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7.1 - La coesione sociale

La ripresa della crescita "può riportare la piena occupazione e costituisce la base della giustizia sociale e della creazione di opportunità per tutti": è quanto sottolineato dalla Commissione europea nel rilancio della strategia di Lisbona. Tale obiettivo non è però considerato raggiungibile fino a quando importanti fasce della popolazione non avranno accesso al lavoro, alla formazione e ad altre opportunità. L'impegno a ridurre le disuguaglianze e le situazioni di marginalità, pensando in modo integrato le azioni per promuovere la coesione sociale, è una strada obbligata per raggiungere un livello di sviluppo realmente sostenibile, al riparo da fratture e squilibri sociali. E' un impegno etico, ed è anche un pre-requisito essenziale per una società più competitiva e dinamica, in un'ottica nella quale crescita economica e coesione sociale si rafforzino a vicenda, in quanto solo un Paese che disponga di un tessuto sociale coeso e reattivo può fronteggiare i ritmi incalzanti delle sfide mondiali.
D'altra parte la parità di trattamento fra le persone e la non discriminazione sono principi già espressi nel trattato istitutivo della Comunità europea e nella carta dei diritti fondamentali dell'Unione. Nel sottolineare l'importanza di una società più equa, che offra a tutti pari opportunità, una delle iniziative adottate dall'Unione europea è la designazione del 2007 come "Anno europeo delle pari opportunità per tutti", eliminando stereotipi e discriminazioni basati sul genere, la razza, l'origine etnica, la religione, la diversità di opinione, la disabilità, l'età e gli orientamenti sessuali. L'obiettivo è da un lato quello di sensibilizzare i cittadini e promuovere il dibattito sui vantaggi di una società più giusta e solidale, dall'altro quello di stimolare e rafforzare nelle parti sociali e nei decisori politici azioni positive, che riconoscano il valore e il potenziale espressi dalle diversità, come fonte di vitalità socio-economica. L'eliminazione delle discriminazioni e l'accoglienza delle diversità significano, infatti, coniugare la protezione delle categorie sociali svantaggiate con la consapevolezza che le persone che ne fanno parte possono e devono avere le stesse opportunità di dare un contributo positivo e concreto alla nostra società.
Ridurre la disuguaglianza economica e le disparità territoriali, favorire la partecipazione al mercato del lavoro, promuovere l'istruzione e la formazione investendo nel capitale umano, garantire il godimento pieno dei diritti fondamentali, l'accesso all'assistenza sanitaria e ai servizi in genere sono tutti percorsi per giungere ad una piena coesione sociale e dunque migliorare la qualità di vita di ciascuno.

