4 - Il capitale umano per crescere in Europa
Nel 2005 la Commissione europea ha rilanciato la strategia di Lisbona incentrando l'azione principalmente sulla realizzazione di una crescita più stabile e duratura e sulla creazione di nuovi e migliori posti di lavoro. Crescita e occupazione devono andare di pari passo: da un lato è necessario evitare in Europa un tipo di crescita senza creazione di posti di lavoro, in quanto l'obiettivo a lungo termine è di migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini in un contesto di maggiore prosperità e giustizia sociale, dall'altro proprio l'aumento dell'occupazione influisce positivamente sul ritmo di crescita e di conseguenza contribuisce a rendere l'Unione Europea più competitiva nel mercato globale. E' indispensabile, allora, aumentare gli sforzi per offrire nuovi e migliori posti di lavoro ai cittadini, mediante politiche attive specifiche e incentivi adeguati.
In un contesto, poi, di rapide trasformazioni economiche e di forte invecchiamento della popolazione, la creazione di nuovi posti di lavoro diventa una necessità economica e sociale. La continua diminuzione della popolazione in età attiva, a fronte anche dell'aumento delle persone anziane, eserciterà una forte pressione sui regimi pensionistici e previdenziali e, in mancanza di misure correttive, determinerà una riduzione della crescita potenziale. Occorre, quindi, attrarre e trattenere nel mercato del lavoro un maggior numero di persone mediante politiche adeguate sia per i giovani che per i lavoratori anziani, fornire incentivi a quest'ultimi perché restino attivi più a lungo e siano dissuasi dal ritirarsi troppo presto dalla vita lavorativa, sfruttare pienamente l'enorme potenziale rappresentato dalle donne, aiutare i disoccupati e integrare i soggetti inattivi e quelli più svantaggiati.
Il Governo italiano intende allora puntare sulla qualità del lavoro per incrementare i tassi di attività e rendere l'impiego più attraente e remunerativo, combattendo tra l'altro la crescente precarietà del mercato del lavoro. Nell'ambito della sua prima relazione annuale sullo stato di attuazione del programma nazionale di riforma, il Governo evidenzia così l'importanza di interventi finalizzati a conciliare i tempi di lavoro e di cura della famiglia, per il loro impatto sull'occupazione femminile e giovanile, promuove azioni orientate al raggiungimento di una maggiore equità sociale, all'eliminazione delle disparità territoriali e alla tutela delle fasce più deboli, anche investendo molto nella qualità dei sistemi di istruzione e formazione.
La maggiore partecipazione al lavoro
Nel 2006 in Italia l'offerta di lavoro cresce ad un ritmo che non si registrava da tempo, l'occupazione aumenta di quasi il 2%, pari a ben 425.000 unità in più rispetto al 2005, e ancora una volta un contributo rilevante deriva dalla componente straniera, che incide per il 42% sul totale dei nuovi occupati, e dal lavoro a tempo determinato.
In progressivo aumento anche i livelli occupazionali veneti con quasi il 2% in più di lavoratori rispetto all'anno precedente e ben oltre il 18% in più se confrontato con il dato del 1995; si tratta tuttavia di un incremento più contenuto rispetto a quanto verificatosi in altre regioni settentrionali, quali il Friuli-Venezia Giulia, la Liguria e l'Emilia-Romagna, che registrano una crescita rispettivamente del 3%, 2,7% e 2,5%, anche se nelle prime due regioni citate la situazione occupazionale rimane meno favorevole di quella veneta.
