in Calabria dove oltre un quarto delle unità di lavoro sono in nero, mentre l'Emilia Romagna registra la quota minore (8,5%).
Rispetto ai dati di inizio millennio, in quasi tutte le regioni italiane la dimensione del lavoro non regolare registra dei miglioramenti e complessivamente l'Italia presenta una diminuzione del tasso di irregolarità di quasi due punti percentuali. Le migliori performance sono evidenti in Campania, Lazio e Sicilia dove, rispettivamente, la quota di irregolari tra il 2001 e il 2008 diminuisce di 6,7, 4,8 e 4,6 punti percentuali. Anche nella nostra regione le misure attuate per sanare il fenomeno hanno dato dei risultati e in sette anni il lavoro nero è diminuito di un punto percentuale. Viceversa, ci sono quattro regioni in cui gli irregolari aumentano; in particolare, le tre regioni che nel 2008 registrano i valori più alti del tasso di irregolarità, presentano anche una crescita del fenomeno.
E' evidente come in Italia vi siano regioni in cui il lavoro sommerso tende a fornire solo una parte marginale del reddito e allo stesso tempo sussistano territori nei quali spesso l'occupazione irregolare è una grossa fonte di sostentamento.
(Figura 11.2.11)
Il settore più colpito è quello agricolo: a livello nazionale, in questo campo lavorativo, la percentuale di unità di lavoro irregolari è quasi un quarto di quelle totali.
Al momento, purtroppo, non si dispone di dati regionali più recenti tali da poter individuare possibili cambiamenti nel lavoro irregolare per effetto della crisi dell'ultimo biennio, ma a livello nazionale nel 2009 non si registrano differenze preoccupanti: rispetto al 2008, il tasso di irregolarità aumenta, ma solo di 0,3 punti percentuali.