Inizio Pagina  Innanzitutto la povertà

L'equità sociale, quale base per uno sviluppo sostenibile e duraturo, si costruisce a partire dalla riduzione delle condizioni di povertà. Questa consapevolezza pone la lotta alla povertà tra le priorità delle politiche sociali comunitarie, come peraltro ribadito nell'Agenda sociale 2005-2010 della Commissione europea: sono 68 milioni i cittadini europei a rischio di povertà, un numero davvero inaccettabile.
Secondo la definizione di povertà adottata a livello europeo (Nota 1), che fa riferimento al reddito a disposizione delle famiglie, l'Italia risulta uno dei Paesi dell'Unione europea non solo a maggior rischio di povertà, ma anche con un più accentuato livello di disparità nella distribuzione del reddito. La situazione appare particolarmente difficile se confrontata con i soli Paesi dell'UE15. Infatti, nel 2004, ultimo anno per cui vi sono dati disponibili, il 19% (Nota 2) della popolazione vive in famiglie in condizioni disagiate, ossia in famiglie che dispongono di un reddito netto inferiore alla soglia di povertà, fissata pari al 60% del valore mediano del reddito nazionale equivalente (Nota 3). Per ogni Paese la soglia di povertà è diversa e viene determinata considerando la distribuzione del reddito della rispettiva popolazione; ad esempio per l'Italia la soglia di povertà risulta pari a circa 8.200 euro per una famiglia di una sola persona e di 17.352 euro per una coppia di adulti con due bambini, valori in termini di potere d'acquisto sicuramente superiori a quelli degli Stati dell'Europa dell'Est, ma non rispetto a quelli dei Paesi UE15, con le sole eccezioni di Grecia e Spagna.
La situazione europea è nel complesso più favorevole, in quanto è a rischio di povertà il 16% della popolazione, tre punti percentuali in meno del dato italiano; la proporzione è decisamente più bassa nei Paesi nordici, nella Repubblica Ceca, in Austria e in Germania, con valori dal 9% al 12% appena, rispetto, tra l'altro, ad una soglia di reddito nazionale superiore a quella comunitaria e italiana; la percentuale risulta invece relativamente più alta, oltre che in Italia, anche in Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo (tutti con un'incidenza di povertà del 20%) e soprattutto in Polonia e Lituania (21%) (Nota 4).
Per contenere la povertà e sostenere le persone in difficoltà economica, gli Stati membri ricorrono in modo diverso all'impiego di strumenti di sostegno del reddito, quali i trasferimenti sociali (pensioni di invalidità, vecchiaia o altro tipo di trasferimenti sociali): particolarmente significative sono le misure adottate nei Paesi del Nord Europa (Svezia e Danimarca), tanto da comportare una contrazione del tasso di povertà anche superiore al 60%; inoltre, se l'abbattimento medio europeo è circa del 40%, in Italia l'effetto è piuttosto modesto, con una riduzione del tasso di povertà di appena il 20% (la percentuale di persone a rischio passa dal 23,6% al 19% a seguito dei trasferimenti sociali), a conferma di una situazione ancora non soddisfacente in questo senso. Ancora meno incisiva è l'azione negli altri Paesi mediterranei.
In Italia il fenomeno della povertà presenta una forte caratterizzazione territoriale, con un'accentuata disparità tra le regioni del Sud e quelle del Nord: nel Mezzogiorno risulta a rischio di povertà anche più del 30% della popolazione, addirittura quasi il 41% in Sicilia, rispetto al 13% degli abitanti del Centro Italia e ancora meno (10%) delle aree settentrionali; tra le regioni del Sud si contraddistingue positivamente la situazione della Sardegna e soprattutto quella dell'Abruzzo, che registra un tasso di povertà (17,5%) decisamente più basso rispetto alla relativa media ripartizionale e inferiore anche al dato nazionale; ciò anche per un più significativo effetto di riduzione della povertà a seguito dei trasferimenti sociali. Più incisiva è l'azione di sostegno del reddito adottata in Friuli-Venezia Giulia, che riesce a ridurre del 32% il numero di persone povere, e, in particolare, in Valle D'Aosta, dove il tasso di povertà, già piuttosto limitato prima dei trasferimenti sociali, diviene ancora più basso: risulta a rischio di povertà il 5,9% della popolazione, la minore percentuale a livello nazionale. In Veneto il fenomeno della povertà è relativamente contenuto: il tasso di povertà dopo i trasferimenti sociali è pari al 10,3% (Nota 5), ossia il sesto valore più positivo nella graduatoria regionale, interessando comunque più di 481.000 persone. (Figura 7.1.1)

Inizio Pagina  La categorie più vulnerabili: i minori, i giovani, gli anziani, le donne