Sia in Italia che in Veneto si assiste ad un considerevole aumento dei tassi di occupazione, anzi è dal 2003, che non si osservava un incremento su base annua così elevato: a livello nazionale nel 2006 il tasso di occupazione si attesta a un valore pari al 58,4% rispetto al 57,5% dell'anno precedente, mentre nella nostra regione, che da sempre si pone costantemente su livelli occupazionali significatamente superiori, la quota di popolazione tra i 15 e i 64 anni che risulta occupata è del 65,5%, contro il 64,6% nel 2005. Nonostante la crescita occupazionale, sembrano ancora distanti per l'Italia gli obiettivi europei fissati dalla strategia di Lisbona di raggiungere un livello occupazionale medio del 70% entro il 2010, mentre migliori sono le prospettive per la nostra regione nel caso in cui riuscisse a mantenere, anche per i prossimi anni, la stessa tendenza all'espansione della quota di occupati realizzata nell'ultimo anno. Tra l'altro il Veneto si colloca nel gruppo delle regioni leader caratterizzate principalmente da un più alto livello di occupazione (superiore al 65%) tra l'altro in crescita anche negli ultimi due anni; se si considera il tasso di occupazione nel 2006, si posiziona quinto nella classifica regionale, distaccato in maniera significativa solo dall'Emilia-Romagna (69,4%), prima nella graduatoria e che ad oggi ha quasi già praticamente raggiunto l'obiettivo dell'occupabilità (Figura 4.1).
Nel contempo, nel 2006, a fronte dell'aumento considerevole di occupati, in Italia si assiste ad una consistente diminuzione delle persone in cerca di lavoro, oltre l'11% in meno dell'anno prima. Il tasso di disoccupazione continua a scendere fino ad un valore pari al 6,8% contro il 7,7% del 2005, confermandosi il tasso più basso di questo ultimo decennio; la riduzione riguarda principalmente il Sud dove interessa sia la componente maschile che, in misura più ampia, quella femminile. Diminuisce anche il tasso del Veneto che, con un dato pari al 4% rispetto al 4,2% dell'anno precedente, continua a mantenere una posizione privilegiata tra le regioni italiane, sesta nella graduatoria regionale a pari merito con il Piemonte.
Gli andamenti del tasso di occupazione e di quello di disoccupazione si sintetizzano nell'innalzamento del tasso di partecipazione nel mercato lavorativo, che in Veneto raggiunge il 68,3% per le persone tra i 15 e i 64 anni, quasi un punto percentuale in più del dato dell'anno precedente; la partecipazione della popolazione veneta alla vita lavorativa è maggiore e cresce più rapidamente di quanto si osserva a livello nazionale, che complessivamente registra un tasso di attività pari al 62,7% (Figura 4.2).
L'occupazione femminile
Tra le componenti che spiegano questo mercato lavorativo più florido, occorre evidenziare la crescita dell'occupazione femminile, che interessa in maniera generalizzata tutto il Paese, non solo il Nord e il Centro Italia, ma in modo significativo anche le regioni meridionali.
Il tasso di occupazione delle donne italiane in età 15-64 anni in media cresce di un punto percentuale rispetto all'anno precedente, ad una velocità quasi doppia della crescita del tasso maschile, e raggiunge un valore pari a 46,3% nel 2006; l'Emilia-Romagna rimane la regione con il più alto tasso, già più di 61 donne su 100 lavorano contro le 54 venete. Nonostante l'innalzamento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, risulta ancora distante il raggiungimento dell'obiettivo di Lisbona che prevede un livello di occupazione medio femminile per l'UE almeno del 60% entro il 2010.
Rispetto all'Italia più vicino al target la media europea già nel 2005: 56 su 100 il dato per l'UE25; anche se tre nuovi posti di lavoro su quattro nell'UE sembrano essere occupati da donne, rimangono tuttavia ancora forti gli squilibri di genere, e ancora molti sono gli ostacoli che impediscono alle donne di far valere interamente il loro potenziale, nonostante la maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro sia un elemento essenziale per raggiungere gli obiettivi economici (Figura 4.3).
I giovani
La strategia europea promuove una concezione del lavoro basata sul ciclo di vita, con un'attenzione a tutte le fasi, dai giovani ai lavoratori più anziani.
L'avvenire dell'Europa è strettamente legato ai giovani, alla capacità di valorizzarne le potenzialità e di garantire loro opportunità per una crescita personale e professionale. E per affrontare queste sfide il Consiglio europeo, in occasione del rilancio della strategia di Lisbona, ha adottato il Patto europeo per la gioventù, che prevede e promuove una serie di iniziative coordinate nei vari settori per una strategia intensa e continua a favore dei giovani. Il Patto è finalizzato a ridurre la disoccupazione dei giovani e ad agevolarne l'ingresso nel mondo del lavoro, migliorando l'istruzione e la formazione, favorendo la mobilità, l'inserimento professionale e l'inclusione sociale
La situazione dei giovani nel mercato del lavoro a livello europeo è però preoccupante, il fenomeno della disoccupazione giovanile in questi ultimi anni peggiora e il tasso per l'Unione dei 25 Paesi raggiunge nel 2005 il 18,7%, più che doppio rispetto all'indicatore della disoccupazione globale. E in Italia il tasso è ancora più elevato nello stesso anno, 24 ragazzi tra i 15 e i 24 anni su 100 delle corrispondenti forze lavoro cercano lavoro, per fortuna in diminuzione nel 2006 il cui valore non raggiunge il 22%. Il Veneto si mantiene sempre su valori molto inferiori rispetto alla media nazionale, l'11,8% dei giovani nel 2006 è disoccupato, percentuale più bassa rispetto all'anno precedente.
E se queste cifre mettono in gioco le sfide di oggi, l'invecchiamento demografico aggiunge argomenti per il domani. Da qui al 2050 il numero di giovani europei è destinato a ridursi di un quarto, mentre gli anziani aumenteranno vorticosamente, inoltre la popolazione nella fascia di età 15-64 anni, ossia la forza di lavoro potenziale, si ridurrà di un sesto, contribuendo così a creare non pochi problemi nella crescita potenziale del PIL. In linea con questi cambiamenti, l'Italia come pure il Veneto prevedono una riduzione della popolazione attiva ancor più corposa; secondo l'indice di ricambio, al 2020 in Veneto si stima che le persone pronte ad uscire dal mercato lavorativo supereranno del 43% quelle in età 15-19 anni e quindi potenzialmente entranti.
I lavoratori anziani e l'invecchiamento attivo
I lavoratori anziani costituiscono una quota rilevante nella popolazione attiva e nel potenziale di produzione economica diventa fondamentale che gli Stati membri rafforzino gli interventi volti a modificare i regimi fiscali e previdenziali, a promuovere incentivi per incoraggiare il prolungamento della vita attiva professionale e a favorire misure quali i pensionamenti progressivi o il lavoro a tempo parziale. Le persone che hanno figli, infatti, non sono le sole a cui è necessario offrire una maggiore flessibilità del lavoro, ma può risultare vantaggiosa anche per i lavoratori più anziani, nel caso siano interessati a continuare a lavorare e al tempo stesso desiderino godere del maggiore tempo libero derivante da un pensionamento di tipo parziale. E' necessario, inoltre, puntare anche a migliorare la qualità lavorativa degli occupati più anziani, soprattutto mediante il sostegno di una formazione appropriata; se potranno migliorare le loro competenze, saranno più motivati a rimanere in attività, con vantaggi sia per loro che per le imprese.
Per stimolare la crescita economica e per consolidare la stabilità della finanze pubbliche, occorre quindi scoraggiare i pensionamenti anticipati, d'altra parte le migliori condizioni di salute non potranno che migliorare la produttività. Si tratta di una sfida ambiziosa sulla quale investire fortemente soprattutto alla luce dei tassi ancora bassi di occupazione dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni registrati nel 2006 in più Paesi europei. Tassi bassi che riflettono anche probabilmente i privilegi concessi dal sistema pensionistico a una generazione di lavoratori, a scapito delle generazioni future.
In generale, il tasso di occupazione dei lavoratori anziani nell'UE25, pur ponendosi al di sotto dell'obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Stoccolma di raggiungere un tasso almeno del 50% entro il 2010, è da anni in progressivo aumento e la stima per il 2006 si attesta su un valore di poco inferiore al 44%; si tratta di una crescita piuttosto rapida tanto da poter ipotizzare una buona possibilità di avvicinarsi al target per la data fissata. Peggiore la situazione invece in Italia, dove, sebbene si confermi la tendenza all'aumento dell'occupazione delle persone più anziane, è presente un indicatore nel 2006 di quasi 12 punti percentuali in meno rispetto alla media europea. E ancora più basso il dato veneto, pari a poco più della metà del target (28,2%). Già molto buona, invece, la posizione di alcuni Paesi europei perfino nel 2005 come il Baden-Württemberg e la Baviera, dove l'obiettivo è ormai raggiunto (rispettivamente 52,1% e 49,7%), o quella della Catalogna che registra un tasso del 48,6% (Figura 4.4).