L'analisi dei tassi di povertà per le categorie sociali che segue è una lettura dei risultati a livello nazionale non essendo disponibili al momento stime a livello regionale. Il quadro generale della nazione fornisce comunque indicazioni interessanti rispetto alle fasce di popolazione che risultano più svantaggiate e vulnerabili.
Se si considera la popolazione nelle varie classi di età, il tasso di povertà italiano si mantiene sempre al di sopra di quello europeo; la distanza dalla media comunitaria diventa maggiore (cinque punti percentuali anziché tre) in particolare per i bambini e i ragazzi di età inferiore ai 18 anni, che sono i più esposti alla povertà (ben il 24% in Italia, una delle percentuali più alte a livello europeo), a causa delle sempre maggiori difficoltà incontrate dalle famiglie con figli piccoli, specie se si tratta di nuclei monogenitoriali, che in genere percepiscono redditi più bassi. Infatti nel 2004, a livello nazionale il 50% delle famiglie composte da un solo genitore e con almeno un figlio minore a carico vive con meno di 1.500 euro mensili, mentre in media questa tipologia di famiglie dispone di un reddito netto di 1.670 euro al mese, contro circa i 2.850 euro mensili nel caso in cui siano presenti entrambi i genitori. Questo divario è ancora più marcato nelle regioni settentrionali e in media è pari a 1.650 euro al mese: ma, mentre il reddito disponibile per il genitore solo non è molto diverso al Nord che in generale nel Paese (in media solo il 4% in più al mese), le famiglie in coppia percepiscono un reddito netto di quasi 3.400 euro mensili (+16%). (Figura 7.1.2)
Sebbene il disagio più marcato si registri tra i minori, anche i giovani di età 18-34 anni non risultano poi così protetti, specie se sotto i trent'anni. Un tempo questa fascia di popolazione non era considerata particolarmente a rischio: il fenomeno è infatti abbastanza recente ma in espansione, soprattutto a seguito dei mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro, nei percorsi formativi e nelle modalità di transizione alla vita adulta. Il rischio di povertà aumenta tra coloro che sono meno istruiti, anche se un elevato titolo di studio non è più un fattore di protezione così sicuro per i giovani italiani: infatti tra i giovani, quanti hanno un diploma o una laurea rischiano la povertà in misura maggiore di quanto vi siano esposti i diplomati e i laureti in genere. Inoltre, se i giovani single sono meno a rischio delle altre persone che vivono da sole, specie se anziane, al contrario le coppie giovani con figli risultano maggiormente svantaggiate, soprattutto nel caso in cui uno solo lavori, a conferma che la formazione della famiglia coincide con un momento di elevata fragilità, specie là dove manca un sostegno adeguato della rete familiare.
Anche tra gli anziani emergono situazioni di seria difficoltà: in Italia nel 23% dei casi essi sono a rischio povertà, in particolare coloro di età più avanzata e che vivono da soli.
Una persona sola con più di 65 anni in media in Italia vive con poco più di 1.000 euro al mese; di poco superiore il reddito di chi abita al Nord, mentre stanno un po' meglio gli anziani che risiedono in una delle regioni del Centro Italia, ma peggio se vivono al Sud, disponendo rispetto a questi in media di circa 140 euro in meno al mese. Inoltre il 50% degli anziani soli vive con meno di 900 euro al mese.
Le donne ancora oggi vivono condizioni di maggiore debolezza e svantaggio economico, che possono degenerare verso l'area di esclusione sociale; questo anche per nuove forme di povertà che investono sensibilmente le donne e in particolare quelle in condizioni di maggiore vulnerabilità: le donne immigrate, le donne sole capofamiglia con redditi bassi, le donne con bassi titoli di studio, le donne anziane.
Sia a livello europeo che nazionale le donne sono esposte ad un più alto rischio di povertà rispetto agli uomini, ma per l'Italia il tasso femminile (21%) è decisamente maggiore di quello europeo (17% per l'UE25) e inoltre il divario con gli uomini, di quattro punti percentuali, è doppio rispetto a quanto si verifica a livello europeo. Preoccupante soprattutto la situazione delle donne anziane, tra le categorie della popolazione più esposte: nel nostro Paese dopo i 65 anni è a rischio povertà il 26% delle donne, ben sette punti percentuali in più rispetto agli uomini. (Figura 7.1.3)
Più in generale, si evidenzia come la distribuzione dei redditi è caratterizzata da importanti differenze tra i sessi: considerando il reddito netto da lavoro individuale, per il quale sono disponibili dati di genere anche a livello regionale, nel 2003 una donna percepisce mediamente in Italia il 27% in meno rispetto ad un uomo; il differenziale di reddito è in linea generale più accentuato nelle regioni del Nord, piuttosto che in quelle meridionali; così per il Veneto lo scostamento è maggiore e una donna percepisce il 31% in meno rispetto ad un uomo. Contrariamente a quanto accade a livello nazionale, tale differenza è più accentuata per il reddito da lavoro dipendente, sempre il 31% in meno, piuttosto che per il lavoro autonomo, dove il gap è del 26% a sfavore delle donne. D'altra parte le donne venete impegnate in un lavoro autonomo sono appena l'11,7% contro il 26,1% degli uomini.
Considerando invece i redditi provenienti da pensioni, siano esse maturate al termine dell'attività lavorativa o di natura assistenziale (per invalidità, inabilità e atro), il divario di genere si riduce leggermente e risulta del 29%, in linea con il valore nazionale. Naturalmente comunque le donne pensionate sono più numerose degli uomini per effetto della maggiore sopravvivenza: nel 2003 in Veneto sono oltre 640.000, circa 33.000 in più degli uomini.