I lavoratori stranieri
Tra le azioni promosse nel programma di riforma nazionale si trova anche la volontà di favorire l'inserimento degli immigrati regolari nella società, sostenendo l'accesso al diritto della cittadinanza, i ricongiungimenti familiari, la maggiore stabilità occupazionale e abitativa. Le migrazioni legali, infatti, rivestono un ruolo molto importante: gli immigrati svolgono lavori tradizionali ancora fondamentali, ma poco qualificanti e poco attrattivi per i lavoratori italiani, supplendo alla mancanza di determinate qualifiche in alcuni segmenti del mercato del lavoro.
In Italia, difatti, lo scompenso demografico creatosi nella popolazione in età attiva, soprattutto quella giovanile, è motivo di richiesta di immigrati e il Veneto è una delle prime regioni italiane per consistenza della popolazione straniera. È un'immigrazione diffusa su tutto il territorio, soprattutto nelle periferie e nei comuni medio-piccoli, dove le imprese manifatturiere venete richiedono manodopera non reperibile tra i cittadini italiani. Nel 2005 sono 143.000 i lavoratori stranieri residenti nella nostra regione, ossia il 7% della totalità degli occupati; sono soprattutto lavoratori dipendenti a tempo indeterminato che svolgono ruoli da operai in lavori spesso pesanti, anche se è evidente che il peso delle occupazioni temporanee è per questi maggiore che per gli italiani. Gli uomini risultano maggiormente inseriti nel mercato del lavoro rispetto alle donne, come del resto accade per gli italiani: l'80% della popolazione maschile straniera tra i 15 e i 64 anni risulta occupata, contro il 51% della quota femminile. Piuttosto elevato, comunque, il tasso di disoccupazione per gli stranieri, 12,4% contro il 3,6% del resto della popolazione, probabilmente a causa di diversi fattori: al di là della congiuntura negativa che ha caratterizzato l'economia negli ultimi anni, anche lo "shock d'offerta" generato dalla regolarizzazione del 2002, che ha visto il coinvolgimento di parte di questi lavoratori in occupazioni di breve durata o in contratti "fittizi", spesso stipulati per permettere loro appunto la regolarizzazione del soggiorno e cessati una volta ottenuta.
La qualità del lavoro
Ma se promuovere l'occupazione è sicuramente una sfida considerevole, ancor più difficile è quella di sviluppare "lavoro di qualità". Anche nella primavera del 2007 il Consiglio europeo sottolinea l'importanza della qualità del lavoro e dei principi che ne stanno alla base: i diritti dei lavoratori, le pari opportunità, retribuzioni adeguate alla produttività, la formazione permanente, la sicurezza e la protezione della salute sul luogo di lavoro, nonché un'organizzazione del lavoro più favorevole anche alla vita familiare.
La "flessisicurezza" e la formazione permanente
Per creare e garantire lavoro di qualità, le imprese e i lavoratori dovranno in primo luogo dar prova di una maggiore capacità di anticipare, provocare e assorbire i cambiamenti e le ristrutturazioni richieste da un'economia basata sulla conoscenza, che vede la ridistribuzione delle risorse a favore dei settori e dei lavori più competitivi in Europa, a fronte anche dell'apertura dei mercati internazionali. Ai lavoratori è richiesta una maggiore propensione alla mobilità e alla flessibilità per meglio adeguarsi ai nuovi bisogni delle imprese, ma nel contempo si dovranno adottare tutte le misure possibili per garantire loro una maggiore sicurezza occupazionale, riducendone la vulnerabilità rispetto alle incertezze nel mercato del lavoro, e favorire la possibilità di progredire sul piano professionale e, conseguentemente, di avere un'adeguata evoluzione del salario. A tal fine un ruolo centrale viene attribuito alla formazione permanente, che vuole essere un'opportunità offerta a tutti, in quanto dovrebbe aiutare i lavoratori a far fronte ai cambiamenti rapidi, ai periodi di disoccupazione e alla transizione verso una nuova occupazione. Un'attenzione particolare deve essere riservata all'accesso all'apprendimento permanente per i lavoratori meno qualificati, per il personale delle piccole-medie imprese e per i lavoratori di età superiore ai 45 anni.
Inoltre, l'apprendimento permanente è essenziale, non solo per aumentare la competitività, l'occupabilità e la prosperità economica, ma è anche uno strumento valido per l'inclusione sociale, la cittadinanza attiva nonché la realizzazione personale. L'aggiornamento e il miglioramento delle competenze degli adulti è misurato dal Consiglio europeo con l'adozione di un parametro che prevede che il 12,5% della popolazione adulta in età 25-64 anni parteciperà all'apprendimento permanente entro il 2010. Al 2005 l'UE25 supera di poco il 10%, quasi tre punti percentuali in più rispetto al dato di cinque anni prima, al di sotto l'Italia e la nostra regione nel 2006 con un tasso rispettivamente del 6,9% e del 7,3%; ottima la performance dei Paesi nordici, che a distanza di cinque anni dal termine fissato per il raggiungimento dell'obiettivo, si trovano già molto al di sopra del target: prima fra tutte la Svezia, dove oltre il 32% della popolazione 25-64 anni dichiara di frequentare un corso di studio o di formazione professionale, seguono a ruota Regno Unito e Danimarca con oltre il 27%. In Italia primeggiano le regioni di Lazio e Trentino Alto Adige, entrambe con un valore pari all'8,4% (Figura 4.5).
Ma per la piena partecipazione all'apprendimento permanente lungo tutto l'arco della vita e per una crescita professionale è indispensabile avere una preparazione di base adeguata, ossia almeno aver completato l'istruzione secondaria superiore. Purtroppo in Europa, il livello di istruzione è però ancora distante dal raggiungere quello richiesto per garantire la disponibilità delle competenze necessarie sul mercato del lavoro e la produzione di nuove conoscenze da diffondere successivamente nell'insieme dell'economia. Secondo l'obiettivo concertato a Lisbona si è fissato, infatti, che entro il 2010 almeno l'85% dei giovani dovrebbe completare come minimo l'istruzione secondaria superiore, ma al 2005 la percentuale della popolazione in età 20-24 anni in possesso di almeno il diploma di scuola secondaria superiore nell'UE25 è pari al 77,5%, solamente quasi un punto percentuale in più rispetto al dato del 2000. In Italia la situazione è anche meno buona, sebbene nel giro di un anno sia stata spettatrice di una crescita di quasi due punti percentuali: nel 2006 si attesta ancora su un valore più basso della media europea ed è pari a circa il 75%; migliore, invece, e in gran recupero la condizione del Veneto che nell'ultimo anno registra un tasso dell'81,6%, quasi cinque punti percentuali al di sopra del dato del 2005.
Alla luce di quanto appena detto, ulteriore è l'impegno richiesto alla nostra regione, e ancora di più all'Italia, in termini di investimenti in istruzione e formazione di manodopera altamente qualificata e adattabile, per sostenere la crescita della produttività, rispondere ai cambiamenti strutturali e far fronte a un mercato del lavoro più dinamico e innovativo fondato su tecnologie sempre nuove e più competitive; solo le economie che dispongono di una manodopera qualificata sono maggiormente in grado di creare e utilizzare efficacemente le nuove tecnologie.