Inizio Pagina  La disparità dei redditi

Anche il divario tra ricchi e poveri è maggiormente accentuato in Italia: nel 2004 il 20% della popolazione più ricca detiene una quota di reddito pari a 5,6 volte le risorse a disposizione del 20% della popolazione più povera, contro una media comunitaria del 4,9 (dato UE25). Vi è maggiore equità, invece, in Svezia (3,3), Danimarca, Finlandia, seguite da Austria, Francia e Germania. (Figura 7.1.4)
Più squilibrata rispetto alla situazione europea anche la distribuzione dei redditi in otto delle regioni italiane: alcune del Sud, le regioni tra l'altro con un livello di reddito mediamente più basso di quello nazionale, tre del Nord, tra cui Lazio e Lombardia, che viceversa sono tra le aree più ricche. In particolare, poi, proprio le regioni del Sud presentano livelli di disuguaglianza di entità maggiore e sono la causa principale del forte divario tra ricchi e poveri osservato nel nostro Paese.
La situazione del Veneto si presenta nel complesso più favorevole: mediamente le famiglie dispongono di un reddito più alto di quello nazionale, ma soprattutto vi è una più equa distribuzione delle risorse, con minori squilibri tra ricchi e poveri: il 20% della popolazione più ricca concentra una quota di reddito pari a 4,2 volte quella di cui dispone il 20% della popolazione più povera, una delle realtà di maggiore equità, assieme al Friuli-Venezia Giulia e alla Toscana (con un rapporto rispettivamente pari a 4,2 e a 4,1). (Figura 7.1.5)
Vi sono, quindi, disparità all'interno delle varie realtà regionali, ma anche tra le regioni stesse, come evidenziato, appunto, dal forte divario territoriale nella distribuzione dei redditi. In media una famiglia italiana percepisce all'anno un reddito di circa 28.100 euro, mentre nelle regioni del Sud, ad eccezione di Sardegna e Abruzzo, in condizioni più favorevoli, il reddito annuo varia tra i 21.000 euro circa, il più basso valore osservato in Sicilia, e i quasi 24.000 euro della Campania. La Lombardia presenta, invece, il reddito medio più alto (circa 32.300 euro all'anno), seguita dall'Emilia-Romagna; ottavo il Veneto nella graduatoria regionale, tra le zone più ricche, dove una famiglia dispone in media di un reddito annuo netto di 29.300 euro, ossia di circa 2.450 euro al mese, più di 100 euro rispetto alla disponibilità mensile di una famiglia italiana, anche se nel 50% dei casi vive con meno di 2.000 euro al mese.

Inizio Pagina  Segnali di disagio economico

Al di là delle situazioni più gravi, un certo numero di famiglie vive comunque situazioni di disagio economico: nel 2005 il 14,7% delle famiglie italiane, infatti, dichiara di arrivare a fine mese con molta difficoltà, avendo problemi a sostenere anche le spese per le necessità quotidiane, per non parlare dell'impossibilità di far fronte alle spese impreviste. Questa difficoltà generale si palesa in diverse circostanze: nel corso dell'anno almeno in un'occasione il 5,8% delle famiglie non ha avuto soldi a sufficienza addirittura per acquistare i generi alimentari, il 17,8% per i vestiti necessari e il 12% per pagare le cure mediche. Si incontrano difficoltà anche nel riuscire a pagare entro le scadenze stabilite le utenze di gas, luce e telefono (per il 9% delle famiglie), i debiti contratti per l'acquisto di mobili o altri beni a rate (14,4%) o anche l'affitto e le rate del mutuo (3,8% delle famiglie); dovendo contenere le spese, si lamenta anche l'impossibilità di permettersi di riscaldare adeguatamente l'abitazione (10,9%). Può anche trattarsi di difficoltà di carattere temporaneo, in parte poi superate, ma è anche vero che il più delle volte le diverse forme di disagio tendono ad essere comunque associate tra di loro; inoltre, il fatto che negli ultimi due anni la percentuale di famiglie in difficoltà sia rimasta pressoché invariata, anche in riferimento ai singoli motivi prima analizzati, fa pensare piuttosto ad uno stato continuo e persistente di bisogno. (Figura 7.1.6)
Dato il maggiore reddito a disposizione, le famiglie in Veneto incontrano in genere meno problemi di tipo economico e vivono un minore livello di disagio; rispetto alla situazione italiana soprattutto meno sentito è il problema di non avere soldi sufficienti per coprire le spese mediche o per comprare i vestiti necessari. Una famiglia su dieci dichiara di arrivare a fine mese con molta difficoltà, mentre una su quattro, sempre meno che a livello nazionale, ritiene di non essere in grado di far fronte ad una spesa necessaria e imprevista di 600 euro. Segnali ancora più positivi emergono nel complesso in regioni quali Trentino-Alto Adige, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Toscana. Si tratta comunque di giudizi che derivano da una percezione soggettiva del proprio stato e delle proprie condizioni di vita, percezione che può dipendere non solo dal livello del reddito a disposizione, ma anche da diversi fattori, quali il fatto di avere un lavoro, il tipo di attività svolta e la sicurezza economica che ne deriva, il titolo di studio, le condizioni di salute e, più in generale, le aspettative che si hanno.