La qualità del lavoro espressa dai laureati
Secondo l'indagine sulla condizione occupazionale dei laureati svolta dal Consorzio Interuniversitario Almalaurea (Nota 1), se emerge che il trattamento retributivo non è proprio dei migliori, in compenso risulta nel complesso buona la valutazione espressa dagli occupati sulle proprie condizioni lavorative. L'indice di qualità del lavoro proposto nell'indagine fa riferimento a differenti aspetti dell'attività lavorativa svolta, alcuni oggettivi, come il contratto di lavoro, altri soggettivi e legati alla percezione individuale del laureato, quali la necessità del titolo universitario per l'esercizio dell'attività lavorativa, il livello di utilizzo delle competenze acquisite durante gli studi e la soddisfazione per diversi aspetti del lavoro svolto, come le prospettive di carriera o di guadagno e l'aumento di professionalità. A livello nazionale l'indice evidenzia una situazione già buona ad un anno dal conseguimento del titolo e la qualità del lavoro sembra migliorare col passare del tempo. Infatti, considerato che l'indicatore proposto può assumere un punteggio tra 0 e 100, dove 100 indica la situazione lavorativa qualitativamente più favorevole, negli ultimi 3-4 anni il 50% degli occupati già ad un anno dalla laurea ritiene di svolgere un'attività che complessivamente risponde abbastanza alle aspettative del momento, assegnando un punteggio superiore o uguale a 69; con il passare degli anni la qualità percepita del lavoro migliora tanto che il giudizio espresso raggiunge un punteggio mediano di 77 a tre anni di distanza dal conseguimento del titolo di studio universitario e di 81 dopo cinque anni. Anche il mercato lavorativo veneto sembra offrire alla maggior parte dei laureati condizioni lavorative adeguate e soddisfacenti: infatti, in linea con la situazione nazionale, se si considera la condizione lavorativa dei laureati nel 2006, a tre anni dalla laurea e quindi superata la prima fase di orientamento e raggiunta una maggiore maturità lavorativa, nel 50% dei casi il livello della qualità espressa supera il punteggio di 77 su un massimo di 100.
Le professioni per crescere
E se la componente di capitale umano altamente qualificato è una premessa basilare per la capacità innovativa di regioni e Paesi, l'Università è il soggetto prioritariamente coinvolto nel sistema di sviluppo del Paese. Gli occhi sono puntati in parte sul miglioramento delle competenze degli adulti, ma particolarmente sui giovani, per i quali è importante non solo imparare una professione spendibile sul mercato del lavoro, ma soprattutto acquisire quel bagaglio di conoscenze fondamentali per saper contribuire alla crescita dell'innovazione e competere nelle nuove economie.
La nostra identità
Secondo la strategia di Lisbona è necessario formare un numero adeguato di scienziati, maggiormente in grado di utilizzare efficacemente le nuove tecnologie emergenti, e quindi incoraggiare la crescita di laureati in matematica, scienze e tecnologia, il cui numero nell'Unione Europea dovrebbe aumentare almeno del 15% entro il 2010, cercando anche di ridurre lo squilibrio tra i sessi. Se si considera la fascia di età 20-29 anni, si evidenzia che sia a livello nazionale che nel Veneto i laureati in queste materie sono in costante crescita; negli anni, inoltre, la nostra regione presenta quasi sempre una situazione migliore della media italiana (Figura 4.6).
E' anche vero che tra gli oltre 21.600 laureati nel Veneto nel 2005, circa il 13% esce da Lettere e Filosofia, segue Medicina e Chirurgia (12,6%), terza la facoltà di Ingegneria (11,4%).
Inoltre, nell'anno accademico 2005/2006 ancora molti sono i giovani che decidono di frequentare un corso di laurea di tipo umanistico nella nostra regione: il 12,4% degli immatricolati si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia rispetto all'8,4% e all'8,1% di Ingegneria e di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. E considerando la totalità degli iscritti, la facoltà che accoglie più iscrizioni, sebbene in calo in questi anni, è proprio Lettere e Filosofia con quasi il 14% del totale. Terza Ingegneria nella graduatoria per la maggiore percentuale di iscritti nelle facoltà venete (quasi il 10%), quinta invece Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali (7%) (Figura 4.7).
La nostra regione continua, quindi, a mantenere un'identità di tipo umanistico rispetto ad altre regioni europee dove prevale, invece, una cultura radicata tecnico-scientifica dei percorsi universitari e che quindi si trovano già di conseguenza più in grado a soddisfare le esigenze del mercato del lavoro attuale e delle nuove tecnologie. E' anche vero, però, che spesso i laureati nelle materie umanistiche, nella nostra società, in continuo e rapido cambiamento, riescono ad inserirsi in professioni diversificate, anche non apparentemente legate alle discipline di studio, grazie alla loro versatilità, alla capacità di risolvere problemi insoliti in modo creativo, contribuendo anche loro per aspetti diversi alla crescita dell'innovazione. Creatività, inventiva e capacità di sviluppare e applicare nuove conoscenze costituiscono il principale vantaggio competitivo sul quale far leva nel lungo periodo.