Inizio Pagina  L'inclusione dei giovani attraverso l'istruzione

L'Italia si è impegnata ad abbassare il tasso di povertà, per portarlo al livello della media europea entro il 2010, e a contrastare in particolare la povertà infantile, volendo rispondere alla richiesta del Consiglio europeo del 2006, ribadita nel 2007, di "ridurre in modo rapido e significativo la povertà infantile, offrendo a tutti i bambini pari opportunità a prescindere dal loro ambiente sociale"; una priorità nelle politiche di coesione sociale europea, in quanto in diversi Stati membri, come appunto anche in Italia, i bambini rischiano la povertà in misura superiore al resto della popolazione. Contro la povertà e l'emarginazione fra i bambini, la maggior parte dei Paesi dell'Unione ha ritenuto di sviluppare un approccio integrato e a lungo termine, composto da interventi coordinati al fine di evitare la trasmissione della condizione di povertà da una generazione all'altra e soprattutto di prevenire le diverse forme di disagio dei bambini e dei ragazzi, garantendo loro le opportunità per una crescita sana ed equilibrata: i bambini disagiati, infatti, hanno più probabilità dei loro coetanei di fallire a scuola, di scontrarsi con la giustizia, di ammalarsi e di rimanere esclusi dal mercato del lavoro e dalla società.
Tra le varie azioni, strategico si dimostra incentrare gli sforzi sul problema degli abbandoni precoci del sistema scolastico, che sono il sintomo di una complessiva situazione di disagio e di disadattamento e che, soprattutto quando legati ad altre cause di natura socio-economica e culturale, possono favorire fenomeni di emarginazione, esclusione e devianza. In ambito europeo, l'abbandono precoce degli studi viene misurato tramite la quota di giovani di età 18-24 anni che lasciano gli studi senza conseguire un diploma di scuola secondaria superiore e che non partecipano ad alcun altro tipo di attività educativa o formativa. Nonostante i continui progressi, la situazione dell'Italia rimane piuttosto critica: nel 2006 fra i 18 e 24 anni ancora circa 21 ragazzi su 100 possiedono solo la licenza delle scuola media inferiore e non frequentano alcun corso di riqualificazione professionale; solo Spagna (29,9%), Portogallo (39,2%) e Malta (41,6%) presentano percentuali più alte. Per il nostro Paese significativo continua ad essere il distacco con la media europea (15% per UE25) e anche con realtà quali quella tedesca, francese o inglese (per cui i tassi sono attorno al 13-14%), e soprattutto rimangono ancora quasi 11 punti di differenza da colmare rispetto alla media prefissata dalla Comunità europea del 10%, obiettivo da raggiungere entro il 2010.
Fra le regioni italiane, nessuna al momento presenta un livello di abbandono scolastico prematuro al di sotto del 10%: la situazione più favorevole è quella del Lazio, con un tasso del 12,3%. Il fenomeno dell'abbandono scolastico colpisce maggiormente le regioni del Mezzogiorno, ma per motivi differenti interessa in generale anche quelle del Nord, dove la dispersione scolastica va attribuita alla maggiore possibilità e facilità di trovare lavoro, anche per figure professionali con basse qualifiche, facendo apparire meno proficuo un percorso di istruzione e formazione. In Veneto il fenomeno è piuttosto contenuto e soprattutto si evidenzia una maggiore capacità di contrastare il problema, tanto da recuperare negli ultimi anni lo svantaggio rispetto ad altre regioni: nel 2006 il tasso di abbandono scolastico precoce è pari al 15%, il quarto valore più basso nella classifica regionale, quando due anni prima era del 18,2%. (Figura 7.1.7)
A ciò si aggiunge una consistente riduzione della dispersione scolastica tra i ragazzi di 15 anni, tanto che nell'anno scolastico 2004/2005 interessa solo sei ragazzi su 100 iscritti al primo anno di scuola superiore, valore quasi dimezzato rispetto a due anni prima, ora il secondo tasso più basso tra le regioni italiane. Ne consegue un aumento della partecipazione all'istruzione e del numero di giovani che conseguono almeno il diploma di scuola secondaria superiore: nel 2006 l'82% dei giovani di età 20-24anni, percentuale più alta di quella nazionale (75%).

Inizio Pagina  Migliorare le competenze di base

Da una buona istruzione molto dipendono le possibilità occupazionali e la capacità di reddito; si tratta anche di migliorare la qualità dell'istruzione ricevuta e il livello delle competenze di base acquisite. L'indagine PISA (Programme for International Student Assessment) (Nota 6), promossa e condotta nel 2003 dall'OCSE in 41 Paesi, consente di verificare in quale misura i giovani prossimi all'uscita dalla scuola dell'obbligo abbiano acquisito alcune competenze giudicate essenziali per svolgere un ruolo consapevole e attivo nella società e per continuare ad apprendere per tutta la vita. La valutazione riguarda tre ambiti: matematica, lettura e problem-solving, ossia la capacità di mettere in atto processi cognitivi per affrontare e risolvere situazioni reali e interdisciplinari. I risultati ottenuti dagli alunni sono classificati sulla base di scale di competenza articolate in vari livelli a seconda della difficoltà superata: sei livelli per la matematica, cinque per la lettura e quattro per il problem-solving.
L'istruzione veneta nel 2003, anche in un confronto internazionale, ottiene risultati soddisfacenti, in particolare meno marcata è la percentuale di studenti con scarse competenze nei tre ambiti valutati, mentre la quota dei ragazzi con preparazione di livello medio-alto risulta maggiore della media italiana e abbastanza in linea con quella internazionale. Inoltre il 12% dei quindicenni veneti raggiunge i livelli più alti in matematica, l'8,2% in lettura e il 16,7% in problem solving. Dal confronto con le altre regioni che partecipano all'indagine, il livello delle competenze acquisite dagli studenti veneti risulta migliore di quello raggiunto dai ragazzi toscani e piemontesi, ma inferiore alla preparazione degli studenti della Lombardia; decisamente superiore, invece, la preparazione dei giovani del Trentino Alto Adige, la cui prestazione spicca anche a livello internazionale. (Figura 7.1.8)
Purtroppo in generale la situazione degli studenti italiani, rispetto a quella dei Paesi OCSE, risulta sbilanciata verso i livelli più bassi, poiché una quota minore di ragazzi riesce a rispondere ai quesiti più complicati; infatti solo 7 studenti italiani su 100 raggiungono i livelli più alti della scala di competenza matematica (contro il 15% dell'OCSE), 5 su 100 il livello superiore della competenza di lettura (contro l'8% dell'OCSE), 11 su 100 il maggior livello per quanto riguarda la capacità di risolvere problemi (contro il 18% OCSE). La preparazione italiana è peggiore di quella di tutti gli Stati dell'Unione Europea che partecipano all'indagine, con la sola eccezione della Grecia. Conseguono risultati prossimi a quelli italiani, anche se leggermente superiori, Portogallo e Spagna. Le migliori prestazioni a livello internazionale sono appannaggio di Corea e Finlandia in tutte e tre le aree e della Cina soprattutto per quanto riguarda matematica e problem-solving; in quest'ultima competenza emerge anche il Giappone.

Inizio Pagina  Il lavoro, la migliore risorsa contro l'esclusione sociale

Un lavoro retribuito per le donne e per gli uomini offre la migliore salvaguardia contro la povertà e l'esclusione sociale. Anche se da solo il lavoro può non essere sufficiente, deve trattarsi anche di buona occupazione, visto che in Italia tra le persone che lavorano una su dieci è a rischio di povertà. In questo senso fondamentale risulta contrastare la permanenza in situazione di precariato, soprattutto per i giovani, così che l'occupazione possa realmente rappresentare una via di uscita dalla povertà. E' necessario, quindi, rendere il lavoro una possibilità per tutti ed evitare discriminazioni sul mercato del lavoro, in particolare promuovere la partecipazione al lavoro dei gruppi più svantaggiati e vulnerabili: i giovani, i lavoratori anziani, le donne, le persone con disabilità, gli immigrati legali e le minoranze, cercando di ridurre anche gli squilibri territoriali. Per un approfondimento sull'evoluzione del mercato del lavoro e sugli attuali livelli occupazionali delle varie fasce di popolazione si rimanda al capitolo "Il capitale umano per crescere in Europa".
E' fondamentale rinserire i disoccupati e le persone inattive, in particolare i disoccupati di lunga durata, più vulnerabili e a rischio povertà, per i quali la reintegrazione è sicuramente più difficile, in quanto i rapidi cambiamenti del mercato del lavoro rendono facilmente obsolete le competenze da questi possedute.
In Veneto nel 2006 la disoccupazione riguarda il 4% delle persone nel mercato del lavoro, ma colpisce maggiormente i giovani in età 15-24 anni per i quali il rischio di non riuscire ad inserirsi per la prima volta nel mondo del lavoro o di non conservare un'occupazione precedentemente trovata è quasi triplo rispetto a quello cui è esposto la totalità della popolazione. Più svantaggiate, in generale, le donne rispetto agli uomini, in particolare tra i più giovani: per le ragazze il tasso di disoccupazione è del 17% contro l'8,1% dei coetanei maschi, nonostante il livello di istruzione femminile sia mediamente più alto. La situazione, tra l'altro, anche nell'ultimo periodo va peggiorando, visto che appena due anni prima erano solo 13 su 100 le ragazze in cerca di lavoro; viceversa, per i ragazzi il livello di disoccupazione rimane negli ultimi anni abbastanza stabile. Inoltre, nonostante la ricerca attiva di un'occupazione, circa il 35% dei disoccupati in Veneto si trova ancora senza lavoro dopo più di un anno. Negli anni si allungano i tempi di ricerca di un impiego e l'incidenza della disoccupazione di lunga durata in solo due anni cresce di ben sei punti percentuali, e nel 2000 era appena del 16%; ciò è particolarmente vero per le donne, infatti lo stato di allontanamento dal lavoro si protrae oltre i dodici mesi addirittura per il 40% delle disoccupate; inoltre il differenziale con gli uomini va aumentando.
Il fenomeno della disoccupazione in Veneto è meno preoccupante di quanto si verifica a livello nazionale, in generale come per i giovani, per gli uomini come per le donne; tuttavia la differenza di genere risulta più accentuata, in particolare per i giovani e per i disoccupati di lunga durata, soprattutto per i più favorevoli livelli della disoccupazione maschile nella nostra regione. (Tabella 7.1.1)