Le professioni che premiano
Al di là della laurea conseguita, è soprattutto molto importante verificare, nel mercato lavorativo attuale, quali siano le condizioni occupazionali e professionali dei laureati dopo un certo periodo dalla laurea. Le difficoltà che i sistemi produttivi locali hanno affrontato in questi ultimi anni sono collegate al ritardo nell'adozione di modelli organizzativi e gestionali più orientati alla economia basata sulla conoscenza; la capacità innovativa dei sistemi dipende in prima istanza dalla disponibilità di risorse umane con un elevato livello di istruzione formale e adeguate abilità professionali, con competenze trasversali che rispondano maggiormente alle nuove esigenze del mercato e che vanno oltre alla cultura del "saper fare" specifico.
Secondo la più recente indagine sulla condizione occupazionale dei laureati svolta dal Consorzio Interuniversitario Almalaurea nel 2006, in Italia la quota dei giovani che sono occupati, dopo un anno dal conseguimento del titolo universitario, è pari rispettivamente al 53% per coloro che si sono laureati con il vecchio ordinamento e al 27% per i laureati di primo livello post-riforma, cui si aggiunge un ulteriore 17% se si considerano quanti lavorano e sono al contempo iscritti ad una laurea specialistica; tra i laureati di primo livello, comunque, la maggior parte decide di frequentare solamente l'università e concludere così il ciclo completo di studi (il 45%) e solo il 7% cerca un impiego. Migliore la situazione veneta: infatti, i laureati veneti pre-riforma che lavorano ad un anno dalla laurea sono già il 66% e il 32% quelli con solo la laurea di primo livello, cui si aggiunge un'altra quota, pari a un valore del 17%, di occupati ma iscritti anche alla laurea specialistica. Più favorevole ancora la situazione dei residenti in Veneto se si considera poi la condizione occupazionale dei laureati trascorsi più anni dalla laurea: dopo tre anni l'83% lavora contro il 74% a livello nazionale, mentre solo meno del 7% cerca un impiego, metà della quota complessiva italiana (più del 13%) (Figura 4.8).
Per quanto riguarda le lauree conseguite secondo il vecchio ordinamento, quelle che forniscono le più rapide prospettive di occupazione in Italia sono le lauree di tipo tecnico-scientifico, prima fra tutte Ingegneria che offre uno sbocco occupazionale a ben il 76% dei ragazzi usciti dall'università da meno di un anno; per i residenti in Veneto, invece, quelli che riescono a inserirsi più velocemente nel mercato del lavoro sono i laureati della facoltà di Scienze della Formazione (88%), seguono poi, comunque, i laureati dei corsi di studio tecnico-scientifico, ultima comprensibilmente Giurisprudenza dal momento che la maggior parte dei suoi studenti devono poi affrontare, come i laureati in Medicina, altri anni di studio e praticantato (Figura 4.9).
A distanza di un anno dal conseguimento del titolo di studio, ad oltre il 37% dei laureati che risultano occupati nel mercato lavorativo veneto hanno offerto un lavoro stabile e la quota sale fino a quasi il 77% dopo cinque anni; più usate per i primi inserimenti lavorativi le forme contrattuali atipiche e flessibili (complessivamente nel 46% dei casi), che nel giro di qualche anno vengono però proposte a meno di un quarto dei ragazzi. In generale, a livello nazionale le modalità contrattuali di primo inserimento lavorativo si allineano con quanto riesce ad offrire il nostro mercato, solo più numerosi, anche se di poco, quanti scelgono il lavoro autonomo e chi inizia con un contratto di collaborazione. A distanza di anni, invece, nel Veneto più frequentemente il lavoro precario si trasforma in un'occupazione stabile; infatti a livello nazionale dopo cinque anni trova un impiego fisso il 71% dei laureati occupati, sei punti percentuali in meno rispetto al dato veneto. In linea con gli orientamenti comunitari ed in funzione del raggiungimento degli obiettivi della Strategia di Lisbona, gli interventi anche della nostra regione si propongono di cercare di garantire occupazione e migliori condizioni di lavoro, cercando tra l'altro di incrementare a tal fine i rapporti e le sinergie tra il sistema universitario e i contesti produttivi territoriali (Figura 4.10).