Inizio Pagina  Perdere il lavoro e ricollocarsi

La perdita del lavoro è un evento che comporta un alto rischio di povertà ed emarginazione sociale per le difficoltà che si possono incontrare nel rientrare nel mercato. Si analizzano, ora, alcuni dati relativi a quanti hanno perso involontariamente il lavoro in seguito a cessazioni per chiusura dell'attività aziendale, per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo. Non necessariamente tali eventi sono sintomo di una sofferenza aziendale, ma possono anche essere frutto di scelte di delocalizzazione delle imprese.
Secondo i dati dei centri dell'impiego, in Veneto nel corso degli anni tali cessazioni risultano sostanzialmente in crescita, tanto che nel 2005 sono raddoppiate rispetto al 1998. I lavoratori coinvolti in questo processo negli otto anni considerati sono circa 150.000, con una prevalenza di donne negli anni precedenti al 2003 e una situazione paritaria successivamente. Le donne sono prevalentemente più giovani degli uomini: se si osservano i 45.244 lavoratori espulsi nel biennio 2003-2004, il 61,4% delle donne ha un'età compresa fra i 20 e i 40 anni contro il 55,1% degli uomini, mentre nella fascia di età più prossima al pensionamento, sopra i 55 anni, vi è il 5% delle donne contro il 7,8% degli uomini.
Ma qual è il destino occupazionale di questi lavoratori? Osservando la situazione al 2005, si evidenzia come tra i lavoratori espulsi dal 1998 circa il 60% ha lavorato nel corso del 2005, con una punta del 64% per coloro che hanno perso il lavoro nel 2004. Inoltre tra i lavoratori espulsi nel corso del biennio 2003-2004 è occupato il 64% degli uomini e il 62% delle donne. E' da sottolineare come l'età più avanzata dei lavoratori maschi e le conseguenti maggiori misure di protezione sociale ne facilitino il transito dalla cessazione al pensionamento: infatti, mentre tra i maschi quanti non sono occupati si dividono equamente fra disoccupati e usciti dalla forza lavoro, fra le femmine ben il 26% si trova in condizione di disoccupazione nel corso del 2005 e solo il 12% risulta uscito dal mercato lavorativo. (Tabella 7.1.2)
Ricollocarsi dopo la perdita del posto di lavoro risulta più difficile per le donne, rispetto agli uomini, per quasi tutte le classi di età. In particolare per le donne nel pieno dell'età lavorativa, il riassorbimento da parte del mercato del lavoro è molto più difficile che per gli uomini e la proporzione di donne disoccupate a parità di età è circa il doppio di quella degli uomini. (Figura 7.1.9)
La percentuale di lavoratori stranieri che ha subito una cessazione cresce negli anni, passando dal 4,2% del 1998 al 20,2% del 2005. Peraltro, negli anni considerati, il numero assoluto di lavoratori stranieri aumenta considerevolmente (nell'ordine del 200%) anche in seguito alle regolarizzazioni avvenute. La percentuale di lavoratori stranieri espulsi nel 2003 e 2004 e occupati nel 2005 è superiore a quella degli italiani (66% contro 63%), tutta attribuibile alla componente maschile straniera che risulta occupata nel 69% dei casi, contro il 61% di quella femminile. Il miglior ricollocamento dei lavoratori stranieri riflette la loro più giovane età: infatti il 76,6% dei lavoratori stranieri espulsi ha meno di 40 anni contro il 57,4% di italiani e ciò implica una minore quota di lavoratori stranieri che si avvia al pensionamento.