Scienze della Formazione, Ingegneria, Scienze Politiche e Medicina sono le facoltà che vedono più velocemente inseriti i propri laureati nel mercato del lavoro veneto con un contratto stabile dopo un solo anno dalla laurea, ma a distanza di pochi anni sono soprattutto Ingegneria e Architettura i corsi di laurea che offrono ai propri laureati prospettive lavorative attraenti a condizioni interessanti: infatti, si rileva che il 90% degli ingegneri e l'88% degli architetti trova un impiego sicuro nel giro di cinque anni. Segno probabile in parte del progressivo affermarsi di campi specialistici di ricerca e lavoro sempre più precisi in un mercato lavorativo innovativo, fondato su persone con adeguati skill professionali preparati a sfruttare le nuove e più competitive tecnologie che esistono ed esisteranno nel futuro più prossimo.
Ma che retribuzioni ricevono le nuove leve altamente qualificate?
In linea con la situazione nazionale, a dodici mesi dalla laurea, il guadagno mensile netto dei laureati del vecchio ordinamento, che in questo periodo sono riusciti a trovare un lavoro nella nostra regione, è poco più di 1.000 euro, in crescita rispetto alle precedenti rilevazioni, mentre a cinque anni dal conseguimento del titolo la retribuzione mensile supera i 1.300 euro. Si tratta di stipendi non molto elevati se si considerano tutti gli anni spesi nello studio, le capacità acquisite nel frattempo dai giovani e la loro età quando escono dall'ambiente accademico e fanno il loro vero ingresso nel mondo del lavoro; si potrebbe pensare che le imprese tendano ancora a non attribuire al neolaureato alcun particolare valore distintivo tale da meritare una retribuzione superiore ai possessori di titoli più bassi.
Inoltre, vi sono rilevanti scostamenti retribuitivi rispetto alla media a seconda del gruppo di corsi di laurea: in linea con la situazione nazionale complessiva, guadagni più elevati sono percepiti dai laureati dei gruppi medico, farmaceutico, economico ed ingegneristico. All'estremo opposto, si trovano i laureati dei gruppi insegnamento letterario e, soprattutto, psicologico (Figura 4.11).
Il maggiore o minore guadagno si combina anche con la considerazione che i laureati hanno sull'efficacia della laurea conseguita, giudizio che si basa sul fatto che il titolo di studio posseduto sia stato esplicitamente richiesto per il lavoro svolto e sul livello di utilizzazione delle competenze apprese all'università; emerge, infatti, che gli occupati neolaureati con i trattamenti retributivi migliori in Veneto sono anche quelli che considerano piuttosto efficace il tipo di laurea conseguita. Invece, la valutazione positiva espressa dai laureati sull'efficacia del proprio titolo di studio non è strettamente legata al fatto di aver trovato un'occupazione stabile. In generale, se si considera la totalità delle facoltà, già ad un anno dalla laurea, l'efficacia risulta complessivamente buona, il 78% dei laureati che lavorano in Veneto si sentono soddisfatti dell'utilizzo del loro titolo di studio al lavoro, sebbene meno della metà sia impiegato in un'occupazione stabile (Figura 4.12).
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Note
- Si tratta di un'indagine campionaria rivolta ai laureati di 40 atenei italiani fra cui quelli veneti
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Figura 4.1 |
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Figura 4.2 |
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Figura 4.3 |
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Figura 4.4 |
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Figura 4.5 |
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Figura 4.6 |
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Figura 4.7 |
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Figura 4.8 |
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Figura 4.9 |
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Figura 4.10 |
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Figura 4.11 |
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Figura 4.12 |
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I numeri del capitolo 4 |
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