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Note

  1. La stessa definizione viene utilizzata anche nel 'Rapporto nazionale sulle strategie per la protezione sociale e l'inclusione sociale' del novembre 2006, documento a cura del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, del Ministero della solidarietà sociale e del Ministero della salute.
  2. I dati sono di fonte Eurostat e si riferiscono all'indagine sulle famiglie 'Eu-Silc European Statistics on Income and Living Conditions'. In questo volume, a differenza di quanto fatto negli anni precedenti, volendo raffrontare la situazione nazionale con quella degli altri Stati dell'Unione europea, si utilizza la definizione di povertà adottata da Eurostat basata sul reddito disponibile delle famiglie, anziché quella usata a livello nazionale da Istat, che misura la povertà relativa considerando la spesa mensile per consumi e che non consente alcun confronto internazionale L'indagine Istat sui consumi fornisce stime di povertà più basse: nel 2004 risulta a rischio di povertà il 13,2% della popolazione italiana .
  3. Per confrontare le condizioni economiche delle famiglie con diversa numerosità e composizione, il reddito familiare viene diviso mediante un insieme di parametri, appunto una scala di equivalenza, ottenendo, così, il reddito equivalente. In questo caso la scala di equivalenza adottata è quella raccomandata dall'Ocse
  4. L'analisi si riferisce ad una misura della povertà relativa, definita cioè non rispetto ad uno standard assoluto, ossia un valore unico per i vari Stati, ma stimata rispetto ad una soglia che è variabile da un Paese all'altro, in quanto fissata considerando la distribuzione del reddito all'interno di ciascun territorio; pertanto, le reali condizioni di vita che definiscono la povertà non sono uguali in tutti i Paesi.
  5. Secondo la definizione di povertà relativa adottata da Istat e basata sulla spesa mensile per i consumi, nel 2004 risulta a rischio povertà il 5% della popolazione del Veneto.
  6. PISA è un'indagine internazionale con periodicità triennale e nel 2003 ha visto la partecipazione di 41 Paesi, tra i quali i 30 dell'OCSE. L'indagine valuta le conoscenze e le abilità dei quindicenni scolarizzati, ossia in prossimità di terminare la scuola dell'obbligo (l'età di 15 anni nella quasi totalità dei Paesi dell'OCSE precede o coincide con il termine dell'obbligo scolastico). Si tratta di un'indagine di tipo campionario e il campione italiano è costituito da 407 scuole per un totale di 11.000 studenti a rappresentare una popolazione di circa 500.000 quindicenni scolarizzati.


Figura 7.1.1
Percentuale di persone a rischio di povertà prima e dopo i trasferimenti sociali per regione - Anno 2004
Figura 7.1.2
Percentuale di persone a rischio di povertà per classe di età. Italia e UE25 - Anno 2004
Figura 7.1.3
Percentuale di persone a rischio di povertà per classe di età. Italia e UE25 - Anno 2004
Figura 7.1.4
Indice di disuguaglianza dei redditi per i Paesi dell'Unione europea - Anno
Figura 7.1.5
Reddito familiare netto medio in euro e indice di disuguaglianza per regione - Anno 2004
Figura 7.1.6
Indicatori di disagio economico per motivo del disagio per cento famiglie con le stesse caratteristiche. Veneto e Italia - Anno 2005
Figura 7.1.7
Percentuale di giovani che abbandonano prematuramente gli studi per regione (*) - Anni 2004 e 2006
Figura 7.1.8
Percentuale di studenti per ambito di competenza e livello di difficoltà raggiunto. Veneto, Italia e media OCSE - Anno 2003
Tabella 7.1.1
Tassi di disoccupazione per genere. Veneto e Italia - Anni 2004 e 2006
Tabella 7.1.2
Situazione occupazionale dei lavoratori cessati involontariamente nel biennio 2003-2004. Veneto - Anno 2005
Figura 7.1.9
Lavoratori cessati nel 2003 e 2004 e disoccupati nel 2005 per sesso ed età.  Veneto

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